Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 27260 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 27260 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 21/10/2024
ORDINANZA
sul ricorso n. 16791/2021 r.g. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, in persona del suo legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’AVV_NOTAIO e dall’AVV_NOTAIO, in virtù di procura speciale in calce al ricorso, i quali chiedono di ricevere le comunicazioni presso gli indirizzi di posta elettronica certificata indicati.
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’AVV_NOTAIO, in virtù di procura speciale in calce al controricorso, il quale dichiara di voler ricevere le comunicazioni e notificazioni all’indirizzo pec indicato
– controricorrente –
avverso l ‘ordinanza della Corte di appello di Cagliari, Sezione Distaccata di Sassari, n. 2744/2020, depositata in data 4 dicembre 2020;
RILEVATO CHE:
RAGIONE_SOCIALE acquistava dal RAGIONE_SOCIALE), per un investimento di natura produttivo-industriale, i seguenti terreni del Comune di Olbia: 1) NCT foglio 33, mappale 838 (ex 740/A) e 822 per una superficie complessiva di ha 1.39.44; foglio 13, mappale 839, 1105 e 1106 per una superficie complessiva di ha 23.12.
Successivamente, il RAGIONE_SOCIALE, volendo riacquistare i terreni, ai sensi dell’art. 63 della legge n. 448 del 1998, depositava ricorso presso il tribunale di Tempio Pausania per la determinazione del solo valore degli stabilimenti realizzati, chiedendo la nomina di un perito.
Il tribunale nominava il AVV_NOTAIO NOME AVV_NOTAIO, che depositava la relazione scritta il 4/6/2018, con indicazione del valore complessivo degli stabilimenti pari ad euro 849.000 00.
Avverso tale stima, in data 2/7/2018, proponeva opposizione, ai sensi degli articoli 702bis c.p.c. e 29 del d.lgs. n. 150 del 2011, il RAGIONE_SOCIALE.
In particolare, il RAGIONE_SOCIALE reputava congruo il valore complessivo di euro 698.500,00.
La Corte d’appello di Cagliari disponeva CTU, nominando il AVV_NOTAIO COGNOME, che depositava la perizia, determinando il valore complessivo in euro 849.164,63, di cui euro 91.406,14 per il controvalore dei beni (ossia per il prezzo attualizzato, con rivalutazione interessi) ed euro 757.758,49 per i miglioramenti effettuati sul suolo oggetto di retrocessione (fabbricati).
Successivamente, la Corte d’appello liquidava l’indennità da corrispondersi a NOME COGNOME nella somma di euro 849.165,26, di cui euro 757.758,49 per i fabbricati illegittimamente edificati, ed euro 91.406,77 per il prezzo attualizzato di acquisto delle aree, ordinando alla RAGIONE_SOCIALE il pagamento del relativo importo.
In particolare, in motivazione la Corte territoriale, dopo aver condiviso le risultanze della CTU, anche se il valore dei fabbricati era stato determinato in misura inferiore (euro 757.758,49) a quella individuata dal perito nominato dal tribunale ai sensi dell’art. 63 della legge n. 448 del 1998 (euro 849.000,00), ha aggiunto di non condividere le osservazioni alla CTU articolate dal RAGIONE_SOCIALE.
Quest’ultimo, infatti, aveva chiesto di valutare anche «idoneità degli immobili espropriandi allo svolgimento dell’attività imprenditoriale prevista e consentita».
Sul punto, peraltro, la Corte d’appello evidenziava non solo che «l fine della stima del valore venale degli edifici non rilevano infatti le finalità pubblicistiche perseguite dal RAGIONE_SOCIALE e ancor meno le concrete modalità di futuro reimpiego dei beni ablati», ma anche che il CTU aveva «determinato con metodo tecnicamente valido e immune da vizi logici, evidenziando anche lo stato attuale di carente manutenzione, provvedendo a tali fini a un abbattimento del valore anche fino al 25% (per esempio per l’impianto di depurazione)».
Avverso tale ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il RAGIONE_SOCIALE.
Ha resistito con controricorso la RAGIONE_SOCIALE, depositando anche memoria scritta.
CONSIDERATO CHE:
Con il primo motivo di impugnazione il ricorrente deduce la «violazione e/o falsa applicazione dell’art. 63, comma 3, della legge n. 448 del 1998».
In particolare, per il ricorrente nella determinazione del valore degli stabilimenti da riacquistare deve tenersi conto anche della «eventuale possibilità di riutilizzo dei fabbricati esistenti, ed in particolare se questi possano essere ritenuti idonei per una nuova intrapresa di carattere industriale».
Tanto più che nel contratto di cessione originario si prevedeva una riduzione del prezzo di acquisto nel caso in cui l’ente procedente ed il futuro assegnatario non avessero potuto ottenere alcuna utilità dallo sfruttamento dei manufatti parzialmente edificati, in quanto non funzionali oppure non corrispondenti per tipologia e collocazione alle esigenze correlate ad un nuovo investimento produttivo da programmarsi, oppure laddove gli stessi costituissero addirittura un costo derivante dalla necessità di procedere alla loro demolizione.
Nella clausola, contenuta nel contratto del 6/7/2001, si prevedeva che «nel caso di mancato verificarsi della condizione, per i motivi di cui sopra, l’acquirente avrà unicamente diritto, per le opere eseguite, al rimborso della minor somma fra lo speso ed il migliorato e nei limiti della utilizzazione che può trarne l’ente venditore».
Avrebbe errato, dunque, la Corte d’appello ad affermare che l’osservazione critica del RAGIONE_SOCIALE fosse priva di pregio, in quanto il CTU aveva applicato al valore dei fabbricati, stimato con il metodo del costo di riproduzione, un apposito indice di vetustà che tenesse conto dell’attuale stato di manutenzione».
Una lettura sistematica della normativa di settore non poteva prescindere dalle finalità pubblicistiche perseguite dall’ente.
Inoltre, il CTU, così come la Corte d’appello, non hanno preso in considerazione quanto «convenzionalmente pattuit dalle parti al momento della originaria assegnazione delle aree».
Il motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.
2.1. Invero, a prescindere dalla mancata indicazione del vizio nella griglia impugnatoria di cui all’art. 360 c.p.c., in primo luogo il motivo non è autosufficiente, in quanto dovendosi interpretare una clausola negoziale, in modo difforme da quanto effettuato dal giudice di merito, il ricorrente avrebbe dovuto trascrivere, anche se non integralmente, almeno per stralci, il contenuto del contratto di cessione del 6/7/2001, riportando l’intero testo della clausola, e non soltanto una parte della stessa.
Peraltro, il motivo è anche nuovo, in quanto non risulta dalla sentenza di appello che nel giudizio di merito si sia affrontata la questione della interpretazione della clausola convenzionale apposta nell’originario atto di cessione.
2.2. Il motivo è inammissibile anche perché trattandosi dell’interpretazione di una clausola negoziale, il ricorrente avrebbe dovuto indicare i criteri di ermeneutica contrattuale eventualmente violati, con l’analitica indicazione dei diversi criteri interpretativi da utilizzare.
Si è costantemente ritenuto, infatti, che la parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale, non può limitarsi a richiamare le regole di cui agli articoli 1362 e seguenti c.c., avendo invece l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati, ed in particolare il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza
impugnata, poiché quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Cass., n. 6156 del 2019; Cass., n. 28319 del 2017; Cass., n. 16987 del 2018; Cass., n. 5647 del 2019; Cass., n. 6125 del 2014; Cass., n. 16254 del 2012; Cass., n. 24539 del 2009).
2.3. Inoltre, in sostanza il ricorrente chiede una nuova e diversa valutazione degli elementi istruttori, già congruamente valutati dal giudice di merito, non consentita in questa sede.
Con il ricorso per cassazione, infatti, la parte non può rimettere in discussione, proponendo una propria diversa interpretazione, la valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie operate dai giudici del merito poiché la revisione degli accertamenti di fatto compiuti da questi ultimi è preclusa in sede di legittimità (Cass., sez. 6-5, 7/12/2017, n. 29404; Cass., sez. 5, 4/8/2017, n. 19547).
La Corte territoriale, con motivazione analitica ha condiviso le conclusioni del CTU, peraltro in linea con quelle del perito nominato dal tribunale ai sensi dell’art. 63 della legge n. 448 del 1998.
Infatti, il CTU ha stimato i soli fabbricati nella somma di euro 757.758,49, mentre il perito nominato dal presidente del tribunale nell’ambito del procedimento di volontaria giurisdizione – li aveva stimati in euro 849.000,00; il CTU, quindi, aveva già operato una decurtazione.
Nella motivazione, poi, si chiarisce che vi è stato un abbattimento del valore anche fino al 25%, dovendosi tenere conto delle effettive condizioni del fabbricato («il consulente ha applicato al valore dei
fabbricati, stimato col metodo del costo di riproduzione, un apposito indice di vetustà che tenesse conto dell’attuale stato di manutenzione ha determinato con metodo tecnicamente valido e immune da vizi logici, evidenziando anche lo stato attuale di carente manutenzione, provvedendo a tali fini un abbattimento del valore anche fino a 25% – per esempio per l’impianto di depurazione -»).
Il quadro normativo è rappresentata dall’art. 63 della legge 23/12/1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo RAGIONE_SOCIALE).
Al primo comma dell’art. 63 suddetto si prevede che « consorzi RAGIONE_SOCIALE industriale di cui all’art. 36 della legge 5 ottobre 1991, n. 317, nonché quelli costituiti ai sensi della vigente legislazione delle regioni a statuto speciale, hanno la facoltà di riacquistare la proprietà delle aree cedute per intraprese industriali o artigianali nell’ipotesi in cui il cessionario non realizzi lo stabilimento nel termine di cinque anni dalla cessione».
Il secondo comma dell’art. 63 della legge n. 448 del 1998 dispone che «li stessi consorzi di cui al comma 1 hanno altresì la facoltà di riacquistare unitamente alle aree cedute anche gli stabilimenti industriali o artigianali ivi realizzati nell’ipotesi in cui sia cessata l’attività industriale o artigianale da più di tre anni».
Al terzo comma si chiarisce che «ell’ipotesi di esercizio delle facoltà di cui al presente articolo i consorzi dovranno corrispondere al cessionario il prezzo attualizzato di acquisto delle aree e, per quanto riguarda gli stabilimenti, il valore di questi ultimi come determinato da un perito nominato dal presidente del tribunale competente per territorio, decurtato dei contributi pubblici attualizzati ricevuti dal cessionario per la realizzazione dello stabilimento»
Inoltre, si prevede al quarto comma dell’art. 63 citato che «e facoltà di cui al presente articolo possono essere esercitate anche in presenza di procedure concorsuali» ed al quinto comma del medesimo articolo che «a Cassa depositi e prestiti è autorizzata a concedere mutui ai consorzi di RAGIONE_SOCIALE industriale per la realizzazione di infrastrutture industriali e per l’acquisizione di aree e di immobili da destinare agli insediamenti produttivi».
4. La giurisprudenza di questa Corte ha chiarito che la ratio dell’art. 63 della legge n. 448 del 1998 e quella di «favorire la concreta ripresa dell’attività economico-produttiva negli stabilimenti nei quali essa sia stata dismessa da almeno un triennio» (Cass., sez. 6-1, 23/11/2021, n. 36188, che richiama TAR Lazio, sez. IIbis , 15/5/2018, n. 5410).
È vero, dunque, che il procedimento di riacquisto disciplinato dall’art. 63 citato ha «natura espropriativa», ma si discosta dal procedimento ordinario per tutta una serie di peculiarità, giustificate dalla ratio dell’istituto.
In sostanza, già a monte della fase di assegnazione dell’area, la procedura è conformata in senso pubblicistico, in quanto «l’inclusione di un’area nel piano regolatore territoriale ed il suo conseguente assoggettamento a vincolo per la realizzazione di un insediamento ASI comportano ex lege dichiarazione di pubblica utilità delle opere ivi previste, facendo sorgere, in capo al RAGIONE_SOCIALE, i poteri esecutivi in ordine al procedimento espropriativo» (Cass., n. 36188 del 2021, che cita Cons. Stato, 664 del 2012; Cons. Stato, 47 3/7/2005; Tar Roma, Lazio, sez. I, 12/5/2021, n. 5583; Tar Latina, Lazio, sez. I, 18/4/2018, n. 206).
La procedura di «riacquisizione», , dunque, concerne un tipico procedimento amministrativo finalizzato alla tutela di un interesse di
natura pubblicistica, ossia volto alla reindustrializzazione delle aree oggetto di acquisto.
Trattasi di un diritto potestativo attribuito ai consorzi che deve intendersi come un diritto potestativo pubblico (Cass., n. 36188 del 2021, che richiama Cass., Sez. U., 3763 del 2009).
Di particolare rilievo e, poi, l’affermazione per cui «quella delineata dall’art. 63 sopra citato costituisce una complessa vicenda, all’interno della quale non è consentito distinguere fra risoluzione e riacquisto, in quanto la prima non rappresenta un antecedente autonomo del secondo, ma integra soltanto uno dei passaggi di una fattispecie unitaria, così che non può essere contestato in maniera separata e davanti ad un giudice diverso da quello amministrativo» (Cass., n. 36188 del 2021, che richiama Cass., Sez. U., n. 4462 del 2011; Cass. nn. 22809 e 22810 del 2010)
Pertanto, le controversie relative al procedimento discrezionale che porta alla riacquisizione dei beni ceduti ai privati, inadempienti agli obblighi imposti dalla legge o dal contratto, devono essere trattate dal giudice amministrativo.
Al contrario, la domanda relativa al prezzo il riacquisto, integrando una questione di tipo meramente patrimoniale deve essere conosciuta dal giudice ordinario (in tal senso anche Cons. Stato, sez. IV, 5/5/2016, n. 1800).
È stato anche chiarito che per individuare la disciplina specifica, con la quale integrare l’art. 63 della legge n. 448 del 1998, va individuata la natura giuridica del potere di riacquistare i cespiti.
Ed infatti, il potere di riacquistare beni produce, in maniera unilaterale, l’effetto privativo di un diritto reale altrui, la sottrazione dello stesso al titolare e il suo trasferimento un altro soggetto.
Elementi sintomatici della connotazione in senso pubblicistico della facoltà di riacquisto, ad opera dei consorzi, sono rappresentati
dalla determinazione autoritativa o comunque unilaterale del prezzo di acquisto dell’area e, eventualmente, anche dello stabilimento industriale o artigianale dismesso (previa stima ad opera di perito nominato dal presidente del tribunale), in base a quanto stabilito dall’art. 63, comma 3, della legge n. 448 del 1998, nonché dalla decurtazione, del prezzo da corrispondere, dell’ammontare dei contributi pubblici, eventualmente ricevuti dal concessionario per la realizzazione dello stabilimento e, infine, dalla possibilità di procedere alla riacquisizione anche se sia in corso una procedura fallimentare» (Cass., n. 36188 del 2021).
Si è, poi, chiarito che la controversia che sorge a seguito dell’esercizio da parte del RAGIONE_SOCIALE del potere di riacquisizione dei cespiti in precedenza ceduti, è contraddistinta da talune peculiarità, evidenziate anche dalla giurisprudenza amministrativa, «essendo l’istituto subordinato a presupposti, modalità e termini propri, non sovrapponibile al procedimento espropriativo delineato dal d.P.R. 327/2001» (Cass. n. 36188 del 2021).
Pertanto, la non fondatezza del motivo deriva dalla circostanza che la clausola contrattuale invocata ineriva all’intervenuta risoluzione del contratto per inadempimento dell’acquirente.
Ed infatti nel controricorso viene indicata la prima parte della clausola (art. 4) ove si legge che «la vendita viene espressamente condizionata al conseguimento da parte dell’acquirente della concessione edilizia alla costruzione dell’opificio ed all’esercizio dell’intervento produttivo autorizzato»).
Il ricorrente non ha in alcun modo indicato l’inadempimento in cui sarebbe incorso la società RAGIONE_SOCIALE.
Peraltro, una volta intervenuto il provvedimento di riacquisizione del cespite, attraverso l’intervenuta risoluzione del contratto di acquisto, viene meno anche la clausola contrattuale che era legata
alla validità di tale contratto, dovendosi ricordare che il binomio risoluzione-riacquisizione può essere scrutinato esclusivamente dal giudice amministrativo, in ragione della discrezionalità del provvedimento della pubblica amministrazione.
Il giudice ordinario, dunque, si occupa esclusivamente della quantificazione del valore degli immobili riacquistati.
Con il secondo motivo di impugnazione il ricorrente lamenta la «violazione e/o falsa applicazione dell’art. 63 della legge n. 448/1998».
Per il ricorrente sarebbe errata la sentenza della Corte d’appello laddove ha disposto l’ordine di pagamento nei confronti del RAGIONE_SOCIALE in favore della società RAGIONE_SOCIALE.
Ad avviso del ricorrente la Corte territoriale avrebbe errato nella valutazione circa l’obbligatorietà e non già la facoltà in capo al consorzio di concludere il procedimento e procedere alla definitiva riacquisizione delle aree del procedimento.
La riacquisizione rappresenta una facoltà, sicché risponde ad una valutazione del consorzio «anche a seguito dell’individuazione del valore delle aree e dei fabbricati realizzati, procedono o meno con il riacquisto».
La Corte territoriale, invece, avrebbe errato nell’ordinare al consorzio il pagamento del relativo importo in favore dell’avente diritto.
7. Il motivo è infondato.
Si è già evidenziato, infatti, che il procedimento di cui all’art. 63 della legge n. 448 del 1998 ha natura espropriativa, ma con tutte le peculiarità specifiche proprie.
Trattasi, come detto, di un diritto potestativo pubblico spettante al consorzio, volto alla riacquisizione delle aree originariamente cedute.
Ciò comporta che attraverso l’esercizio del diritto potestativo, cui consegue una mera soggezione da parte del privato, il consorzio torna proprietario dei beni originariamente venduti.
Il procedimento volto alla risoluzione ed alla riacquisizione degli immobili, pur se con le sue specificità, soprattutto in relazione all’assenza della dichiarazione di pubblica utilità, in quanto già l’inclusione di un’area nel piano regolatore territoriale ed il suo conseguente assoggettamento a vincolo comportano ex lege tale dichiarazione – ed anche con riferimento alla determinazione del prezzo di acquisto che differisce dall’indennizzo espropriativo – resta comunque nel solco del procedimento espropriativo (non applicandosi peraltro l’art. 54 del d.P.R. n. 327 del 2001, con riferimento al termine di 30 giorni per presentare l’opposizione alla stima dinanzi alla Corte d’appello).
Ne consegue che correttamente la Corte territoriale ha determinato il prezzo di stima dei beni, a fronte di un diritto potestativo pubblico già esercitato dal consorzio con il provvedimento di riacquisto del 14/4/2015, momento in cui è stato attualizzato il prezzo dell’acquisto originario.
Del resto, non è in atti alcun provvedimento di secondo grado dell’amministrazione con cui si è proceduto all’annullamento, alla revoca o alla sostituzione del precedente provvedimento di riacquisizione.
Senza contare che la giurisdizione in ordine a provvedimenti amministrativi relativi alla risoluzione ed al contestuale riacquisto, di natura unitaria, spetta al giudice amministrativo.
7.1. Deve, peraltro, darsi atto di una tesi dottrinale per cui il provvedimento di riacquisizione deve essere preceduto da una compiuta istruttoria, tesa ad accertare la sussistenza dei presupposti richiesti dall’articolo 63 e quale sia la situazione attuale, giuridica e
materiale, del compendio di beni da acquisire, oltre che a verificare quale sia l’entità dei contributi pubblici a vario titolo ricevuti dall’impresa che ha realizzato lo stabilimento (onde detrarli dal ‘prezzo’ di acquisto).
Pertanto, quando il perito nominato dal presidente del tribunale ha depositato la sua stima, il consorzio deve valutare la sostenibilità e la convenienza economica dell’operazione di acquisizione.
Si è ritenuto, dunque, in dottrina che, ove la valutazione sia negativa, il consorzio può rinunciare all’acquisizione, comunicando la conclusione del procedimento al proprietario.
Solo in caso di valutazione positiva il consorzio dovrebbe notificare al proprietario l’entità del prezzo che gli verrà corrisposto, ove il valore di stima dei beni da acquisire sia superiore all’ammontare attualizzato dei contributi pubblici ricevuti per la realizzazione dello stabilimento, indicando la banca presso la quale sarà accreditato ed indicando anche la data per l’immissione in possesso.
Si tratterebbe, allora, di un provvedimento composto, costituito dalla decisione iniziale di procedere all’acquisizione e dalla successiva deliberazione integrativa, relativa alla determinazione del prezzo ed alla comunicazione relativa alla immissione nel possesso.
Si configurerebbe una fattispecie a formazione progressiva, sicché la deliberazione iniziale del consorzio, di procedere alla riacquisizione del compendio immobiliare, potrebbe essere impugnata autonomamente, in quanto provoca effetti prodromici sul mercato delle aree produttive, scoraggiando eventuali acquirenti.
8. Tale tesi, però, non appare persuasiva.
In realtà, il testo della norma ed anche la sua ratio inducono a ritenere che il consorzio, una volta adottato il provvedimento di riacquisizione delle aree cedute, ne diventi effettivamente
proprietario, mentre la fase della determinazione del prezzo è successiva e costituisce un mero post factum , inidoneo ad integrare il trasferimento della proprietà, che si è già verificato con l’adozione del provvedimento di riacquisizione, ma funzionale alla determinazione del quantum spettante al proprietario che ha perso la titolarità del bene.
Le spese del giudizio di legittimità vanno poste, per il principio di soccombenza, a carico del RAGIONE_SOCIALE e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente a rimborsare in favore della controricorrente le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessivi euro 8.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, rimborso delle spese generali nella misura forfettaria del 15%, oltre Iva e cpa.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-q uater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso art. 1, se dovuto.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 9 ottobre 2024