Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 19758 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 19758 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 17/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso 26368-2019 proposto da:
COGNOME NOME, COGNOME NOME, elettivamente domiciliati in ROMA al INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME, rappresentati e difesi dall’avvocato NOME COGNOME giusta procura in calce al ricorso;
-ricorrenti –
contro
COGNOME elettivamente domiciliata in ROMA alla INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME
rappresentata e difesa dall’avvocato COGNOME giusta procura in calce al controricorso;
-controricorrente –
avverso la sentenza della CORTE D’APPELLO di PALERMO n948/2019, depositata il 02/05/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 1/7/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
Lette le memorie della controricorrente;
MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE
1. Il Tribunale di Palermo, decidendo sul giudizio promosso da NOME COGNOME ed NOME COGNOME contro NOME COGNOME rispettivamente figlia e sorella degli attori, per la reintegrazione, previa riduzione delle disposizioni testamentarie eccedenti la disponibile, delle quote di legittima asseritamente lese dal testamento olografo di NOME COGNOME, moglie e madre di NOME ed NOME, deceduta il 7 novembre 2010, con sentenza non definitiva n. 781 del 10 febbraio 2015, dichiarava l’apertura della successione di NOME COGNOME e analiticamente determinava, ai fini della riunione fittizia, la composizione del relictum e del donatum.
Dopo l’espletamento di C.T.U., il Tribunale adito, con sentenza definitiva n. 186/2018, dichiarava che le quote di legittima di NOME ed NOME COGNOME erano state lese dalle disposizioni del detto testamento in ragione di euro 328.065,74 per ciascuno, e conseguentemente, riduceva le disposizioni testamentarie, nella misura necessaria a reintegrare la quota riservata, mediante attribuzione di beni o quote di beni ai legittimari istanti,
condannando gli attori al pagamento di conguagli in favore della convenuta.
Avverso entrambe le sentenze interponeva appello NOME COGNOME. Si costituivano in giudizio NOME COGNOME ed NOME COGNOME eccependo l’inammissibilità e infondatezza del gravame.
La Corte d’Appello di Palermo, con sentenza n. 948 del 7 maggio 2019, in accoglimento del gravame, riformava parzialmente le sentenze di primo grado, compensando interamente tra le parti le spese di lite.
In particolare, la Corte territoriale, nell’escludere che alla base del trasferimento patrimoniale delle somme di L. 258.602.845 (oggi euro 133.557,22) e di L. 110.000,00 (oggi euro 56.810,25) dalla moglie a NOME COGNOME vi fosse uno scopo di liberalità, cioè di spontanea attribuzione mirata all’arricchimento del ricevente, rilevava che l’incremento patrimoniale del marito fosse ingiustificato e tale da dar luogo ad un corrispondente credito di restituzione in favore della massa ereditaria, imputandole alla quota ereditaria di COGNOME NOME nel caso di esito favorevole dell’azione di riduzione.
Il giudice di secondo grado riteneva, poi, che il bonifico bancario di euro 90.000,00, eseguito dai coniugi COGNOME–COGNOME in favore del figlio NOME COGNOME, configurasse una donazione diretta nulla per difetto di forma e che dovesse, perciò, essere computata, per la metà dell’importo, cioè per la quota di pertinenza della de cuius , nella massa attiva quale credito nei confronti del percettore ed imputata nella quota del figlio in caso di esito positivo dell’azione di riduzione.
Inoltre, la Corte territoriale, in applicazione del c.d. principio di vicinanza della prova, evidenziava come la sottrazione all’accertamento e alla valutazione del C.T.U. di taluni beni mobili, incontestatamente esistenti alla data dell’apertura della successione, era valsa a trasferire in capo al probabile autore di tale condotta, cioè NOME COGNOME, residente nell’immobile in cui i beni erano custoditi, l’onere di provare che il valore dei cespiti era inferiore a quello indicato dalla convenuta, affermando, conseguentemente, l’inclusione dei beni sottratti, ossia il corrispondente debito di valore verso la massa ereditaria, nel relictum con obbligo di imputazione alla quota ereditaria di NOME COGNOME nel caso di favorevole esito dell’azione di riduzione.
Per la cassazione di tale sentenza NOME COGNOME ed NOME COGNOME hanno proposto ricorso sulla base di otto motivi.
NOME COGNOME ha resistito con controricorso, illustrato da memorie.
Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c. in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. in merito all’accoglimento del quarto motivo di appello avverso la sentenza non definitiva con il quale l’appellante chiedeva la restituzione di somme nella disponibilità di NOME COGNOME senza alcuna causa giustificativa -nonostante la mancata specifica indicazione del capo o della parte della sentenza che non si condivideva e anche delle modifiche che si dovrebbero apportare rispetto alla decisione di primo grado.
Secondo i ricorrenti, il motivo di appello avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile in quanto l’appellante non avrebbe
indicato il capo o la parte della sentenza impugnata né le modifiche da apportare rispetto alla decisione di primo grado. Il motivo è infondato.
Giova a tal proposito richiamare quanto affermato da Cass. S.U. n. 27199/2017 (in senso conforme anche Cass. S.U. n. 36481/2022), secondo cui gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 134 del 2012, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di ‘ revisio prioris instantiae ‘ del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata.
Ad avviso della Corte, avuto riguardo al contenuto dell’atto di appello a suo tempo redatto dalla controricorrente, con il secondo ed il terzo motivo di appello, l’appellante mirava specificamente a contestare la correttezza della sentenza di primo grado che aveva escluso che la dazione delle due somme di denaro ivi indicate costituisse una valida donazione, evidentemente allo scopo di tenerne conto sia ai fini della corretta definizione delle operazioni di riunione fittizia (essendo le dette somme, ove costituenti una donazione, destinate ad incrementare il donatum), sia al fine di incidere sula effettiva entità della lesione subita dagli attori,
dovendo le stesse donazioni essere imputate ex se ai sensi dell’art. 564 c.c.
La Corte d’Appello, pur confermando il fatto che, in ragione dell’entità delle somme oggetto di cause e delle modalità con le quali le stesse erano pervenute nel patrimonio degli attori, non fosse possibile riscontrare una valida donazione indiretta (e ciò alla luce di quanto chiarito da Cass. S.U. n. 18725/2017 ha però ritenuto che di tali somme dovesse tenersi conto in quanto oggetto di un’obbligazione restitutoria gravante sugli accipienti, obbligazione che non poteva essere immediatamente esatta da parte della convenuta (e ciò in quanto l’esatta misura della parte di credito spettantele era subordinata all’accertamento della misura della lesione subita da parte degli attori, in virtù della quale gli stessi avrebbero vantato un diritto a partecipare pro quota alla divisione dei beni caduti in successione, dovendosi quindi nell’ambito delle operazioni divisionali provvedere all’imputazione alla quota degli obbligati del debito da restituzione).
La complessiva lettura dei motivi di appello dal secondo al quarto consente però di rilevare la connessione esistente tra gli stessi, ed in particolare il carattere subordinato assunto dal quarto, in quanto logicamente condizionato al mancato accoglimento dei primi due, sul presupposto che, solo una volta confermata l’inesistenza di una valida donazione, sarebbe venuto meno il titolo giustificativo della dazione delle somme e sarebbe quindi insorto un obbligo restitutorio del tantundem a carico dei percipienti, obbligo del quale avrebbe tratto beneficio la parte appellante (è pur vero che l’incremento del donatum incrementa
in proporzione sia la quota di legittima che la disponibile, ma nel caso di specie la maggiore entità della quota degli attori viene ad essere compensata dal fatto che gli stessi se non imputano le somme alla loro quota ex art. 564 c.c., divengono però debitori dell’eredità, e devono quindi procedere all’imputazione ex art. 724 c.c. nella divisione scaturente dall’accoglimento dell’azione di riduzione, con il diritto della convenuta al prelevamento di beni in proporzione della quota di credito corrispondente all’ammontare della sua legittima e della disponibile).
La connessione per subordinazione che avvince i tre motivi di ricorso consente di affermare che non possa esigersi una specifica individuazione dei capi impugnati per il solo quarto motivo, volta che la censura specifica contenuta nel secondo e nel terzo motivo di appello si estende anche al quarto.
Inoltre, e come si avrà modo di precisare oltre, anche a voler reputare che la sentenza non definitiva del Tribunale si fosse pronunciata sulla domanda restitutoria (e che quindi non vi fosse un’omissione di pronuncia, come invece si assume nel motivo di gravame), il motivo di appello, come riportato dagli stessi ricorrenti alla pag. 12, estrinseca delle critiche di carattere sostanziale tali da attingere la correttezza anche del rigetto della domanda restitutoria, essendosi evidenziato che, una volta esclusa la configurabilità di una valida donazione, risultava priva di qualsivoglia giustificazione la pretesa degli appellati di trattenere le somme loro pervenute, senza titolo giustificativo (inoltre risultano formulate delle affermazioni che sono idonee a contestare la correttezza sia del fatto che non era dato prendere in considerazione le somme de quibus in quanto non più presenti
nel patrimonio della testatrice al momento della sua morte, sia in merito all’utilizzo delle somme per far fronte alle esigenze familiari).
Il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., dell’art. 112 c.p.c. in relazione al quarto motivo di appello avverso la sentenza non definitiva, per avere la Corte dichiarato, andando ultra ed extrapetita , che nella massa attiva dei beni ereditari per cui è causa, rientrava sia il credito nei confronti di NOME COGNOME di L. 258.602.845 sia quello sempre nei confronti di NOME COGNOME di L. 110.000.000. In particolare, secondo i ricorrenti, la statuizione della Corte sarebbe stata adottata in assenza di una specifica domanda da parte dell’appellante, dal momento che la domanda riconvenzionale di condanna restitutoria, proposta dalla stessa in via subordinata, era assolutamente diversa e distinta da quella accolta, relativa alla rideterminazione della massa ereditaria.
Secondo i ricorrenti, mentre la domanda riconvenzionale rigettata in primo grado sarebbe stata di condanna alla restituzione delle somme, quella accolta dalla Corte territoriale avrebbe riguardato l’accertamento del credito della massa.
Anche tale motivo è privo di fondamento.
Come sopra esposto, la difesa della convenuta, quanto all’individuazione di una serie di donazioni delle quali avrebbero beneficiato gli attori, era chiaramente finalizzata a conseguire il rigetto della domanda di riduzione, sul presupposto che le donazioni avrebbero eliso la lesione asseritamente subita.
Nondimeno era stato anche dedotto, ed in via riconvenzionale, che ove fosse stata esclusa la sussistenza di una valida liberalità, l’appropriazione di tali somme sarebbe stata sine titulo e ne avrebbe quindi imposto la restituzione all’erede universale.
Ma se tale ultima domanda è stata ritenuta non accoglibile dalla sentenza impugnata, in ragione della impossibilità di poter attribuire per intero la somma alla convenuta, dovendosi tenere conto della spettanza del credito pro quota anche ai legittimari pretermessi all’esito del vittorioso esperimento dell’azione di riduzione, l’affermazione secondo cui delle somme doveva tenersi conto ai fini dell’imputazione e dei prelevamenti nella successiva divisione scaturente dall’accoglimento della riduzione, non realizza una violazione dell’art. 112 c.p.c., trattandosi di esito che comunque è suscettibile di rientrare nella richiesta originaria della convenuta di tenere conto delle donazioni al fine di ridurre l’entità della lesione alla quale avrebbe dovuto porre rimedio.
In altre parole, la finalità delle deduzioni difensive era quella di ottenere una corretta ricostruzione del patrimonio della defunta madre, in vista delle operazioni di riunione fittizia, al precipuo fine di ridurre l’impatto che l’accoglimento della domanda dei congiunti avrebbe avuto sull’ammontare dei beni dei quali era stata beneficiata per testamento.
La tesi della donazione, sebbene idonea ad incrementare il donatum , avrebbe però assicurato una allocazione delle donazioni nella quota di legittima dei donatari, tramite il meccanismo dell’imputazione, la diversa conclusione della nullità delle donazioni avrebbe incrementato il relictum , ma avrebbe
determinato l’insorgenza di un’obbligazione restitutoria gravante sui legittimari asseritamente lesi.
La non immediata azionabilità del credito riconosciuto presupponeva però in ogni caso che a monte fosse stata accertata la presenza nel relictum di tale credito della de cuius nei confronti degli attori, così che l’accertamento operato in sentenza appare evidentemente già ricompreso nella domanda de qua, il che esclude che ricorra la dedotta violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.
Il terzo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., dell’art. 2033 c.c. in relazione al quarto motivo di appello avverso la sentenza non definitiva, in ordine all’errata liquidazione degli interessi legali sulle somme di L. 258.602.845 e di L. 110.000.000. In particolare, la Corte avrebbe erroneamente incluso nell’attivo ereditario anche gli interessi sulle suddette somme dalle date della rispettiva apprensione da parte di NOME COGNOME.
Secondo i ricorrenti, alla luce della disciplina sull’indebito oggettivo ex art. 2033 c.c., essendo NOME COGNOME in buona fede -sia perché la buona fede si presume sia perché la malafede non sarebbe stata allegata -gli interessi avrebbero dovuto essere computati dalla data della domanda, e cioè dall’8 febbraio 2022, data di deposito della comparsa di risposta con la domanda riconvenzionale da parte di NOME COGNOME.
Il motivo è fondato.
La sentenza, lungi dall’accertare una pretesa creditoria della de cuius a titolo di arricchimento senza causa, come invece
sostenuto da parte controricorrente, ha esplicitamente affermato che il trasferimento delle dette somme a favore di COGNOME NOME era privo di una valida giustificazione, affermazione che appare chiaramente ricollegata, oltre che all’assenza di una formale donazione (per il trasferimento del ricavato del prezzo della vendita di un immobile della de cuius) alla assoluta carenza dell’elemento soggettivo necessario per la donazione.
Trattasi quindi di versamento privo di una giustificazione causale e che impone di ritenere che la qualificazione dell’obbligazione de qua sia da ricondurre alle norme in tema di indebito oggettivo (cfr. Cass. n. 9052/2010, secondo cui, qualora venga acclarata la mancanza di una ” causa adcquirendi ” – tanto nel caso di nullità, annullamento, risoluzione o rescissione di un contratto, quanto in quello di qualsiasi altra causa che faccia venir meno il vincolo originariamente esistente – l’azione accordata della legge per ottenere la restituzione di quanto prestato in esecuzione del contratto stesso è quella di ripetizione di indebito oggettivo; Cass. n. 5488/2022, proprio in relazione ad un’ipotesi di nullità di una donazione di una somma di denaro).
Risultando, quindi, correttamente invocata la previsione di cui all’art. 2033 c.c., vale il principio secondo cui la buona fede dell'” accipiens “, rilevante ai fini della decorrenza degli interessi dal giorno della domanda, va intesa in senso soggettivo, quale ignoranza dell’effettiva situazione giuridica, derivante da un errore di fatto o di diritto, anche dipendente da colpa grave, non trovando applicazione l’art. 1147, comma 2, c.c., relativo alla buona fede nel possesso, sicché, essendo essa presunta per principio generale, grava sul ” solvens “, che intenda conseguire gli
interessi dal giorno del pagamento, l’onere di dimostrare la malafede dell'” accipiens ” all’atto della ricezione della somma non dovuta, quale consapevolezza della insussistenza di un suo diritto a conseguirla (Cass. n. 23448/2020; Cass. n. 12362/2024).
La sentenza impugnata ha accordato sulle somme delle quali ha ritenuto dovesse tenersi conto ai fini della individuazione del relictum anche gli interessi al tasso legale ma, come chiarito ai punti 13 e 14 del dispositivo, con il loro calcolo a far data dalla dazione stessa (e sino alla data dell’apertura della successione, occorrendo individuare i beni relitti secondo il valore a tale data), prescindendo quindi dalla regola di cui all’art. 2033 c.c., che in caso di buona fede (nella specie da reputarsi presunta, in assenza di prova contraria da parte della convenuta) dispone che gli interessi vadano calcolati a far data dalla domanda.
Il motivo deve pertanto essere accolto e la sentenza va cassata in relazione a tale censura, dovendo il giudice di rinvio determinare il relictum sulla base del solo valore dei crediti restitutori vantati dalla de cuius alla data dell’apertura della successione.
Il quarto motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., dell’art. 2697 c.c. in relazione al quarto motivo di appello avverso la sentenza non definitiva, per aver la Corte territoriale ritenuto ingiustificato l’incremento patrimoniale di NOME COGNOME e idoneo a dar luogo ad un corrispondente credito di restituzione in favore della massa ereditaria, in assenza della dimostrazione di un titolo giuridico non donativo idoneo a legittimare il trasferimento dal patrimonio personale della de cuius a quello del marito NOME COGNOME. In particolare, la motivazione sul
punto sarebbe errata e contraria ai principi della Suprema Corte sotto il profilo che la semplice allegazione dell’apprensione di somme di denaro non sarebbe irrilevante se non accompagnata dagli ulteriori elementi probatori quali la sussistenza di una obbligazione restitutoria qualificata.
Secondo i ricorrenti, la datio di una somma di danaro non varrebbe a fondare la richiesta di restituzione allorquando l’accipiens non confermi il titolo posto ex adverso , nel caso di specie la donazione, dovendo piuttosto l’attore, che chieda la restituzione delle somme, provare gli elementi costitutivi della domanda e quindi, oltre all’avvenuta consegna della somma, anche il titolo da cui derivi l’obbligo della vantata restituzione. Il motivo è infondato.
Questa Corte ha affermato che, qualora il titolo giustificativo del pagamento sia prospettato come ignoto dal solvens (o dal suo erede) che agisce in ripetizione, egli può limitarsi ad invocare ed a provare l’inidoneità del titolo ipotizzato, fermo il suo onere di dimostrare l’inidoneità della diversa causa dell’attribuzione eventualmente indicata dal convenuto (Cass. n. 14788/2024; Cass. n. 1170/1999).
Nella specie, una volta disattesa la richiesta principale della convenuta di accertare che le dazioni erano delle valide donazioni, di cui si doveva tenere conto ai fini del calcolo della quota di riserva vantata dai congiunti, la richiesta accolta è correlata a quella subordinata di tenere conto del diritto alla ripetizione delle somme vantato dalla de cuius, per l’assenza di un valido titolo giustificativo (cfr. pag. 12 del ricorso che riporta il contenuto dell’atto di appello della convenuta, che richia ma il
fatto che, ove si escluda che si sia in presenza di donazioni, le somme spetterebbero in ogni caso alla defunta, essedo detenute senza alcun valido titolo giustificativo dal marito).
Trattasi di richiesta che appunto si risolve nella allegazione dell’insussistenza di un valido titolo che giustificasse la ritenzione delle somme, senza che sia stata dimostrata l’esistenza di una diversa causale che la giustifichi, così che alcuna violazione dell’art. 2697 c.c. risulta realizzata, e si palesa non pertinente il richiamo a quella giurisprudenza che invece risulta confacente alla diversa ipotesi in cui l’obbligazione restitutoria sia correlata dallo stesso attore all’individuazione di uno specifico contratto dal quale scaturisca l’obbligazione de qua (come nel caso in cui si pretenda la restituzione delle somme mutuate).
Il quinto motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., dell’art. 112 c.p.c. avverso il capo della sentenza con il quale la Corte ha accolto il quinto motivo di appello avverso la sentenza non definitiva ed ha ritenuto, andando ultra ed extra petita, che il bonifico bancario di euro 90.000,00, eseguito dai coniugi COGNOME in favore del figlio NOME COGNOME configurasse una donazione diretta nulla per difetto di forma e che dovesse, perciò, essere computata, per la metà dell’importo, nella massa attiva quale credito nei confronti del percettore ed imputata nella quota del figlio in caso di esito positivo dell’azione di riduzione.
A parere dei ricorrenti, il giudice di secondo grado avrebbe violato il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, accogliendo una domanda mai formulata, in quanto la
qualificazione della dazione della somma quale donazione diretta sarebbe diversa e distinta da quella formulata dall’appellante, con il quinto motivo di gravame avverso la sentenza non definitiva, in termini di donazione indiretta da imputare nel donatum a favore del figlio NOME COGNOME
Il motivo è infondato.
Infatti, valga a tal fine il richiamo alle considerazioni svolte in occasione della disamina del secondo motivo circa le finalità che si prefiggeva la convenuta nel momento in cui aveva allegato l’esistenza di alcune donazioni delle quali avevano beneficiato in vita gli attori agenti in riduzione.
Ciò porta analogamente ad affermare nel caso di specie che, una volta ritenuto da parte del giudice di appello, e nell’esercizio del potere di qualificazione della domanda e dei fatti allegati, che la dazione della somma de qua effettuata tramite bonifico si configurava alla stregua di una donazione diretta (affetta da nullità formale), e non anche come donazione indiretta, se della somma versata non poteva più tenersi conto ai fini della individuazione del donatum , la stessa però, in quanto idonea a dar vita ad un credito alla ripetizione da parte della de cuius, andava presa in considerazione ai fini del calcolo del relictum , nonché quale obbligazione da imputare a cura del debitore nell’ambito delle operazioni divisionali scaturenti dall’accoglimento dell’azione di riduzione e del riconoscimento di una quota indivisa sui beni caduti in successione, proprio in proporzione all’ammontare della legittima lesa.
Né infine può assumersi che vi stata extrapetizione in ragione dell’accertamento della nullità della donazione operata da parte
del giudice in assenza di deduzione della controparte, dovendosi a tal fine far richiamo al potere di rilevazione d’ufficio della nullità negoziale come chiaramente affermato da Cass. S.U. n. 26242/2014.
Deve quindi escludersi che la conclusione cui è pervenuta la Corte distrettuale concreti una violazione dell’art. 112 c.p.c.
Il sesto motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. per aver la Corte, in accoglimento del secondo motivo avverso la sentenza definitiva, dichiarato che i beni mobili e arredi della casa coniugale, e solo in parte rinvenuti dal C.T.U. nel corso della ricognizione, dovessero essere inclusi nel relictum della de cuius . Secondo i ricorrenti, la Corte avrebbe erroneamente applicato il c.d. principio della vicinanza della prova per non aver attribuito in capo a chi intende far valere in giudizio un diritto l’onere di provare la determinazione del valore dei beni mobili relitti, ponendo invece in capo a NOME COGNOME l’onere di dimostrare che i beni ‘non rinvenuti’ nella casa, e su cui aveva il diritto d’uso, avessero un valore inferiore a quello indicato da NOME COGNOME.
Il motivo è infondato, sebbene debba in parte correggersi la motivazione della sentenza gravata.
Non ignora il Collegio come anche di recente questa Corte abbia precisato che il principio di vicinanza della prova non deroga alla regola di cui all’art. 2697 c.c. (che impone all’attore di provare i fatti costitutivi del proprio diritto e al convenuto la prova dei fatti estintivi, impeditivi o modificativi del diritto vantato dalla controparte), ma opera allorquando le disposizioni attributive
delle situazioni attive non offrono indicazioni univoche per distinguere le suddette due categorie di fatti, fungendo da criterio ermeneutico alla cui stregua i primi vanno identificati in quelli più prossimi all’attore e dunque nella sua disponibilità, mentre gli altri in quelli meno prossimi e quindi più facilmente suffragabili dal convenuto, di modo che la vicinanza riguarda la possibilità di conoscere in via diretta o indiretta il fatto, e non già la possibilità concreta di acquisire la relativa prova (Cass. n. 12910/2022).
Avere affermato che la sottrazione all’accertamento ed alla valutazione del CTU dei beni mobili caduti in successione ad opera di COGNOME NOME trasferiva in capo a quest’ultimo l’onere probatorio comunque gravante sulla convenuta di dimostrare il valore dei beni sottratti costituisce una non corretta applicazione del principio della vicinanza della prova.
Tuttavia, la sentenza impugnata ha da un lato affermato che l’esistenza dei beni, di cui all’allegato 46 prodotto dalla controricorrente, nel patrimonio ereditario alla data dell’apertura della successione costituiva circostanza incontestata, ma dall’altro ha valorizzato la condotta scorretta tenuta da parte dell’attore che, pur essendo nel godimento dei beni, in quanto titolare del diritto di uso, aveva volutamente impedito che gli stessi fossero sottoposti alla validazione peritale.
Ha altresì aggiunto che una stima era stata offerta da parte della convenuta (stima cui ha aderito la Corte d’Appello), e che la sottrazione era finalizzata appunto ad impedire la validazione peritale delle indicazioni fornite dall’erede testamentaria.
Appare al Collegio che la condotta descritta dalla sentenza impugnata consenta di pervenire alla conferma dell’esito
decisionale raggiunto dalla stessa facendo richiamo alla previsione di cui al secondo comma dell’art. 116 c.p.c., che consente al giudice di desumere argomenti di prova in generale dal contegno delle parti tenuto nel corso del processo.
Ebbene, proprio la volontaria sottrazione dei beni da stimare ad opera della parte che ne era nel possesso fa sì che possa annettersi a tale condotta la valenza in chiave probatoria di cui alla norma citata e che per l’effetto gli argomenti di prova da trarre ben possano consistere nella conferma della correttezza della stima dei beni offerta dalla convenuta, la cui verifica è stata impedita dalla deprecabile condotta del padre.
Il motivo deve pertanto essere rigettato.
Il settimo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. per aver la Corte territoriale incluso nel relictum i gioielli del valore di euro 60.000,00 nella disponibilità di NOME COGNOME per euro 3.000,00 e NOME COGNOME per euro 57.000,00 in assenza di una domanda sulla disponibilità di tali beni nell’atto di appello.
Il giudice di secondo grado avrebbe, quindi, violato il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, secondo i ricorrenti, per aver affermato, in ordine alla massa attiva, una disponibilità dei beni, nella specie i gioielli, in assenza di una domanda sul punto.
Il motivo è evidentemente infondato.
La stessa parte ricorrente ricorda come l’inclusione nel relictum di gioielli appartenenti alla defunta per un valore di € 60.000,00 fosse stato già disposto dalla sentenza non definitiva n. 781/2015 del Tribunale di Palermo, la quale era stata oggetto di correzione
di errore materiale solo nella parte in cui, quanto esposto in motivazione in ordine alla inclusione nel relictum anche di tale componente, non aveva trovato una corrispondente esternazione nel capo di dispositivo.
L’ordinanza di correzione del 14 aprile 2015, riprodotta integralmente in ricorso alla pag. 38 conforta appunto la conclusione secondo cui nella massa andavano inclusi anche gioielli per l’ammontare sopra indicato.
La Corte d’Appello, avendo provveduto ad un parziale accoglimento del gravame di Cannizzo Alba, per effetto del quale, si è venuta ad incrementare la composizione del relictum , in ragione delle poste creditorie che la de cuius vantava nei confronti del figlio e del marito, stante l’assenza di titolo giustificativo per alcune dazioni di somme di denaro effettuate in loro favore, in dispositivo ha correttamente integrato la composizione del relictum riportando al punto 16) il valore dei gioielli che, proprio perché costituiva una voce non attinta dai motivi di appello, era ormai indubbiamente destinata a costituire una componente del patrimonio ereditario da considerare in vista delle operazioni di riunione fittizia.
Alcuna violazione può quindi addebitarsi alla sentenza impugnata per avere ribadito in dispositivo quanto già era ormai oggetto di accertamento non più contestabile da parte del Tribunale.
Quanto invece alla diversa individuazione della disponibilità di fatto dei gioielli (e precisamente per € 3.000,0 a Cannizzo Alba e per la residua parte a Cannizzo Domenico), valga il richiamo al contenuto della stessa sentenza non definitiva n. 718/2015, come riportato in controricorso alla pag. 49, avendo già il giudice di
prime cure in motivazione (pag. 5), affermato che i gioelli in esame erano collocati nella casa di INDIRIZZO ad eccezione di una sola parure del valore di € 3.000,00 che risultava essere stata prelevata dalla convenuta.
Deve, perciò, ritenersi che la sentenza di appello abbia richiamato quanto già oggetto di accertamento da parte del Tribunale, e non specificamente attinto da motivi di appello.
L’ottavo motivo di ricorso lamenta l’errata regolamentazione delle spese per non aver il giudice di secondo grado, accertata la lesione di legittima di NOME ed NOME COGNOME condannato alle spese l’appellante, essendo del tutto irrilevante che la massa ereditaria è stata limitatamente rideterminata anche secondo le deduzioni avversarie, rilevando esclusivamente l’accoglimento dell’azione di riduzione.
In particolare, secondo i ricorrenti, la soccombenza discenderebbe non solo dall’accoglimento dell’azione di riduzione, ma anche dalla mancata adesione alla proposta conciliativa formulata dal giudice di primo grado.
Il motivo, in ragione dell’accoglimento del terzo motivo, deve reputarsi assorbito, dovendo il giudice di rinvio provvedere ad una novella regolamentazione delle spese di lite.
Il giudice del rinvio che si designa nella Corte d’Appello di Palermo, in diversa composizione, provvederà anche sulle spese del presente giudizio.
PQM
Accoglie il terzo motivo di ricorso nei limiti di cui in motivazione e, assorbito l’ottavo e rigettati gli altri, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Corte
d’Appello di Palermo in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del presente giudizio.
Così deciso nella camera di consiglio del 1 luglio 2025