Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 21470 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 21470 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 25/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 11287/2023 R.G. proposto da :
COGNOME, elettivamente domiciliati in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE) rappresentati e difesi dall’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE)
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO SEZ.DIST. DI TARANTO n. 98/2023 depositata il 14/03/2023.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 29/04/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
Fatti di causa
Il Fallimento della società RAGIONE_SOCIALE ha agito per la revocatoria di un atto con cui la società stessa (per mezzo dell’amministratore) ha ceduto a NOME COGNOME ed a NOME COGNOME le quote di una società partecipata, o meglio di proprietà RAGIONE_SOCIALE, denominata società RAGIONE_SOCIALE COGNOME RAGIONE_SOCIALE.
In sostanza, la RAGIONE_SOCIALE aveva acquistato la RAGIONE_SOCIALE al prezzo di 650 mila euro, e poi l’ha venduta a Curci e Montemurro per 150 mila euro.
Il Fallimento ha ritenuto tale vendita, anche in ragione del prezzo vile, come un danno alle ragioni della massa dei creditori, ed ha agito per la revocatoria ordinaria.
Nel relativo giudizio si sono costituiti i convenuti ed hanno addotto la congruità del prezzo e l’inesistenza del danno.
E’ stata espletata CTU, all’esito della quale il Tribunale di Taranto ha rigettato la domanda.
Su appello del fallimento, la Corte di Appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, ha aderito alla CTU, che aveva stimato in 650 mila il valore della società, corrispondente a quello di un capannone di cui la stessa società era proprietaria, ed ha ravvisato danno nel fatto di avere invece alienato le quote per soli 150 mila euro.
Avverso tale decisione ricorrono NOME COGNOME e NOME COGNOME con sette motivi di ricorso, di cui chiede il rigetto il Fallimento, che ha depositato anche memoria.
Ragioni della decisione
1. -Con il primo motivo si prospetta violazione degli articoli 2901 cc e 116 c.p.c.
La censura è volta a contestare la stima fatta dal CTU: si osserva che costui non aveva elementi per stabilire che la società valesse 600 mila euro, tanto quanto era il valore del capannone di cui la società stessa disponeva. Lo stesso CTU non aveva la documentazione contabile da cui ricavare quel dato, tanto che l’aveva chiesta a parte convenuta.
2. -Con il secondo motivo si prospetta nullità della sentenza per contraddittorietà della motivazione.
Secondo i ricorrenti la sentenza ha aderito pedissequamente alla CTU, ha cioè motivato per relazione a quest’ultima: dunque è incorsa nel medesimo vizio di quella. E tale vizio è di avere contraddittoriamente, da un lato, ritenuto necessaria per la stima la documentazione contabile, dall’altro, avere ammesso di non averla.
I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi in quanto connessi, sono inammissibili.
Essi si risolvono nella contestazione della consulenza tecnica, in modo inammissibile, sia in quanto quelle obiezioni sono state già considerate dal CTU, e ne dà atto la sentenza impugnata (p. 7), sia in quanto si risolvono nella richiesta di un nuovo accertamento in fatto, qui inammissibile.
A ciò si aggiunga che il giudice di merito può ben fondare la sua decisione sulla consulenza tecnica, purché dia motivazione della sua adesione alle valutazioni del perito.
E’ infatti principio di diritto che ‘il giudice di merito, quando aderisce alle conclusioni del consulente tecnico che nella relazione abbia tenuto conto, replicandovi, dei rilievi dei consulenti di parte, esaurisce l’obbligo della motivazione con l’indicazione delle fonti del suo convincimento, e non deve necessariamente soffermarsi anche sulle contrarie allegazioni dei consulenti tecnici di parte, che, sebbene non espressamente confutate, restano implicitamente
disattese perché incompatibili, senza che possa configurarsi vizio di motivazione, in quanto le critiche di parte, che tendono al riesame degli elementi di giudizio già valutati dal consulente tecnico, si risolvono in mere argomentazioni difensive’ (Cass. 33742/ 2022).
In altri termini, alcuna contraddizione rilevante e decisiva può ravvisarsi in quella motivazione, posto che il valore del bene non è ricavato solo dai documenti contabili, ma da una serie di altri elementi della cui rilevanza i giudici di appello danno chiaramente conto.
3. Il terzo motivo prospetta anche esso violazione degli articoli 2967 c.c. e 116 c.p., oltre che dell’art. 2697 c.c.
La tesi è la seguente.
Nel valutare il valore delle quote cedute, e dunque del capannone che ne costituiva il presupposto, si è tenuto conto dei criteri OMI, che invece sono criteri inattendibili, o comunque non attendibili da soli, come dimostra il fatto che essi non sono considerati da soli sufficienti in sede fiscale.
Il motivo è inammissibile. Anche in tal caso si mira a contestare un giudizio riservato al consulente tecnico, e che avrebbe dovuto essere oggetto di contestazione al momento della perizia.
4. -Il quarto motivo prospetta omesso esame.
Secondo i ricorrenti, il CTU, e dunque il giudice, non avrebbero tenuto conto del fatto che nel contratto di locazione del capannone, era, si, indicato come valore quello di 650 mila euro, ma ai soli fini della responsabilità per il perimento del bene, e non già quale stima di esso.
Invece, entrambi, consulente e giudice, avrebbero usato quel riferimento per dare al capannone il valore di 650 mila euro. Il motivo è inammissibile.
Intanto, il fatto non è omesso. I giudici ritengono che nel contratto di locazione sia stato attribuito al bene un valore di 650 mila euro, e tale assunto è frutto di una interpretazione del contratto, che va
denunciata come tale, ossia come erronea, ma non sotto l’aspetto dell’omesso esame: la clausola che contiene quel prezzo è infatti esaminata, salvo ad essere intesa dai giudici in modo difforme da come la intendono i ricorrenti.
A ciò si aggiunga che attribuire al bene un determinato valore, per il caso di perimento, significa, per l’appunto stimarlo.
5. -Il quinto motivo prospetta ugualmente omesso esame.
Secondo i ricorrenti non si è tenuto conto del fatto che nel libro dei beni ammortizzabili quel capannone aveva valore di 100 mila euro, dunque inferiore a quello al quale è stato venduto.
Il motivo è inammissibile.
La questione è stata posta, come risulta dallo stesso contenuto del motivo, al consulente tecnico e non al giudice. Né risulta riproposta a quest’ultimo. Solo l’omesso esame da parte del giudice è vizio della decisione. Né è chiarito qui quale sia la decisività di tale omissione, alla luce di ogni altro elemento usato dal consulente e poi dal giudice ai fini della stima.
6. -Il sesto motivo prospetta violazione degli articoli 228 e 229 c.c. Secondo i ricorrenti, la Corte di Appello ha basato la sua decisione sul fatto che gli stessi ricorrenti in comparsa di costituzione avevano negato l’esistenza di grossi debiti della RAGIONE_SOCIALE, ossia della società ceduta, ed oggetto di revocatoria, tali da poter farne ridurre il valore.
Secondo i ricorrenti, i giudici di merito hanno violato le norme sulla confessione, attribuendo alle loro parole valore di ammissione dei fatti, quando invece andavano intesi come argomenti difensivi di un certo segno.
Il motivo è inammissibile.
Non corrisponde alla ratio decidendi .
Intanto, gli stessi ricorrenti ammettono che si tratta di un obiter (‘ sia pure con una motivazione di contorno ‘, p. 16), e dunque non suscettibile di censura. Ma soprattutto, è evidente che la corte di
merito non ha utilizzato quella indicazione (che non vi fossero debiti ingenti) quale ammissione, ossia secondo il regime della confessione, ma quale argomento ulteriore rispetto a quelli già disponibili per stabilire il valore del bene. Dunque, alcuna violazione delle norme sulla confessione e suoi presupposti può dirsi essere stata commessa.
7. -Il settimo motivo prospetta sia violazione dell’articolo 2901 c.c. che omesso esame.
I ricorrenti, quanto alla loro consapevolezza di recare danno alla società, e dunque al fallimento, osservano che alcune sentenze penali, di cui non si sarebbe tenuto conto, avevano escluso la malafede dell’amministratore unico nella frode fiscale o nella elusione fiscale, che gli venivano contestate.
Da quelle sentenze risultava come l’omesso versamento dei tributi era dovuto non già a volontà di evadere il fisco, bensì ad impossibilità oggettiva.
Se ne doveva trarre conclusione che dunque non c’era consapevolezza di eludere i diritti dei creditori.
Il motivo è inammissibile.
Non dice innanzitutto in che termini la questione è stata posta al giudice di merito, e da costui disattesa. Ma, soprattutto, non dimostra la decisività del fatto omesso: che l’amministratore unico della società sia stato assolto per difetto dell’elemento soggettivo, dal reato fiscale, non significa che gli acquirenti, ossia gli aventi causa dell’amministratore -i soggetti cui costui ha venduto la società -non fossero invece consapevoli di un evento diverso (dalla frode fiscale) ed ossia del fatto di arrecare danno al creditore; né ovviamente dice alcunché sulla diversa volontà dello stesso amministratore di danneggiare i creditori: costui ben potendo non avere la volontà di evadere il fisco, ma quella di eludere il credito mediante un atto diverso dall’omesso versamento delle tasse. L’elemento soggettivo previsto per un determinato atto (omesso
versamento tasse) non è identico per ogni altro atto compiuto dal medesimo agente.
Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo in favore del controricorrente, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte dichiara il ricorso inammissibile. Condanna i ricorrenti al solidale pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in complessivi euro 8.200,00, di cui euro 8.000,00 per onorari, oltre a spese generali e accessori di legge, in favore del Fallimento controricorrente.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, al competente ufficio di merito, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio della Terza sezione