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Revocatoria ordinaria: parentela non basta a provare

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza in esame, ha annullato una decisione di secondo grado che aveva accolto un’azione di revocatoria ordinaria basandosi principalmente sul rapporto di parentela tra il debitore-venditore e l’acquirente. La Suprema Corte ha stabilito che il solo legame familiare, anche se stretto come la fratellanza, non è di per sé sufficiente a provare la consapevolezza del terzo acquirente del pregiudizio arrecato ai creditori (‘scientia damni’). È necessario che il giudice valuti ulteriori elementi gravi, precisi e concordanti per fondare la prova presuntiva.

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Revocatoria Ordinaria: il Legame di Parentela Non è Prova Sufficiente

L’azione di revocatoria ordinaria è uno strumento cruciale a tutela dei creditori, ma la sua applicazione richiede un’attenta valutazione degli elementi probatori, specialmente quando si tratta di dimostrare la malafede di un terzo acquirente. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione interviene proprio su questo punto, chiarendo che il semplice rapporto di parentela tra debitore e acquirente non può, da solo, costituire prova sufficiente della cosiddetta participatio fraudis.

I Fatti di Causa

Il caso nasce dall’azione promossa da un istituto di credito contro un suo debitore, fideiussore di una società poi fallita. Il debitore aveva venduto al proprio fratello gli unici immobili di sua proprietà per un corrispettivo di 25.000 euro, poco prima della dichiarazione di fallimento della società garantita. La banca, ritenendo l’atto di compravendita lesivo delle proprie ragioni creditorie, avviava un’azione di revocatoria ordinaria ai sensi dell’art. 2901 c.c. per far dichiarare inefficace la vendita.

In primo grado, il Tribunale rigettava la domanda, sostenendo che la banca non avesse fornito prove adeguate della consapevolezza del fratello acquirente (scientia damni) circa la situazione debitoria del venditore. La Corte d’appello, invece, riformava la decisione, accogliendo la domanda della banca. Secondo i giudici di secondo grado, la prova della consapevolezza poteva essere desunta da una serie di presunzioni, tra cui il rapporto di stretta parentela (fratelli), la vendita degli unici beni immobili del debitore e la vicinanza temporale tra l’atto e la dichiarazione di fallimento della società debitrice principale.

La Decisione della Corte di Cassazione sulla Revocatoria ordinaria

La questione è giunta dinanzi alla Corte di Cassazione su ricorso del debitore. La Suprema Corte ha accolto il ricorso, cassando la sentenza d’appello e rinviando la causa per un nuovo esame. Il punto centrale della decisione è l’errata applicazione della prova per presunzioni da parte della Corte territoriale.

Le Motivazioni

La Cassazione ha ribadito un principio consolidato: la prova della participatio fraudis del terzo acquirente, in un atto a titolo oneroso successivo al sorgere del credito, può essere fornita tramite presunzioni semplici. Tra queste, il vincolo di parentela può assumere rilevanza, ma solo quando rende “estremamente inverosimile” che il terzo non fosse a conoscenza della situazione debitoria del disponente.

Nel caso specifico, la Corte ha rilevato che i giudici d’appello hanno commesso un errore di falsa applicazione dell’art. 2729 c.c. (norma sulle presunzioni). Essi hanno fondato la loro decisione quasi esclusivamente sull’esistenza del rapporto di fratellanza, affiancandolo a due elementi considerati “neutri”: il fatto che l’atto avesse ad oggetto gli unici beni del debitore e la prossimità temporale con il fallimento. Questo ragionamento è stato ritenuto insufficiente.

Secondo la Cassazione, la Corte d’appello avrebbe dovuto indagare su altri elementi fattuali concreti per verificare se il legame di parentela assumesse effettivamente il carattere di prova grave, precisa e concordante. Ad esempio, avrebbe dovuto accertare se i fratelli fossero conviventi, se l’acquirente avesse partecipazioni o ruoli nella società del venditore, se il prezzo di vendita presentasse anomalie significative, o se l’immobile avesse un particolare valore economico. In assenza di queste verifiche, la Corte d’appello ha basato la sua decisione su una presunzione debole, trasformando il rapporto di parentela in una prova quasi automatica di malafede, in violazione dei principi che regolano la prova presuntiva.

Le Conclusioni

La decisione della Suprema Corte è di fondamentale importanza pratica. Essa stabilisce che, nell’ambito di un’azione di revocatoria ordinaria, non si può presumere la malafede dell’acquirente solo perché è un parente stretto del debitore. Il creditore che agisce in revocatoria ha l’onere di fornire al giudice un quadro indiziario solido, fatto di elementi concreti e specifici (come la convivenza, l’irrisorietà del prezzo, il coinvolgimento negli affari del debitore) che, uniti al legame familiare, rendano altamente probabile la conoscenza del pregiudizio. In caso contrario, si rischia di penalizzare ingiustamente un terzo acquirente, anche se legato da vincoli di parentela con il venditore.

Il solo rapporto di parentela tra venditore e acquirente è sufficiente a provare la consapevolezza del danno ai creditori nell’azione revocatoria ordinaria?
No, secondo la Corte di Cassazione il solo rapporto di parentela, anche se stretto come quello di fratellanza, non è di per sé sufficiente a costituire la prova della consapevolezza del terzo acquirente (participatio fraudis). Può essere un elemento di valutazione, ma solo se unito ad altri elementi gravi, precisi e concordanti.

Quali elementi deve valutare il giudice per provare la scientia damni del terzo acquirente tramite presunzioni?
Il giudice deve valutare se il vincolo parentale, insieme ad altri elementi concreti, renda “estremamente inverosimile” che il terzo non fosse a conoscenza della situazione debitoria del venditore. Esempi di tali elementi includono la convivenza tra le parti, la partecipazione dell’acquirente nella società del debitore, la presenza di anomalie nel prezzo di vendita e la natura o il valore del bene venduto.

Qual è stato l’errore commesso dalla Corte d’appello in questo caso?
L’errore è stato quello di aver fondato la prova presuntiva della consapevolezza dell’acquirente quasi esclusivamente sul rapporto di parentela, senza indagare a fondo su altri elementi fattuali che potessero conferire a tale rapporto il carattere di gravità, precisione e concordanza richiesto dalla legge per le presunzioni. Ha applicato in modo errato l’art. 2729 del codice civile.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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