Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 7958 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 7958 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 25/03/2024
ORDINANZA
sul ricorso 32501-2022 proposto da:
NOME COGNOME, rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
NOME, NOME, elettivamente domiciliati in INDIRIZZO, INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME, che li rappresenta e difende;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 2618/2020 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 14/07/2020;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21/02/2024 dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME; lette le memorie di entrambe le parti.
MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE
NOME COGNOME conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Benevento la madre NOME, deducendo di essere cointestatario con la convenuta di una serie di buoni fruttiferi postali, meglio individuati in citazione, dei quali chiedeva disporsi l’incasso, non avendo con la convenuta raggiunto un accordo per l’incasso in via consensuale.
Si costituiva la convenuta che deduceva che in realtà in comunione vi erano anche altri buoni fruttiferi postali, emessi in data successiva alla morte del marito, e sosteneva che la provvista per la loro emissione derivava dai risparmi accumulati durante il matrimonio con il defunto marito, e che la cointestazione con l’attore era da ricondurre unicamente ad esigenze di comodità, essendo questi l’unico figlio ancora convivente con la madre, risultando quindi maggiormente comodo permettergli di operare sui buoni stante l’intervenuta cointestazione. Inoltre, la cointestazione era stata voluta d’intesa con il defunto marito, al fine di permettere con le rendite dei buoni di far fronte alle necessità del figlio, ancora privo di occupazione.
In via riconvenzionale chiedeva revocarsi per ingratitudine la donazione dell’immobile sito in S. Agata dei Goti alla INDIRIZZO, effettuata unitamente al marito in favore dell’attore, in quanto, sebbene la convenuta si fosse riservata l’usufrutto con
scrittura coeva alla donazione, il figlio in data 21 giugno 2003 l’aveva fisicamente aggredita, subendo per l’effetto delle lesioni per le quali era stata costretta a ricorrere alle cure ospedaliere. Inoltre, stante anche i dissidi con la moglie dell’attore, non aveva più potuto far rientro nella propria abitazione, rappresentata dall’immobile donato, in quanto aveva constatato al rientro dall’ospedale come l’attore avesse sostituito la serratura di casa.
Il Tribunale adito con la sentenza n. 4 del 10 gennaio 2012 ha rigettato la domanda attorea, sul presupposto che i buoni rientrassero nella comunione ereditaria del defunto padre, e rigettava altresì la domanda riconvenzionale.
Avverso tale sentenza proponeva appello principale NOME COGNOME, cui hanno resistito, proponendo a loro volta appello incidentale, NOME COGNOME e NOME COGNOME, quali eredi della defunta NOME.
La Corte d’Appello di Napoli con la sentenza n. 2618 del 14 luglio 2020 ha accolto parzialmente l’appello principale, dichiarando la comunione ordinaria tra l’attore e la convenuta COGNOME NOME, quanto ai buoni fruttiferi postali sottoscritti in data anteriore al 9 ottobre 1992, ed in accoglimento dell’appello incidentale ha revocato per ingratitudine dell’attore la donazione della quota del 50 % dell’immobile sopra indicato, compensando integralmente le spese del doppio grado.
Per quanto rileva in questa sede, dopo aver affermato che esulava dall’oggetto della materia del contendere devoluta in appello la proprietà dei buoni postali emessi in epoca successiva alla morte di NOME, riteneva che i buoni emessi in precedenza fossero stati cointestati alla NOME ed all’attore in quanto oggetto di una donazione indiretta da parte del defunto NOME in
favore della moglie e del figlio, così che sugli stessi si era instaurata una comunione che andava sciolta.
Quanto alla domanda riconvenzionale, oggetto dell’appello incidentale, la Corte d’Appello, respinta l’eccezione di difetto di legittimazione degli appellanti incidentali, in quanto successori a titolo universale della convenuta, riteneva che la condotta addebitata all’attore era idonea a configurare i presupposti per la revocazione per ingratitudine della donazione, in quanto, anche ad ammettere lo scadimento dei rapporti personali tra madre e figlio, quest’ultimo aveva provocato la caduta della madre, costringendola ad allontanarsi in vestaglia da casa, per recarsi in ospedale, impedendole poi il rientro in casa, avendo nelle more sostituito la serratura dell’abitazione.
La complessiva condotta posta in essere dall’appellante, sia considerata nella sua repentinità che nei successivi sviluppi, era quindi idonea a mostrare un sentimento di un’avversione non transitoria, con l’estrinsecazione di condotte pregiudizievoli per l’onore ed il decoro della madre, esprimendo un durevole sentimento di disistima delle qualità morali della donante.
Richiamata la nozione di ingiuria grave prevista dall’art. 801 c.c., reputava che l’alterco violento, sebbene non premeditato, con una donna anziana ed in condizione di inferiorità numerica, essendo il figlio coadiuvato dalla moglie, con la commissione di atti di violenza fisica, era una condotta contraria al senso di riconoscenza che dovrebbe improntare l’atteggiamento del donatario, occorrendo altresì aggiungere che la condotta si era poi protratta con l’avere impedito il rientro della madre in casa, appr ofittando del ricovero in ospedale, tant’è che la condotta era stata anche qualificata in termini di spoglio con una diversa
sentenza della stessa Corte d’Appello. Inoltre, della condotta dell’attore erano risultati avvertiti anche terzi estranei, avendo un teste riferito del fatto che la NOME dopo il litigio stazionava per strada in vestaglia ed in attesa di soccorso.
L’appello incidentale andava quindi accolto con la revocazione della donazione quanto alla quota di spettanza della madre.
Per la cassazione di tale sentenza propone NOME COGNOME sulla base di quattro motivi, illustrati da memorie.
Parte intimata ha resistito con controricorso, avendo a sua volta depositato memoria.
Il primo motivo di ricorso denuncia la nullità della sentenza ex art. 360, co. 1, n. 4, c.p.c. per violazione dell’art. 112 c.p.c., in quanto la Corte d’Appello ha omesso di pronunciare sull’eccezione di inammissibilità dell’appello incidentale in quanto formulato in violazione dell’art. 342 c.p.c., nonché sulla gradata eccezione di decadenza dall’azione di revocazione della donazione per il suo mancato esercizio nel termine di un anno.
Il secondo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 801 c.c. e 110 c.p.c., per avere la sentenza rigettato l’eccezione di carenza di legittimazione attiva degli appellanti incidentali, trascurando che l’azione di revocazione ha natura strettamente personale e che pertanto non può essere proseguita ai sensi dell’art. 110 c.p.c. Ne consegue che, proprio in relazione a tale impossibilità di prosecuzione del giudizio, quella proposta con l’appello incidentale costituisce a ben vedere una domanda di revocazione sollevata ex novo , e rispetto alla quale era stata mossa l’eccezione di decadenza, cui la sentenza non ha dato risposta, come dedotto con il primo motivo di ricorso.
I motivi, che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione, sono privi di fondamento.
In primo luogo va qui ribadito che non è denunciabile ai sensi dell’art. 112 c.p.c. l’omessa pron un cia su di un’eccezione di carattere processuale, avendo questa Corte più volte affermato che il vizio di omessa pronunzia è configurabile solo nel caso di mancato esame di questioni di merito, e non anche di eccezioni pregiudiziali di rito (fattispecie relativa al mancato esame, da parte della sentenza impugnata, di una eccezione di inammissibilità dell’intervento del terzo per asserita “errata costituzione” di quest’ultimo: Cass. n. 25154/2018; Cass. n. 10422/2019).
Peraltro, quanto alla denuncia relativa al mancato esame dell’eccezione di inammissibilità dell’appello, il mezzo di impugnazione risulta formulato in evidente violazione dell’art. 366, co. 1, n. 6, c.p.c. (suscettibile di trovare applicazione anche laddove sia denunciato un error in procedendo , così Cass. S.U. n. 8077/2012), posto che il ricorrente omette di riprodurre in ricorso sia la parte di sentenza di primo grado relativa alla pronuncia sulla domanda di revocazione, sia specificamente il contenuto del motivo di appello incidentale, che intendeva attingere tale statuizione.
Inoltre, anche a voler limitare l’esame ai succinti passaggi riportati in ricorso alla pag. 6, ad avviso della Corte la censura risulta ampiamente satisfattiva dei requisiti di forma – sostanza posti dall’art. 342 c.p.c., per come interpretati in chiave essenzialmente antiformalistica da Cass. S.U. n. 27199/2017.
Quanto invece alla denuncia che investe l’omessa risposta all’eccezione di decadenza dell’azione di cui all’art. 801 c.c., come
chiarito dalla lettura del ricorso, la medesima appare evidentemente ancorata al presupposto di diritto secondo cui gli appellanti incidentali, quali eredi della defunto COGNOME NOME non potessero proseguire nella coltivazione della domanda di revocazione già proposta dalla genitrice, e che quindi il motivo di appello incidentale si risolverebbe in una domanda avanzata ex novo , così che l’eccepita decadenza sarebbe da far valere solo rispetto a tale nuova iniziativa processuale.
La deduzione è del tutto priva di fondamento.
La Corte d’appello a pag. 13 ha espressamente affermato che gli odierni controricorrenti erano legittimati a proseguire ed a coltivare in appello la domanda di revocazione, già proposta in vita dalla madre, e ciò sul presupposto che nella specie operasse la previsione di cui all’art. 110 c.p.c., affermazione questa che, quanto meno in maniera implicita, equivale al rigetto dell’eccezione di decadenza, avendo la Corte distrettuale opinato nel senso che non si fosse di fronte ad una nuova domanda di revocazione, ma alla semplice prosecuzione di quella già avanzata dalla madre, e rispetto alla quale il ricorrente non deduce avere sollevato analoga eccezione di decadenza.
Quanto poi alla legittimazione degli appellanti incidentali alla prosecuzione del giudizio intentato dalla genitrice, valga il richiamo alla stessa lettera dell’art. 802 c.c., che prevede che la domanda di revocazione della donazione per ingratitudine possa essere proposta dal donante o dai suoi eredi, affermazione questa che conforta la conclusione secondo cui, potendo gli eredi anche autonomamente avanzare domanda di revocazione, a maggior ragione sono legittimati alla prosecuzione della domanda già avanzata dalla dante causa.
La meno recente giurisprudenza di questa Corte ha infatti ribadito che l’azione di revocazione della donazione (per ingratitudine, ai sensi dell’art 801 c.c.) e quella di annullamento della medesima (ai sensi dell’art 775 c.c. o per vizio di volontà del donante) spettano unicamente al donante e, dopo la sua morte, ai suoi eredi. Pertanto, non è legittimato ad esperirle – difettando anche d’interesse ad agire, requisito che deve sussistere almeno al momento della pronuncia – il soggetto (nella specie, figlio del donante) il quale assuma che l’atto di liberalità lede suoi futuri diritti successori (Cass. n. 6504/1979).
Nel caso di specie, l’azione era stata già proposta in vita dalla donante, ed è stata coltivata dopo la sua morte dai suoi eredi, che proprio per effetto del fenomeno successorio nutrono non già una mera aspettativa, ma un vero e proprio diritto a vedere reintegrato il patrimonio del donante a seguito dell’accoglimento della domanda de qua .
Ed, invero, se il carattere personale dell’azione in esame preclude che la stessa possa essere esercitata in via surrogatoria da parte dei creditori del donante, il chiaro dettato letterale, che contempla anche gli eredi tra i soggetti legittimati, conforta vieppiù la soluzione secondo cui è del tutto ammissibile che l’azione possa essere proseguita dagli eredi ex art. 110 c.p.c.
Né conforta la tesi del ricorrente il richiamo alla valutazione soggettiva spettante unicamente al donante per avvalersi dell’istituto in esame, in quanto, oltre a trascurare, come detto, la specifica previsione di legge che prevede la legittimazione degli eredi, non tiene conto che la valutazione circa l’esercizio dell’azione sul presupposto che la condotta del donatario avesse determinato una grave offesa alla donante, è stata già effettuata
allorché quest’ultima era ancora in vita, determinandosi ad agire in via riconvenzionale nei confronti del figlio, di guisa che nella vicenda si tratta di dare impulso ad un’azione che ha già visto a monte compiuta da parte della donante la valutazione soggettiva dell’offensività della condotta del ricorrente.
Il terzo motivo di ricorso denuncia la nullità della sentenza per manifesta ed irriducibile contraddittorietà della motivazione con violazione dell’art. 132, co. 2, n. 4, c.p.c.
Assume parte ricorrente che vi sarebbe una intrinseca contraddittorietà nel ragionamento dei giudici di appello che, dopo aver richiamato i precedenti di legittimità sul punto, hanno ravvisato anche la ricorrenza di una durevole disistima del ricorrente nei confronti della madre, trascurando però che si è in presenza di un’unica condotta culminata nell’episodio del 21 giugno 2003, ma senza che sia evidenziato il protrarsi del sentimento di avversione.
Del pari è affetta da radicale nullità la sentenza nella parte in cui ha ritenuto che la condotta del ricorrente fosse stata resa evidente anche ai terzi, ma senza avvedersi del fatto che solo il teste COGNOME aveva visto la madre in strada dopo il verificarsi dell’episodio dell’alterco con il ricorrente.
Il motivo è manifestamente infondato.
Ad avviso del Collegio la motivazione della sentenza impugnata, lungi dal rivelarsi contraddittoria o apparente, si presenta ampia, articolata e logicamente coerente, risultando quindi del tutto idonea a soddisfare il requisito del cd. minimo costituzionale della motivazione (Cass. S.U. n. 8053/2014).
La Corte d’appello, dopo aver puntualmente fatto richiamo alla nozione di ingiuria grave prescritta dall’art. 801 c.c. , quale
presupposto necessario per la revocabilità di una donazione per ingratitudine, intesa quale manifestazione esteriorizzata, ossia resa palese ai terzi, mediante il comportamento del donatario, di un durevole sentimento di disistima delle qualità morali e di irrispettosità della dignità del donante, contrastanti con il senso di riconoscenza che, secondo la coscienza comune, aperta ai mutamenti dei costumi sociali, dovrebbero invece improntarne l’atteggiamento (cfr. ex multis Cass. n. 20722/2018; Cass. n. 17188/2008), senza limitarsi al solo episodio del litigio tra la donante, da una parte, ed il figlio e la moglie, dall’altra, ha evidenziato come le modalità dello stesso si connotassero per una obiettiva gravità, aggiungendo però che a tale litigio aveva fatto seguito l’allontanamento della madre dalla propria abitazione e la successiva sostituzione della serratura della porta di ingresso, in maniera tale da impedirne il rientro, una volta dimessa dall’ospedale.
La sentenza a pag. 14 ha evidenziato che le condotte, ancorché autonomamente considerate, già si presentano idonee a supportare la domanda di revocazione, dovevano altresì essere valutate sinergicamente e progressivamente, denotando come in realtà il sentimento di avversione del figlio nei confronti della madre non si fosse esaurito nella sola aggressione fisica, ma si saldava con la successiva condotta, in maniera tale da assicurare il carattere di durevolezza al sentimento di disistima di cui erano espressione le condotte contestate.
Trattasi di considerazioni che danno evidenza di come la critica mossa dal ricorrente sia priva di fondamento e sia smentita proprio dal testo della motivazione, che non ha mancato anche di sottolineare, onde evidenziare l’inapplicabilità alla fattispecie di
alcuni precedenti di legittimità che avevano invece escluso la ricorrenza della fattispecie normativa (Cass. n. 23545/2011), come non fosse stata fornita alcuna prova di un degrado dei rapporti familiari tale da generare antica acrimonia o disaffezione, potenzialmente idonee a giustificare anche atti di violenza fisica (come nel caso vagliato da Cass. n. 7033/2005).
La decisione impugnata, lungi dal soffermarsi solo sulla spinta che ha provocato la caduta della madre, ha considerato anche la successiva condotta del ricorrente che, oltre a negare il diritto di usufrutto vantato dalla genitrice, ha posto in essere una condotta protrattasi nel tempo, al fine di privare la madre del possesso sull’abitazione, condotta che è stata vagliata in sede giurisdizionale in termini di vero e proprio spoglio.
Né può reputarsi deficitaria la motivazione quanto al requisito dell’ostensione a terzi della condotta offensiva, atteso che la sentenza impugnata, pur riferendo della presenza sul posto dopo l’aggressione del teste COGNOME, non ha mancato di sottolineare a pag. 16, come lo stazionamento della NOME per strada, in attesa di soccorso, era potenzialmente visibile per chiunque avesse in quel momento percorso la strada (essendo stata soddisfatta anche la condizione dell’ostensione della condotta ingiuriosa cui fa riferimento Cass. n. 22013/2016).
5. Il quarto motivo di ricorso denuncia ex art. 360 co., 1, n. 5., c.p.c. l’omesso esame di un fatto decisivo controverso, costituito dall’esito del giudizio penale, relativo al medesimo episodio del 21 giugno 2003, che aveva visto il ricorrente assolto dal giudice di pace di S. Agata dei Goti con la sentenza n. 3 del 2020.
Il motivo è infondato.
In disparte il rilievo che la norma presuppone che l’omesso esame debba concernere un fatto storico, e non anche un elemento di prova, quale è rappresentato dalla sentenza penale emessa senza la partecipazione al giudizio di tutte le parti del giudizio civile (come appunto affermato da Cass. n. 2200/2001, richiamata dalla stessa difesa del ricorrente), così che non è dato invocare la violazione del n. 5 dell’art. 360 co. 1 c.p.c. ove la denuncia investa il mancato apprezzamento di un elemento di prova (cfr. Cass. S.U. n. 8054/2014), occorre altresì rilevare che la sentenza, lungi dall’ignorare l’esito del processo penale, lo ha però reputato irrilevante, affermazione questa contenuta a pag. 14, che denota come in realtà non vi sia stato omesso esame, ma una valutazione dell’elemento di prova, ma in chiave recessiva rispetto alle altre prove raccolte in giudizio.
Inoltre, va ricordato che l’ingiuria grave di cui all’art. 801 c.c., pur mutuando dal diritto penale la sua natura di offesa all’onore ed al decoro della persona, si caratterizza per una sua autonomia (Cass. n. 20722/2018), distaccandosi dalla necessaria riconduzione della condotta in una fattispecie anche penalmente rilevante (Cass. n. 7487/2011).
Peraltro la critica non tiene conto del fatto che il giudizio espresso dalla sentenza impugnata non è stato limitato al solo episodio che è stato poi sottoposto alla valutazione del giudice penale, ma ha complessivamente considerato anche le condotte successive, ed in particolare quelle volte a negare la fruizione della propria abitazione alla NOME, ritenendo che proprio tale progressione della condotta del ricorrente fosse idonea a concretare l’ingiuria grave di cui all’art. 801 c.c., di guisa che anche a voler prendere in esame l’assoluzione disposta dal giudice penale, la medesima non
può coprire anche il successivo atteggiamento di avversione dal quale è stata tratta anche la caratteristica della durevolezza del sentimento di disistima.
Le contestazioni poi sollevate nel mezzo in esame, alla ricostruzione dei fatti operata dal giudice civile rispetto a quanto invece asseritamente affermato dal giudice penale attingono evidentemente un giudizio di fatto riservato al giudice di merito e non suscettibile di devoluzione in sede di legittimità.
Anche tale motivo va pertanto rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.
Poiché il ricorso è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto -ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato -Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1quater dell’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 -della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P. Q. M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese del presente giudizio che liquida in complessivi € 8.800 ,00, di cui € 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 % sui compensi ed accessori di legge;
ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, inserito dall’art. 1, co. 17, l. n. 228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo
a titolo di contributo unificato per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso nella camera di consiglio del 21 febbraio 2024