Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 27359 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 27359 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 22/10/2024
ORDINANZA
sul ricorso n. 5324/2023 r.g. proposto da:
NOME RAGIONE_SOCIALE Y RAGIONE_SOCIALE SA de RAGIONE_SOCIALE Y RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE genarle per l’RAGIONE_SOCIALE -nella persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’AVV_NOTAIO, la quale chiede di ricevere le comunicazioni al proprio indirizzo di posta elettronica certificata indicato.
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore; RAGIONE_SOCIALE liquidazione, in persona del legale rappresentante pro tempore; RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore; RAGIONE_SOCIALE
RAGIONE_SOCIALE –RAGIONE_SOCIALE -Ufficio periferico di Caltagirone, ente incorporante RAGIONE_SOCIALE, in liquidazione.
– intimati – avverso la sentenza della Corte di appello di Catania, n. 1759/2022, depositata in data 16 settembre 2022;
RILEVATO CHE:
Con atto di vendita del 26/2/2002 il RAGIONE_SOCIALE trasferiva in favore della RAGIONE_SOCIALERAGIONE_SOCIALE) gli immobili di cui al foglio 51, particella 1231, Cat. D7, e foglio 59, particella 89.
Si prevedeva nel contratto di compravendita suddetto, la «condizione risolutiva espressa», nell’art. 10, lettera b), a mente della quale « Qualora la ditta acquirente non costruisca e non provveda all’attivazione degli impianti predetti nel termine sopra stabilito e non li mantenga in esercizio continuativo per almeno 10 anni, il contratto si intenderà risolto di diritto, convenendosi al riguardo la clausola risolutiva espressa. In tale eventualità l’acquirente sarà tenuto al rimborso di tutte le spese sostenute dal RAGIONE_SOCIALE in dipendenza del presente contratto ed alla sua risoluzione, nonché di tutti i danni relativi e conseguenti a quest’ultimo, ivi comprese le spese relative all’abbattimento e rimozione di opere ed attrezzature eventualmente già costruite nel terreno ceduto; rimborso da effettuarsi mediante trattenuta, da parte del RAGIONE_SOCIALE medesimo, sul prezzo di acquisto del terreno, il cui importo sarà restituito al concessionario, senza la corresponsione di alcun interesse, nella misura del 75%».
All’art. 10bis del contratto di compravendita si stabiliva espressamente che «è facoltà del RAGIONE_SOCIALE, in alternativa alla retrocessione di cui al punto 10, procedere alla riacquisizione del
bene tramite la procedura prevista dall’art. 63 della legge 448 del 23/12/1998».
Con provvedimento di revoca del 16/11/2004 il RAGIONE_SOCIALE deliberava di «a) revocare per motivi di preminente interesse pubblico nel perseguimento RAGIONE_SOCIALE finalità del RAGIONE_SOCIALE, il lotto precedentemente assegnato alla ditta RAGIONE_SOCIALE ; b) corrispondere alla ditta RAGIONE_SOCIALE l’acconto versato per l’acquisto del lotto secondo quanto disposto dall’art. 8 del Regolamento di Assegnazione dei lotti e, per quanto concerne lo stabilimento, quanto derivante dall’applicazione dell’art. 63 della legge 23/12/1998 n. 448».
In data 20/8/2007 il tribunale autorizzava la creditrice NOME al sequestro conservativo dei RAGIONE_SOCIALE immobili, dei RAGIONE_SOCIALE mobili e dei crediti di RAGIONE_SOCIALE, fino alla concorrenza di euro 500.000,00.
Successivamente, il tribunale, con sentenza n. 268 del 2011, pubblicata in data 28/7/2011 condannava RAGIONE_SOCIALE a pagare ad NOME la somma di euro 125.000,00. Condannava RAGIONE_SOCIALE a procurare la liberazione di NOME dall’obbligazione fideiussoria assunta in favore di RAGIONE_SOCIALE, mediante il pagamento della somma di euro 359.706,07.
Veniva avviata la procedura esecutiva immobiliare n. 138 del 2011, nella quale intervenivano anche l’RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE di Torino.
Il 3/10/2016 il G.E. chiedeva al creditore procedente il deposito degli atti necessari per dimostrare la proprietà attuale degli immobili.
Il creditore procedente NOME chiariva che il RAGIONE_SOCIALE, per riacquistare la proprietà dell’area ex art. 63 della legge n. 448 del 1998 avrebbe dovuto completare la procedura di acquisto della stessa con l’emissione del provvedimento autorizzativo di acquisto
della proprietà dell’area e dello stabilimento dimesso, analogo ad un decreto di esproprio, mai emesso.
Con provvedimento del 6/6/2017 il giudice dell’esecuzione disponeva che il creditore procedente provvedesse alla notifica all’RAGIONE_SOCIALE dell’atto di pignoramento.
Con provvedimento del 20/2/2018 il G.E. dichiarava estinto alla procedura esecutiva immobiliare, ritenendo il bene di proprietà del RAGIONE_SOCIALE e non della RAGIONE_SOCIALE, in base all’emissione della delibera di revoca, pur mancando il decreto di esproprio.
Avverso tale provvedimento proponeva reclamo ex art. 630 c.p.c. NOME contestando: 1) l’inammissibilità e illegittimità dell’ordinanza di estinzione per errata interpretazione ed applicazione dei principi di cui all’art. 63 legge 443/1998; 2) la nullità del provvedimento per violazione dell’art. 112 c.p.c.; 3) la nullità dell’ordinanza gravata per omesso esame della documentazione prodotta.
Il tribunale rigettava il reclamo, evidenziando che il procedimento di cui all’art. 63 della legge n. 448 del 1998 dava luogo ad una procedura espropriativa del tutto peculiare, sottoposta a regole speciali, derogatorie della procedura espropriativa ordinaria «per il cui perfezionamento non è necessaria l’emanazione di un decreto di esproprio».
Peraltro, aggiungeva il giudice di merito, la compravendita era assoggettata all’art. 23 della legge regionale n. 1 del 1984, in base al quale «al verificarsi della condizione risolutiva anzidetta, con la delibera del comitato direttivo del RAGIONE_SOCIALE, dovrà essere disposta la revoca della vendita e la restituzione alla ditta acquirente di una somma pari al 75% del prezzo pagato».
Ciò premesso, il tribunale respingeva il primo motivo di reclamo ritenendo che, in virtù dell’avveramento della condizione risolutiva
espressa, nonché dell’emanazione della delibera del 16/11/2004, l’area era stata trasferita immediatamente nella titolarità del venditore (RAGIONE_SOCIALE).
Si aggiungeva il provvedimento che non « necessaria anche l’emanazione di un decreto di esproprio ai fini del perfezionamento della fattispecie di acquisitiva».
Con la precisazione che ciò era «in linea, del resto con la disposizione, anche è applicabile al caso di specie, di cui all’art. 23 della legge regionale n. 1/1984 secondo cui ‘la delibera di revoca esplica tutti gli effetti e assume la medesima efficacia del provvedimento con il quale veniva dichiarata la vendita come non avvenuta ai sensi dell’art. 22 della legge regionale 21 aprile 1953, n. 30’. Pertanto, nel caso di specie, la delibera del RAGIONE_SOCIALE del 16/11/2004, come sostenuto dal G.E. ha al contempo finalità di risoluzione del contratto e di riacquisto dell’area, risultando il riacquisto atto dovuto e vincolato rispetto agli inadempimenti evidenziati».
Il tribunale respingeva anche il secondo motivo di reclamo, in quanto il giudice dell’esecuzione aveva esaminato la questione del prezzo di acquisto del bene solo incidentalmente, «non già sostituendosi al giudice ordinario» cui invece era «rimessa alla relativa valutazione», bensì «ai fini della completa disamina della particolare procedura espropriativa che viene in rilievo nel caso di specie, ossia quella di cui all’art. 63 legge 44/1998».
Il G.E. aveva anche chiarito che «la questione del pagamento del corrispettivo ai fini del riacquisto integra una questione meramente patrimoniale, che non incide comunque sulla titolarità del bene».
Il tribunale reputava non fondato anche il terzo motivo di reclamo con riferimento all’omesso esame della documentazione prodotta e, segnatamente, della visura eseguita in data 29/5/2017 sulla
particella in cui insisteva lo stabilimento industriale, che evidenziava l’assenza di annotazione della condizione risolutiva e di un successivo provvedimento ablatorio. Per il tribunale, invece, anche con riguardo allo stabilimento, veniva in rilievo la delibera di revoca del RAGIONE_SOCIALE del 16/11/2004, annotata nei registri immobiliari in data 16/3/2005 che, in linea con quanto disposto dall’art. 63 della legge 448 del 1998, aveva ad oggetto anche lo stabilimento realizzato sull’area oggetto di compravendita.
Con il primo motivo di appello la COGNOME lamentava la «confusione tra delibera di revoca e decreto di esproprio, conseguente all’inesatta lettura ed applicazione dell’art. 63 della legge 443/1998» effettuata dal primo giudice.
Ad avviso dell’appellante, la delibera di revoca non è il titolo di acquisto dell’area, stante la mancata emissione del decreto di esproprio. Si ritiene che la delibera di revoca produca «esclusivamente gli effetti della dichiarazione di pubblica utilità dell’intervento».
Inoltre, a giudizio dell’appellante, l’avveramento della condizione risolutiva espressa «non si produce automaticamente ma richiede una declaratoria giudiziale».
6.1. Per la Corte territoriale il motivo era in parte inammissibile ex art. 342 c.p.c., per mancanza di specificità, ed in parte infondato. Quanto alla infondatezza, parte appellante affermava erroneamente che l’avveramento della condizione risolutiva espressa non si produceva automaticamente ma richiedeva una declaratoria giudiziale, mentre, l’eventuale pronuncia giudiziale aveva solo valore dichiarativo di un effetto già realizzatosi con l’avveramento della condizione risolutiva.
6.2. Con il secondo motivo d’appello la NOME affermava che era vietata qualsiasi ingerenza del G.E. nella valutazione della
congruità dell’indennità espropriativa all’interno della procedura ex art. 63 della legge n. 448 del 1998, «di esclusiva competenza di altro Giudice, nella specie il Giudice ordinario».
Tale motivo è anch’esso reputato generico in quanto non si confrontava con la motivazione della sentenza di prime cure che aveva sostenuto che l’esame del prezzo di acquisto era stato esaminato solo incidentalmente.
6.3. Era infondato anche il terzo motivo di appello, in base al quale «se l’annotazione della clausola risolutiva produce l’effetto espropriativo, non si riesce a capire perché la mancanza della stessa in capo allo stabilimento industriale produca il medesimo effetto, ossia la riacquisizione in capo al RAGIONE_SOCIALE».
In realtà, per la Corte territoriale, non era l’annotazione della clausola risolutiva espressa a produrre l’effetto espropriativo, ma il suo avverarsi. Una volta che il terreno era entrato nel patrimonio del RAGIONE_SOCIALE, vi rientrava, in virtù del principio della accessione, anche tutto ciò ivi edificato.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione la RAGIONE_SOCIALE, depositando anche memoria scritta.
Sono rimaste intimate la RAGIONE_SOCIALE, l’RAGIONE_SOCIALE, l’RAGIONE_SOCIALE e l’RAGIONE_SOCIALE.
9.La Procura RAGIONE_SOCIALE, in persona del AVV_NOTAIO, ha rassegnato le conclusioni ex art. 380bis .1 c.p.c., chiedendo il rigetto del ricorso.
CONSIDERATO CHE:
Con il primo motivo di impugnazione la ricorrente deduce la «violazione e/o falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c.».
In particolare, la pronuncia della Corte d’appello sarebbe inficiata dalla motivazione apparente e incomprensibile.
Il motivo è infondato.
Infatti, la motivazione della Corte d’appello è presente, non solo graficamente, ma anche nella indicazione RAGIONE_SOCIALE ragioni logicogiuridiche che hanno condotto l’organo giudicante alla decisione finale.
In particolare, la Corte territoriale, con estrema chiarezza, dopo aver riportato il testo dell’art. 10, lettera b), del contratto di compravendita del 26/2/2002, come pure quello del successivo art. 10bis del medesimo contratto, ha ritenuto che il RAGIONE_SOCIALE aveva proceduto al riacquisto dell’area ai sensi dell’art. 63 della legge n. 448 del 1998, oltre che applicando anche l’art. 23 della legge regione Sicilia n. 1 del 1984.
Del tutto correttamente il tribunale aveva respinto il reclamo della RAGIONE_SOCIALE in quanto effettivamente il RAGIONE_SOCIALE aveva deliberato di revocare con provvedimento del 16/11/2004, per motivi di preminente interesse pubblico il lotto precedentemente assegnato, con la conseguenza che l’area era immediatamente rientrata nella titolarità del venditore, senza che fosse necessaria anche l’emanazione del decreto di esproprio.
La Corte d’appello ha chiarito, in modo limpido, che il primo motivo di appello della NOME era inammissibile in parte, in quanto non aveva preso posizione, al fine di confutarla, sulla porzione di motivazione relativa al trasferimento della proprietà, avvenuto sulla scorta del provvedimento di revoca del 16/11/2004.
La Corte territoriale ha infatti rimarcato che l’appellante non ha opposto «argomentazioni contrarie avverso quella parte della motivazione con cui il tribunale afferma che il ritrasferimento in capo al RAGIONE_SOCIALE dei RAGIONE_SOCIALE pignorati è avvenuto, in ogni caso – e cioè, anche a prescindere dalla procedura prevista dal citato articolo 63 in virtù dell’avveramento della condizione risolutiva espressa contenuta nell’atto di acquisto».
Sul punto la Corte d’appello ha riportato il passaggio motivazionale della sentenza impugnata, ove si legge che «in virtù dell’avveramento della condizione risolutiva espressa (circostanza incontestata ai fini che qui interessano) e dell’emanazione della delibera di revoca da parte del RAGIONE_SOCIALE l’area de qua è immediatamente rientrata nella titolarità del venditore, giusto, peraltro, il disposto dell’art. 23 della legge regionale n. 1/1984, così come inteso dalla giurisprudenza sopra richiamata, senza che fosse necessaria anche l’emanazione di un decreto di esproprio ai fini del perfezionamento della fattispecie acquisitiva de qua».
Inoltre, la Corte d’appello ha aggiunto che il motivo era anche infondato nella parte in cui parte appellante reputava che l’avveramento della condizione risolutiva espressa non si producesse automaticamente, ma richiedesse una declaratoria giudiziale, sul punto si è precisato che l’eventuale pronuncia giudiziale «ha solo valore dichiarativo di un effetto giuridico già realizzatosi con l’avveramento della condizione risolutiva, avveramento di cui non può che prendersi atto».
Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente lamenta la «violazione e/o falsa applicazione dell’art. 63 della legge 443 del 1998, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.».
La Corte territoriale avrebbe violato l’art. 63 della legge n. 446 del 1998. Si richiama, in particolare, la giurisprudenza
amministrativa (si cita Cons. Stato, n. 197 del 2008), in base alla quale il procedimento di cui all’art. 63 della legge n. 448 del 1998 dovrebbe seguire il procedimento ordinario di espropriazione di cui al d.P .R. n. 327 del 2001, essendo necessaria, allora, la previa comunicazione di avvio del procedimento di riacquisizione dell’area, trattandosi di un procedimento coattivo di acquisizione di un bene di proprietà privata per ragioni di pubblico interesse.
Dovrebbero essere richiamate, dunque, «tutte le disposizioni generali in tema di espropriazione», con la conseguenza che la delibera di revoca «costituisce il primo atto di una fattispecie a cui partecipa l’atto definitivo di acquisto».
Solo una volta esaurite le fasi di valutazione del prezzo dei RAGIONE_SOCIALE, anche attraverso il procedimento di volontaria giurisdizione dinanzi al presidente del tribunale, con riferimento alla stima dei fabbricati, sarebbe possibile emanare «il provvedimento di acquisto della proprietà dell’area e dello stabilimento dismesso».
Ma si tratterebbe di un provvedimento autoritativo che «presenta caratteristiche analoghe al decreto di esproprio», con integrazione del procedimento di cui all’art. 63 della legge n. 448 del 1998 «con le disposizioni previste dagli articoli 20 e seguenti del d.P.R. n. 327 del 2001».
Di conseguenza – ad avviso della ricorrente – «La riacquisizione non si produce autonomamente con la delibera di revoca e l’annotazione della condizione risolutiva, bensì con l’emissione di un decreto ex art. 42bis T.U. n. 327/2001».
Il titolo legittimante della proprietà, dunque, non potrebbe essere sostituito da una delibera di revoca, «non confondibile con un provvedimento ablatorio, statuente la riacquisizione in capo al RAGIONE_SOCIALE e il pagamento dell’indennizzo nella misura del 75% del prezzo corrisposto».
Pertanto, proseguendo nel suo ragionamento, la ricorrente reputa che «a mancanza del provvedimento ablatorio legittima la sussistenza della proprietà in capo all’esecutato».
La delibera di revoca, dunque, «attesta, nella sequenza procedimentale, «la dichiarazione di pubblica utilità dell’intervento, ma non il titolo di acquisto dell’area in capo al RAGIONE_SOCIALE, che si sarebbe concretata solo con l’adozione del decreto di esproprio, per cui la riacquisizione non si produce autonomamente con la delibera di revoca e l’annotazione della condizione risolutiva, bensì con l’emissione di un decreto ex art. 42bis T.U. n. 327/2001».
Con il terzo motivo di impugnazione la ricorrente si duole della «violazione e/o falsa applicazione dell’art. 63 legge 448 del 1998 e art. 1456 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.».
Per la Corte d’appello l’avveramento della condizione risolutiva espressa si produrrebbe automaticamente, non attraverso una declaratoria giudiziale. L’eventuale pronuncia giudiziale avrebbe solo valore dichiarativo di un effetto giuridico già realizzatosi con l’avveramento della condizione risolutiva, avveramento di cui non può che prendersi atto.
Tale affermazione incorrerebbe nella violazione dell’art. 63 della legge n. 448 del 1998 e dell’art. 1456 c.c.
L’annotazione della clausola risolutiva espressa avrebbe solo effetto valutativo e non traslativo della proprietà. Le norme disciplinanti l’assegnazione dei lotti industriali inseriti nell’atto deliberativo nell’atto di cessione, allegato alla compravendita, hanno natura pubblica disciplinante le condizioni di assegnazione dei lotti. Pertanto, non potrebbe qualificarsi come di natura privatistica la clausola risolutiva prevista dall’art. 10, lettera b) del contratto del 26/2/2002, bensì pubblicistica «e legittimante, per la sua operatività, anche nei confronti dei terzi l’avvio della procedura
ablatorio ex art. 63 legge 448 del 1998 e, in ogni caso, una declaratoria giudiziale».
La Corte d’appello avrebbe dunque applicato in modo erroneo la normativa civilistica, non afferente invece alla fattispecie, con il richiamo non pertinente di pronunce della Corte di legittimità (si cita Cass., 26/11/2021, n. 36918).
Il secondo ed il terzo motivo di impugnazione, che vanno trattati congiuntamente per evidenti ragioni di connessione, sono infondati.
5.1. I fatti di causa vengono riportati in modo succinto.
La creditrice NOME ha ottenuto sequestro conservativo sugli immobili nell’apparente titolarità della RAGIONE_SOCIALE con provvedimento del 20/8/2007. Successivamente, è stata pronunciata sentenza di condanna n. 268 2011 nei confronti della RAGIONE_SOCIALE. È stato avviato il processo esecutivo n. 138 del 2011, nel quale sono intervenute anche la RAGIONE_SOCIALE ed RAGIONE_SOCIALE di Torino.
Il 3/10/2016 il G.E. ha chiesto al creditore procedente il deposito di atti tesi a dimostrare l’attuale proprietà degli immobili.
Si è, dunque, accertato che dopo la vendita degli immobili da parte del RAGIONE_SOCIALE in favore della RAGIONE_SOCIALE, con contratto di compravendita del 26/2/2002, il RAGIONE_SOCIALE aveva proceduto alla revoca con provvedimento del 16/11/2004, con conseguente ritrasferimento della proprietà degli immobili al RAGIONE_SOCIALE stesso.
In assenza della titolarità degli immobili da parte del debitore esecutato il G.E. con provvedimento del 20/2/2018 ha dichiarato l’estinzione della procedura.
Il reclamo avverso il provvedimento è stato rigettato dal tribunale, con conferma da parte della Corte d’appello.
Il quadro normativo è rappresentata dall’art. 63 della legge 23/12/1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo RAGIONE_SOCIALE).
Al primo comma dell’art. 63 suddetto si prevede che « consorzi RAGIONE_SOCIALE industriale di cui all’art. 36 della legge 5 ottobre 1991, n. 317, nonché quelli costituiti ai sensi della vigente legislazione RAGIONE_SOCIALE regioni a statuto speciale, hanno la facoltà di riacquistare la proprietà RAGIONE_SOCIALE aree cedute per intraprese industriali o artigianali nell’ipotesi in cui il cessionario non realizzi lo stabilimento nel termine di cinque anni dalla cessione».
Il secondo comma dell’art. 63 della legge n. 448 del 1998 dispone che «li stessi consorzi di cui al comma 1 hanno altresì la facoltà di riacquistare unitamente alle aree cedute anche gli stabilimenti industriali o artigianali ivi realizzati nell’ipotesi in cui sia cessata l’attività industriale o artigianale da più di tre anni».
Al terzo comma si chiarisce che «ell’ipotesi di esercizio RAGIONE_SOCIALE facoltà di cui al presente articolo i consorzi dovranno corrispondere al cessionario il prezzo attualizzato di acquisto RAGIONE_SOCIALE aree e, per quanto riguarda gli stabilimenti, il valore di questi ultimi come determinato da un perito nominato dal presidente del tribunale competente per territorio, decurtato dei contributi pubblici attualizzati ricevuti dal cessionario per la realizzazione dello stabilimento»
Inoltre, si prevede al quarto comma dell’art. 63 citato che «e facoltà di cui al presente articolo possono essere esercitate anche in presenza di procedure concorsuali» ed al quinto comma del medesimo articolo che «a Cassa depositi e prestiti è autorizzata a concedere mutui ai consorzi di RAGIONE_SOCIALE industriale per la realizzazione di infrastrutture industriali e per l’acquisizione di aree e di immobili da destinare agli insediamenti produttivi».
6.1. Inoltre, trova applicazione alla fattispecie in esame anche l’art. 23 della legge regionale Sicilia 4/1/1984, n. 1, il quale stabilisce al comma 7 che «li atti di vendita dei terreni dovranno prevedere l’impegno dell’impresa acquirente di mantenere la destinazione dell’insediamento all’attività di produzione industriale, nonché termini perentori per l’inizio e la fine dei lavori dello stabilimento; tali termini potranno essere prorogati, una sola volta e per non più di 18 mesi ».
Si aggiunge al comma 8 dell’art. 23 suddetto che «li atti di vendita di terreni dovranno, altresì, prevedere espressamente la condizione risolutiva del contratto in caso di mancato rispetto dell’impegno e dei termini di cui al comma precedente».
Il comma 9 dell’art. 23 della legge regionale siciliana n. 1 del 1984, quindi, detta la disposizione idonea a regolare la fattispecie in esame, per cui «l verificarsi della condizione risolutiva anzidetta, con la delibera del comitato direttivo del RAGIONE_SOCIALE, dovrà essere disposta la revoca della vendita e la restituzione alla ditta acquirente di una somma pari al 75 per cento del prezzo pagato. La delibera di revoca esplica tutti gli effetti e assume la medesima efficacia del provvedimento con il quale veniva dichiarata la vendita come non avvenuta ai sensi dell’art. 22 della legge regionale 21 aprile 1953, n. 30. Essa sarà pubblicata, a cura del RAGIONE_SOCIALE, presso la conservatoria dei registri immobiliari con annotazione a margine dell’atto di vendita revocato».
6.3. L’art. 22 della legge regionale siciliana 21/4/1953, n. 30 sancisce al comma 6 che «el caso in cui l’acquirente non provvede entro il limite stabilito, per qualsiasi motivo, alla utilizzazione dell’area in conformità all’atto, la vendita sia come non avvenuta ed il prezzo pagato viene incamerato dall’RAGIONE_SOCIALE nella misura del 50 per cento».
La giurisprudenza di questa Corte ha chiarito che la ratio dell’art. 63 della legge n. 448 del 1998 è quella di «favorire la concreta ripresa dell’attività economico-produttiva negli stabilimenti nei quali essa sia stata dismessa da almeno un triennio» (Cass., sez. 6-1, 23/11/2021, n. 36188, che richiama TAR Lazio, sez. II-bis, 15/5/2018, n. 5410).
È vero, dunque, che il procedimento di riacquisto disciplinato dall’art. 63 citato ha «natura espropriativa», ma si discosta dal procedimento ordinario per tutta una serie di peculiarità, giustificate dalla ratio dell’istituto.
In sostanza, già a monte della fase di assegnazione dell’area, la procedura è conformata in senso pubblicistico, in quanto «l’inclusione di un’area nel piano regolatore territoriale ed il suo conseguente assoggettamento a vincolo per la realizzazione di un insediamento ASI comportano ex lege dichiarazione di pubblica utilità RAGIONE_SOCIALE opere ivi previste, facendo sorgere, in capo al RAGIONE_SOCIALE, i poteri esecutivi in ordine al procedimento espropriativo» (Cass., n. 36188 del 2021, che cita Cons. Stato, 664 del 2012; Cons. Stato, 47 3/7/2005; Tar Roma, Lazio, sez. I, 12/5/2021, n. 5583; Tar Latina, Lazio, sez. I, 18/4/2018, n. 206).
La procedura di «riacquisizione», dunque, concerne un tipico procedimento amministrativo finalizzato alla tutela di un interesse di natura pubblicistica, ossia volto alla reindustrializzazione RAGIONE_SOCIALE aree oggetto di acquisto.
Trattasi di un diritto potestativo attribuito ai consorzi che deve intendersi come un diritto potestativo pubblico (Cass., n. 36188 del 2021, che richiama Cass., Sez. U., 3763 del 2009).
Di particolare rilievo è, poi, l’affermazione per cui «quella delineata dall’art. 63 sopra citato costituisce una complessa vicenda, all’interno della quale non è consentito distinguere fra risoluzione e
riacquisto, in quanto la prima non rappresenta un antecedente autonomo del secondo, ma integra soltanto uno dei passaggi di una fattispecie unitaria, così che non può essere contestato in maniera separata e davanti ad un giudice diverso da quello amministrativo» (Cass., n. 36188 del 2021, che richiama Cass., Sez. U., n. 4462 del 2011; Cass. nn. 22809 e 22810 del 2010)
Pertanto, le controversie relative al procedimento discrezionale che porta alla riacquisizione dei RAGIONE_SOCIALE ceduti ai privati, inadempienti agli obblighi imposti dalla legge o dal contratto, devono essere trattate dal giudice amministrativo.
Al contrario, la domanda relativa al prezzo il riacquisto, integrando una questione di tipo meramente patrimoniale deve essere conosciuta dal giudice ordinario (in tal senso anche Cons. Stato, sez. IV, 5/5/2016, n. 1800).
È stato anche chiarito che per individuare la disciplina specifica, con la quale integrare l’art. 63 della legge n. 448 del 1998, va individuata la natura giuridica del potere di riacquistare i cespiti.
Ed infatti, il potere di riacquistare RAGIONE_SOCIALE produce, in maniera unilaterale, l’effetto privativo di un diritto reale altrui, la sottrazione dello stesso al titolare e il suo trasferimento ad un altro soggetto.
Elementi sintomatici della connotazione in senso pubblicistico della facoltà di riacquisto, ad opera dei consorzi, sono rappresentati dalla determinazione autoritativa o comunque unilaterale del prezzo di acquisto dell’area e, eventualmente, anche dello stabilimento industriale o artigianale dismesso (previa stima ad opera di perito nominato dal presidente del tribunale), in base a quanto stabilito dall’art. 63, comma 3, della legge n. 448 del 1998, nonché dalla decurtazione, del prezzo da corrispondere, dell’ammontare dei contributi pubblici, eventualmente ricevuti dal concessionario per la realizzazione dello stabilimento e, infine, dalla possibilità di
procedere alla riacquisizione anche se sia in corso una procedura fallimentare» (Cass., n. 36188 del 2021).
Si è, poi, chiarito che la controversia che sorge a seguito dell’esercizio da parte del RAGIONE_SOCIALE del potere di riacquisizione dei cespiti in precedenza ceduti, è contraddistinta da talune peculiarità, evidenziate anche dalla giurisprudenza amministrativa, «essendo l’istituto subordinato a presupposti, modalità e termini propri, non sovrapponibile al procedimento espropriativo delineato dal d.P.R. 327/2001» (Cass. n. 36188 del 2021).
Si è ritenuto, allora, non sussistente la competenza della Corte d’appello in unico grado a decidere la controversia di tipo meramente patrimoniale in ordine alla determinazione del prezzo per il riacquisto del bene originariamente ceduto da parte del RAGIONE_SOCIALE.
Ciò, in quanto l’estensione della competenza in unico grado della Corte d’appello opera solo in tutti i casi di determinazione giudiziale dell’indennità di esproprio nell’ambito di un «procedimento espropriativo promosso secondo il modello delineato dalla citata legge (la l. del 1971)» (Cass., Sez.U., n. 7191 del 1997).
La procedura prevista dall’art. 63 della legge n. 448 del 1998, però, non contiene alcun rinvio alla normativa sull’esproprio all’epoca vigente e non è stata contemplata dal d.P.R. n. 327 del 2001, successivamente emanato.
Inoltre, si è aggiunto che, anche se non può fondatamente opporsi il rispetto del doppio grado di giurisdizione sul merito, avendone la Consulta escluso più volte la copertura costituzionale, tuttavia la competenza oggi contemplata dall’art. 29 del d.lgs. n. 150 del 2011 deve comunque essere definita speciale e quindi limitata solo alle controversie in tema di indennità ed in materia stricto sensu espropriativa quali disciplinate dal d.P.R. 327/2001 (Cass., n. 36188 del 2021).
Con l’aggiunta che, trovando il procedimento in oggetto, in difetto di specifica e diversa disposizione normativa, la sua disciplina nelle norme codicistiche ordinariamente applicabili, non vi sono gli estremi per un ricorso all’applicazione per analogia di una normativa speciale (Cass., n. 361 8/8/2021).
Ciò detto, si conclude nel senso che per le controversie aventi ad oggetto le questioni patrimoniali correlate al procedimento dettato dalla legge n. 448 del 1998, l’art. 63, non trova applicazione il procedimento di opposizione alla stima di cui all’art. 54 del d.P.R. n. 327 del 2001, che consente di proporre avanti la Corte d’appello nel cui distretto si trova il bene oggetto di acquisizione impugnazione degli «atti di determinazione dell’indennità» e comunque di «chiedere la determinazione giudiziale dell’indennità», oggi in base al rito sommario di cognizione di cui agli articoli 702-bis ss. c.p.c. (ai sensi dell’art. 29 del d.lgs. n. 150 del 2011, a cui il citato art. 54 TU espropri fa espresso rinvio)» (Cass., n. 36188 del 2021).
È evidente, allora, che la Corte d’appello si è pienamente uniformata al principio di diritto enucleato da questa Corte (Cass., n. 361 8/8/2021).
Come detto, la risoluzione ed il conseguente provvedimento di revoca, o di riacquisizione del bene, rappresentano una fattispecie unitaria, di natura pubblicistica, con la conseguenza che il bene originariamente venduto viene trasferito immediatamente al RAGIONE_SOCIALE, contestualmente all’adozione del provvedimento di riacquisizione.
E ciò, è proprio quanto affermato dalla Corte d’appello che ha condiviso in toto la motivazione del giudice di prime cure. Il tribunale aveva, infatti, affermato che «il ritrasferimento in capo al RAGIONE_SOCIALE dei RAGIONE_SOCIALE pignorati è avvenuto, in ogni caso – e, cioè, anche a prescindere dalla procedura prevista dal citato art. 63 – in virtù
dell’avveramento della condizione risolutiva espressa contenuta nell’atto di acquisto», ma con l’aggiunta significativa per cui «in virtù dell’avveramento della condizione risolutiva espressa (circostanza incontestata ai fini che qui interessano) e dell’emanazione della delibera di revoca da parte del RAGIONE_SOCIALE l’area de qua è immediatamente rientrata nella titolarità del venditore, giusto, peraltro, il disposto dell’art. 23 della legge regionale n. 1/1984, così come inteso dalla giurisprudenza sopra richiamata, senza che fosse necessaria anche l’emanazione di un decreto di esproprio ai fini del perfezionamento della fattispecie acquisitiva de qua ».
È stata confermata anche la parte della motivazione della sentenza di prime cure per cui «anto è in linea con la disposizione, anche se applicabile al caso di specie, di cui all’art. 23 della legge regionale n. 1/1984 secondo cui ‘la delibera di revoca esplica tutti gli effetti e assume la medesima efficacia del provvedimento con il quale veniva dichiarata la vendita come non avvenuta ai sensi dell’art. 22 della legge regionale 21 aprile 1953, n. 30».
Tanto che il tribunale aveva precisato che la delibera di revoca del 16/11/2004 del RAGIONE_SOCIALE «non corrisponde solo alla fattispecie integrativa della legge 448 del 1998, ma anche a quella di cui alla legge della regione siciliana n. 1 del 1984».
Va rimarcato, quindi, che il procedimento di riacquisizione di cui all’art. 63 della legge n. 448 del 1998, costituito dalla dicotomia risoluzione-riacquisizione, ha dunque natura unitaria pubblicistica, travolgendo la clausola risolutiva espressa a valle.
La risoluzione del contratto, peraltro, ai sensi dell’art. 1458 c.c. ha effetto retroattivo tra le parti, con la precisazione del comma 2, che la risoluzione, anche se è stata espressamente pattuita, non pregiudica i diritti acquisiti dai terzi, salvi gli effetti della trascrizione della domanda di risoluzione.
Nella specie, come ben evidenziato dal AVV_NOTAIO RAGIONE_SOCIALE, «l’atto risolutorio del contratto di vendita – come lo si voglia classificare – è stato trascritto antecedentemente alla trascrizione del sequestro conservativo a favore del creditore esecutante».
Del resto, ai sensi dell’art. 2645 c.c. «deve del pari rendersi pubblico, agli effetti previsti dall’articolo precedente, ogni altro atto o provvedimento che produce in relazione a RAGIONE_SOCIALE immobili o a diritti immobiliari taluno degli effetti dei contratti menzionate nell’art. 2643, salvo che dalla legge risulti che la trascrizione non è richiesta o è richiesta a effetti diversi».
Pertanto, la revoca dell’alienazione prevista dall’art. 63 della legge n. 448 del 1998, è trascrivibile ai sensi dell’art. 2645 c.c., producendo un effetto di retrocessione degli immobili alienati contemplato dall’art. 2643, primo comma, n. 1, c.c.
Con il quarto motivo di impugnazione il ricorrente deduce la «violazione e falsa applicazione degli articoli 934 e 936 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.».
La Corte d’appello ha ritenuto che non è l’annotazione della clausola risolutiva espressa che produce l’effetto espropriativo, ma il suo avverarsi. Con l’aggiunta che «se il terreno è rientrato nel patrimonio del RAGIONE_SOCIALE, vi rientra, in virtù del principio della accessione, anche tutto ciò è ivi edificato».
La società appellante, invece, aveva sostenuto che «se l’annotazione della clausola risolutiva espressa produce l’effetto espropriativo, non si riesce a capire perché la mancanza della stessa in capo allo stabilimento industriale produca il medesimo effetto, ossia la riacquisizione in capo al RAGIONE_SOCIALE».
La ricorrente reputa erronea la soluzione giuridica adottata dalla Corte d’appello, in quanto per il giudice di secondo grado la disciplina di cui all’art. 936 c.c. trova applicazione non solo quando l’opera del
terzo sul suolo altrui è eseguita in assenza di alcun vincolo contrattuale, ma anche nel caso in cui il contratto sia venuto meno per invalidità o per risoluzione.
La disciplina di cui all’art. 936 c.c. è applicabile esclusivamente quando le opere siano state realizzate da un soggetto che non ha con il proprietario del fondo nessun rapporto giuridico, di natura reale o personale, che gli conferisca la facoltà di costruire sul suolo, mirando la norma a regolare la ricaduta patrimoniale di un’attività di costruzione sul suolo altrui che coinvolga soggetti fra loro terzi.
Tale requisito non sussiste, invece, quando l’attività costruttiva esprima non già l’esercizio di un diritto, ma l’adempimento di un’obbligazione il cui mancato assolvimento, determinando la conseguente risoluzione, implica l’insorgenza di un obbligo residuo, ai sensi dell’art. 1458 c.c., da soddisfare in natura, ove possibile, o per equivalente monetario.
In caso di risoluzione contrattuale, allora, il diritto potestativo del proprietario del suolo di ritenere la costruzione, avvalendosi della cessione, previsto dall’art. 936 c.c., non sorge, trattandosi di facoltà incompatibile con l’obbligo restitutorio che consegue alla risoluzione.
10. Il motivo è infondato.
10.1. L’art. 936 c.c., sebbene ispirato all’applicazione del principio per il quale quidquid solo inaedificatur solo cedit , nel contemperare, tuttavia, le conseguenze patrimoniali, che altrimenti sarebbero sproporzionatamente vantaggiose per il proprietario del suolo, richiamandosi alla contemporanea osservanza del divieto generale dell’indebito arricchimento, per il quale a nessuno è consentito accrescere il patrimonio proprio con danno altrui (Cass., Sez. U., n. 740 del 1963).
Effettivamente, come rilevato dalla ricorrente, la disciplina dell’accessione di cui all’art. 936 cod. civ. è applicabile
esclusivamente quando le opere siano state realizzate da un soggetto che non abbia con il proprietario del fondo nessun rapporto giuridico, di natura reale o personale, che gli conferisca la facoltà di costruire sul suolo, mirando la norma a regolare la ricaduta patrimoniale di un’attività di costruzione su suolo altrui che coinvolga soggetti fra loro terzi; tale requisito non sussiste, invece, quando l’attività costruttiva esprima non già l’esercizio di un diritto, bensì l’adempimento di un’obbligazione -nella specie, assunta dall’acquirente di un’area edificabile ceduta ad un prezzo simbolico, con il vincolo, però, di erigervi un impianto industriale – il cui mancato assolvimento, determinando la conseguente risoluzione, implica l’insorgenza di un obbligo restitutorio, ai sensi dell’art. 1458 cod. civ., da soddisfare in natura, ove possibile, o per equivalente monetario, così da attuare il ripristino RAGIONE_SOCIALE posizioni economiche rispettive, che vanno ricondotte tendenzialmente alla situazione preesistente alla stipula del contratto (Cass., sez. 2, 31/1/2012, n. 1378; Cass., sez. 2, 23/11/2017, n. 27900; Cass., sez. 2, 6/10/2021, n. 27088).
In questo caso, dunque, il diritto potestativo del proprietario del suolo di ritenere la costruzione, avvalendosi della cessione, previsto dall’art. 936 c.c., in caso di risoluzione del contratto, non sorge, trattandosi di facoltà incompatibile con l’obbligo restitutorio che consegue alla risoluzione.
Tuttavia, va evidenziato che proprio l’art. 63 della legge n. 448 del 1998, al comma 3, prevede espressamente che anche gli stabilimenti vengano acquisiti dal RAGIONE_SOCIALE, tanto che con riferimento agli stabilimenti, si stabilisce speciale la modalità di determinazione del valore, attraverso il procedimento di nomina del perito da parte del presidente del tribunale competente per territorio.
Anche in questo caso può condividersi la conclusione del AVV_NOTAIO per cui «l’effetto restitutorio non può che estendersi alle costruzioni eseguite sull’area retrocessa, a meno di non ipotizzare la costituzione di un diritto di superficie in capo al costruttore inadempiente, al di fuori di qualunque previsione legislativa».
Ha precisato il P.G. che, del resto, non è questa l’unica ipotesi in cui, pur in presenza di un preesistente rapporto contrattuale con il proprietario del bene, il diritto dominicale di quest’ultimo si estende alle costruzioni eseguite, in sostanziale applicazione del principio dell’accessione, come accade per l’art. 2811 c.c., in tema di estensione dell’ipoteca alle costruzioni eseguite.
Con il quinto motivo di impugnazione la ricorrente deduce la «violazione e/o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., 115 c.p.c. e dell’art. 132 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.».
La Corte d’appello ha ritenuto che la sentenza di prime cure, in sede di reclamo, non fosse incorsa nel vizio di extrapetizione, laddove, in via del tutto incidentale, ha reputato che la valutazione della congruità dell’indennità espropriativa ai sensi dell’art. 63 della legge n. 448 del 1998, spettava al giudice dell’esecuzione.
Ad avviso della ricorrente, «la condizione dell’azione esecutiva non può essere assimilata alla proprietà e questione patrimoniale», non potendo la proprietà essere confusa con il titolo esecutivo, rappresentato dal sequestro, convertito in pignoramento.
La valutazione della determinazione dell’indennizzo spetta al giudice ordinario competente per materia.
La motivazione resa dalla Corte d’appello sarebbe apparente.
Il motivo è infondato.
12.1. Anzitutto, si rileva che la motivazione della sentenza della Corte d’appello è esistente, non solo graficamente, ma anche nella stesura e nella indicazione RAGIONE_SOCIALE argomentazioni logico-giuridicche sottesa la decisione.
12.2. Inoltre, la Corte territoriale ha chiarito che l’affermazione del tribunale, con riferimento alla competenza del giudice ordinario nella determinazione del valore di stima degli immobili, era stata resa solo in via meramente incidentale («anche detto motivo è generico, nulla opponendo l’appellante a quella parte della motivazione della sentenza di primo grado in cui si afferma che l’esame del prezzo di acquisto è stat esaminat solo incidenter tantum »).
La Corte d’appello ha confermato la sentenza di prime cure che, a sua volta, aveva confermato l’ordinanza di estinzione del procedimento esecutivo, in quanto quest’ultimo era stato incardinato su RAGIONE_SOCIALE immobili di proprietà, non dell’esecutato, ma del RAGIONE_SOCIALE («il giudice dell’esecuzione ha analizzato la questione del prezzo di riacquisto del bene per quel casa non già sostituendosi al giudice ordinario bensì ai fini della completa disamina della particolare procedura espropriativa che viene in rilievo nel caso di specie, ossia quella di cui all’art. 63 della legge n. 44 del 1998. Peraltro, lo stesso COGNOME ha chiarito che la questione del pagamento del corrispettivo ai fini del riacquisto integra una questione meramente patrimoniale, che non incide comunque sulla titolarità del bene»).
In assenza dello svolgimento di attività difensiva non si provvede sulle spese del giudizio.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-q uater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento,
da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso art. 1, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 9 ottobre 2024