Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 5240 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 5240 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 28/02/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 15036/2018 R.G. proposto da
CONSORZIO RAGIONE_SOCIALE, in persona del Presidente p.t., rappresentato e difeso dall’Avv. NOME COGNOME con domicilio in Roma, INDIRIZZO presso la Cancelleria civile della Corte di cassazione;
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante p.t. NOME COGNOME, rappresentato e difeso dall’Avv. NOME COGNOME con domicilio eletto in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’Avv. NOME COGNOME;
-controricorrente – avverso la sentenza della Corte d’appello di Messina n. 115/18, depositata il 12 febbraio 2018.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 22 ottobre 2024 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
La RAGIONE_SOCIALE, proprietaria di un fondo sito in Sant’Agata di Militello, alla INDIRIZZO, sul quale insistevano alcuni capannoni industriali, un edificio adibito ad uffici, una cabina elettrica e un pozzo, convenne in giudizio il Consorzio Autostrade Siciliane (CAS), per sentirlo condannare al risarcimento dei danni cagionati nel corso dell’esecuzione dei lavori di costruzione del lotto 23ter , secondo stralcio, dell’autostrada Messina-Palermo, nel tratto Rocca di Capri Leone-Sant’Agata di COGNOME
Premesso che l’esecuzione dei lavori era stata affidata alla RAGIONE_SOCIALE, la quale aveva realizzato due gallerie ipogee ad una profondità di 3040 m., l’attrice riferì che nel corso dei lavori di scavo e perforazione si erano verificati gravi danni alle strutture di sua proprietà e la portata del pozzo si era esaurita. Precisato inoltre di aver agito per il risarcimento dei danni nei confronti dell’appaltatrice, sostenne che, a seguito della dichiarazione di fallimento della stessa, il Tribunale di COGNOME aveva declinato la propria competenza a favore del Tribunale di Roma, dinanzi al quale essa attrice aveva riassunto il giudizio, per poi desistere dall’azione, a causa dell’incapienza del fallimento.
Si costituì il CAS, ed eccepì la prescrizione del diritto azionato, negando l’esistenza e l’efficacia interruttiva del giudizio nei confronti dell’RAGIONE_SOCIALE, e contestando la propria legittimazione passiva e la fondatezza della domanda.
Nel corso del giudizio, fu disposta la chiamata in causa del curatore del fallimento dell’RAGIONE_SOCIALE.
1.1. Con sentenza del 9 novembre 2010, il Tribunale di Patti, Sezione distaccata di Sant’Agata di Militello, dichiarò inammissibile la domanda proposta nei confronti del curatore ed accolse la domanda proposta nei confronti del CAS, condannandolo al risarcimento dei danni, nella misura di Euro 180.300,00, oltre rivalutazione monetaria ed interessi.
L’impugnazione proposta dal CAS è stata rigettata dalla Corte d’appello di Messina, che con sentenza del 12 febbraio 2018 ha accolto l’appello incidentale proposto dalla RAGIONE_SOCIALE, condannando il CAS al pagamento dell’ulteriore somma di Euro 17.450,00, oltre rivalutazione monetaria ed interessi.
A fondamento della decisione, la Corte ha confermato il rigetto dell’eccezione di prescrizione sollevata dal CAS, rilevando che le parti avevano concordemente ammesso che l’attrice aveva proposto una domanda giudiziale nei confronti dell’RAGIONE_SOCIALE, poi fallita, e ritenendo pertanto che spettasse al CAS, il quale aveva eccepito il carattere istantaneo dell’effetto interruttivo del predetto giudizio, l’onere di provare l’avvenuta estinzione dello stesso, rimasta indimostrata.
Ha osservato inoltre che il Giudice di primo grado aveva correttamente ricostruito la vicenda, ricollegando la responsabilità del Consorzio, in solido con l’impresa appaltatrice, alla scelta della zona in cui era stata realizzata la galleria e della relativa quota, alla carenza di opportune indagini geologiche prodromiche alla fase progettuale ed alla mancata adozione di accorgimenti idonei a limitare gli effetti delle vibrazioni, che avevano arrecato danni alle strutture di proprietà dell’attrice.
Ha poi disatteso le censure mosse alla c.t.u. espletata nel corso del giudizio di primo grado, rilevando che le operazioni, volte ad accertare fatti riscontrabili solo mediante l’uso di cognizioni o strumentazioni tecniche, si erano svolte nel contraddittorio delle parti, ritenendo sufficiente, ai fini del recepimento delle conclusioni rassegnate dal c.t.u., la valutazione di attendibilità compiuta dal Tribunale, e reputando tardiva, in quanto non proposta nell’udienza o nella memoria immediatamente successiva al deposito della relazione, l’eccezione di nullità sollevata in relazione all’allegazione di documenti nuovi.
La Corte ha invece accolto le censure mosse dall’appellata alla liquidazione dei danni, osservando che la sentenza impugnata aveva assunto come riferimento la sola voce indicata dal c.t.u. per la messa in opera di micropali, un cordolo di collegamento, lo scavo e l’armatura, senza giustificare l’esclusione di altre voci, pur analiticamente indicate.
Avverso la predetta sentenza il CAS ha proposto ricorso per cassazione, articolato in quattro motivi, illustrati anche con memoria. La COGNOME ha resistito con controricorso, anch’esso illustrato con memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Preliminarmente, va disattesa l’eccezione d’inammissibilità del controricorso, sollevata dalla difesa del Consorzio per inosservanza del termine di cui all’art. 370, primo comma, cod. proc. civ., essendo stato l’atto ritualmente notificato e depositato entro il predetto termine, decorrente dal ventesimo giorno successivo alla notifica del ricorso, richiesta il 30 aprile 2018 e pervenuta al difensore della controricorrente il 7 maggio 2018.
Con il primo motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia la violazione e/o la falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. e dell’art. 2697 cod. civ., osservando che, nel ritenere pacifica la pendenza del giudizio promosso nei confronti dell’RAGIONE_SOCIALE ai fini del rigetto dell’eccezione di prescrizione del diritto al risarcimento, la Corte territoriale non ha considerato che tale circostanza, oltre ad aver costituito oggetto di discussione tra le parti, era stata ritenuta non provata dalla sentenza di primo grado, rimasta incensurata sul punto. Precisato inoltre che nell’atto di appello era stato espressamente dedotto il mancato compimento di atti interruttivi della prescrizione, anche in ragione dell’intervenuto abbandono del predetto giudizio, afferma che, a fronte di tale deduzione, incombeva all’attrice l’onere di provare la perdurante esistenza del giudizio.
Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione e/o la falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ., nonché l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, osservando che, nell’esaminare il motivo di gravame concernente la prescrizione del diritto azionato, la Corte d’appello si è limitata ad affermare la responsabilità solidale dell’appaltatrice e di esso committente, ricollegandovi l’efficacia interruttiva permanente della domanda precedentemente proposta nei confronti dell’RAGIONE_SOCIALE, senza pronunciare in ordine alle censure mosse alla sentenza di primo grado, nella parte in cui aveva per un verso rilevato il passaggio in giudicato della dichiarazione d’incompetenza pronunciata in ordine alla predetta domanda, e per altro verso ritenuto non provata l’estinzione di quel giudizio.
Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione e/o la falsa applicazione dell’art. 116 cod. proc. civ. e degli artt. 1310 e 2055 cod. civ., osservando che, nell’accertare la responsabilità solidale dell’appaltatrice e di
esso committente, la sentenza impugnata ha attribuito alla relazione di c.t.u. un significato opposto a quello risultante dalla lettura della stessa, avendo ricondotto i danni alla mancata adozione di accorgimenti idonei ad evitare le vibrazioni, anziché alla progettazione ed alla localizzazione delle opere, che avrebbero comportato la responsabilità esclusiva di esso ricorrente.
Con il quarto motivo, il ricorrente denuncia la violazione o la falsa applicazione degli artt. 1655, 1662, 2043 e 2697 cod. civ., sostenendo che l’accertamento della responsabilità di esso committente, in solido con l’appaltatrice, si pone in contrasto con la regola generale, operante anche nel settore degli appalti pubblici, secondo cui l’autonomia riconosciuta all’appaltatore nello svolgimento della sua attività e nell’organizzazione dei mezzi necessari ne comporta la responsabilità esclusiva per i danni provocati nell’esecuzione del contratto. Premesso che tale responsabilità viene meno solo se l’evento dannoso sia stato cagionato nell’esecuzione del progetto o di direttive rigide e vincolanti impartite dal committente, afferma che nel caso di specie la mancata dimostrazione di tale limitazione dell’autonomia comportava la responsabilità esclusiva dell’appaltatrice, essendo stata accertata la conoscenza da parte della stessa delle criticità emerse nella fase progettuale.
Il primo motivo, riguardante il venir meno dell’effetto interruttivo permanente della prescrizione, in conseguenza dell’estinzione del giudizio precedentemente promosso dall’attrice nei confronti dell’appaltatrice dei lavori, responsabile in solido con il committente, è infondato.
Nel porre a carico del Consorzio l’onere di fornire la prova dell’estinzione del giudizio, la sentenza impugnata ha infatti richiamato correttamente il principio enunciato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui, poiché la proposizione della domanda giudiziale produce l’interruzione della prescrizione con effetto permanente fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio, fatta eccezione, ai sensi dell’art. 2945, ultimo comma, cod. civ., per il caso in cui il giudizio si sia estinto, la parte che oppone l’interruzione della prescrizione con effetti permanenti è tenuta soltanto a dimostrare l’esistenza del giudizio dal quale la stessa dipende, mentre grava sulla controparte l’onere di eccepire e dimostrare l’intervenuta estinzione di quel giudizio, che ha fatto venir meno il predetto effetto (cfr. Cass., Sez. III, 29/11/
1991, n. 12879).
Benvero, ai sensi dell’art. 307, ultimo comma, cod. proc. civ., l’estinzione del processo opera di diritto, ma dev’essere eccepita dalla parte interessata prima di ogni altra sua difesa: essa, tuttavia, può essere accertata anche incidentalmente in un diverso giudizio, non solo al fine di ottenere il rigetto di un’eccezione di litispendenza, ma anche, come nella specie, al fine di escludere l’efficacia permanente dell’interruzione della prescrizione determinata dalla domanda giudiziale e di farne accertare l’efficacia istantanea, senza che sia necessaria la specifica proposizione dell’eccezione di estinzione (cfr. Cass., Sez. II, 11/05/2023, n. 12820; Cass., Sez. VI, 24/10/2017, n. 25196; Cass., Sez. I, 27/08/2004, n. 17121), risultando in tal caso sufficiente anche la sola eccezione di prescrizione (cfr. Cass., Sez. III, 18/01/2006, n. 825). L’onere di provare il fatto interruttivo della prescrizione, ritualmente introdotto nel processo, grava poi, conformemente alla regola generale di cui all’art. 2697 cod. civ., sulla parte che ha esercitato il diritto soggetto a prescrizione, a tal fine risultando sufficiente l’allegazione e la dimostrazione, ad opera della controparte, che il diritto è sorto e poteva essere fatto valere in un momento in relazione al quale, in mancanza del fatto interruttivo, avrebbe dovuto essere considerato estinto quando è stato azionato (cfr. Cass., Sez. III, 26/02/2021, n. 5413).
Nel caso in esame, essendo pacifico che tra il completamento dei lavori commissionati dal CAS all’RAGIONE_SOCIALE, dalla cui esecuzione erano derivati i danni lamentati dall’attrice, e l’instaurazione del presente giudizio era trascorso un lasso di tempo notevolmente superiore al termine quinquennale di prescrizione dell’azione risarcitoria, l’attrice aveva allegato, a sostegno della domanda, di aver precedentemente agito nei confronti dell’appaltatrice, responsabile in solido con il committente, facendo valere, ai sensi dell’art. 1310, secondo comma, cod. civ., l’interruzione permanente della prescrizione, derivante dalla pendenza del predetto giudizio (cfr. Cass., Sez. III, 15/06/2001, n. 8136; 28/03/1994, n. 2988; 21/06/1988, n. 4244); risultando pacifica tra le parti l’avvenuta proposizione della predetta domanda, ed avendo il Consorzio allegato, a sostegno dell’eccezione di prescrizione, che l’efficacia interruttiva permanente della stessa era venuta meno a causa della sopravvenuta
estinzione del giudizio, gravava quindi sul Consorzio, come correttamente ritenuto dalla sentenza impugnata, l’onere di fornire la prova di tale circostanza, a seguito della quale soltanto il termine di prescrizione avrebbe potuto essere fatto decorrere dalla data di notificazione dell’atto di citazione nei confronti dell’RAGIONE_SOCIALE, anziché dal passaggio in giudicato della relativa sentenza. Tale onere non poteva ritenersi adempiuto o modificato per effetto dell’allegazione, da parte dell’attrice, dell’intervenuto abbandono del precedente giudizio, giacché l’abbandono non equivale all’estinzione, ai fini della quale è necessaria la prova dei presupposti richiesti dall’art. 307 cod. proc. civ., la cui sussistenza non è stata neppure dedotta specificamente, mentre ai fini dell’inversione dell’onere della prova di un fatto non è sufficiente la mera deduzione o l’offerta della prova dello stesso ad opera della parte non onerata, occorrendo invece un’inequivoca manifestazione di volontà della medesima di rinunciare ai benefici ed ai vantaggi, che le derivano dal principio di cui all’art. 2697 cod. civ., e di assoggettarsi alle conseguenze dell’eventuale fallimento della prova dedotta ed offerta (cfr. Cass., Sez. III, 7/07/2005, n. 14306; Cass., Sez. V, 10/12/2002, n. 17573; Cass., Sez. lav., 26/04/1988, n. 3167).
Quanto poi alla violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., è appena il caso di ricordare che, ai fini della configurabilità della stessa, non assume rilievo la circostanza che il giudice abbia posto l’onere della prova a carico di una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni, ma è necessario che abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui la legge gli riconosce poteri istruttori officiosi, oppure che, nel valutare una prova, non abbia operato secondo il suo prudente apprezzamento, ma abbia preteso di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (ad esempio, valore di prova legale), o viceversa, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento (cfr. Cass., Sez. Un., 30/09/2020, n. 20867; Cass., Sez. V, 15/10/2024, n. 26739; 9/06/2021, n. 16016).
È parimenti infondato il secondo motivo, riflettente l’omessa pronuncia o il vizio di motivazione in ordine alle censure riguardanti la contraddittorietà della sentenza di primo grado, nella parte in cui aveva rigettato l’eccezione di prescrizione.
La conferma di tale rigetto da parte della sentenza di appello deve ritenersi di per sé sufficiente ad escludere la configurabilità del vizio di cui all’art. 112 cod. proc. civ., ai fini del quale non è sufficiente che sia stato omesso o risulti insufficiente l’esame di alcune delle argomentazioni svolte dalle parti, ma è necessario che manchi completamente il provvedimento indispensabile per la soluzione del caso concreto, ciò che accade allorquando il giudice non abbia deciso su alcuni capi della domanda, che siano autonomamente apprezzabili, o sulle eccezioni proposte, ovvero quando abbia pronunciato soltanto nei confronti di alcune parti (cfr. Cass., Sez. III, 29/01/2021, n. 2151; Cass., Sez. VI, 3/03/2020, n. 5730; Cass., Sez. I, 13/10/2017, n. 24155).
Quanto poi al vizio di cui all’art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ., ravvisabile nel caso in cui l’esame della questione vi sia stato, ma la decisione appaia inficiata dalla totale pretermissione di un fatto storico o da mancanza assoluta di motivazione, da motivazione apparente, perplessa o incomprensibile o da contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili (cfr. Cass., Sez. V, 5/03/2021, n. 6150; Cass., Sez. lav., 18/06/2014, n. 13866; Cass., Sez. III, 17/07/2007, n. 15882), è sufficiente osservare che il passaggio in giudicato della sentenza dichiarativa dell’incompetenza non poteva costituire in alcun modo un fatto decisivo ai fini dell’accertamento dell’intervenuta estinzione del precedente giudizio, non implicandola affatto, sotto il profilo logicogiuridico, ma comportando anzi l’inefficacia della sentenza, ai sensi dell’art. 310, secondo comma, cod. proc. civ., in quanto pronuncia del giudice di merito, e presupponendo invece la mancata impugnazione della stessa e la tempestiva riassunzione del giudizio dinanzi al Giudice dichiarato competente.
Sono altresì infondati il terzo ed il quarto motivo, da esaminarsi congiuntamente, in quanto aventi ad oggetto l’accertamento della responsabilità solidale del committente e dell’appaltatrice.
Come si è detto in precedenza, in sede di legittimità la violazione dell’art. 116 cod. proc. civ. è deducibile soltanto ove si alleghi che, nel valutare una
prova, il giudice di merito le abbia attribuito un valore diverso da quello suo proprio, oppure, nel caso in cui la legge le attribuisca un particolare valore, l’abbia sottoposta al suo prudente apprezzamento; tale vizio non può essere invece fatto valere per censurare il convincimento che il giudice si è formato attraverso l’esame del materiale probatorio acquisito agli atti, la valutazione della maggiore o minore attendibilità delle fonti di prova e il riconoscimento della prevalenza di alcuni elementi rispetto ad altri, non spettando a questa Corte il compito di riesaminare i fatti di causa, ma solo quello di verificare la correttezza giuridica e la coerenza logico-formale delle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata, nei limiti in cui le relative anomalie sono ancora deducibili come motivo di ricorso per cassazione, a seguito della riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ. ad opera dell’art. 54, comma primo, lett. b) , del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 2012, n. 134 (cfr. Cass., Sez. I, 13/01/2020, n. 331; Cass., Sez. II, 29/10/2018, n. 27415; Cass., Sez. V, 4/08/2017, n. 19547).
Nell’affermare la concorrente responsabilità del Consorzio e dell’RAGIONE_SOCIALE, la Corte territoriale ha d’altronde motivato compiutamente il convincimento raggiunto, richiamando l’opinione espressa dal c.t.u. nominato in primo grado, secondo cui la causa dei danni riportati dalle strutture di proprietà della RAGIONE_SOCIALE era individuabile da un lato nell’errata scelta della zona in cui realizzare la galleria e della relativa quota, che, oltre a determinare il prosciugamento del pozzo irriguo esistente nel fondo dell’attrice, con conseguente alterazione dell’equilibrio idrogeologico del terreno, aveva comportato il danneggiamento degli edifici soprastanti, e dall’altro nella mancata adozione, in sede di esecuzione, di accorgimenti tecnici idonei a limitare gli effetti delle vibrazioni sull’area circostante. Sulla base di tale ricostruzione dei fatti, idonea ad evidenziare l’inadempimento di obblighi specificamente gravanti su ciascuna delle parti del contratto d’appalto nel rispettivo ambito di operatività, la sentenza impugnata ha correttamente ritenuto che la responsabilità fosse addebitabile non solo all’impresa incaricata dei lavori, che nell’esecuzione degli stessi avrebbe dovuto adottare le cautele necessarie per evitare di arrecare danni ai terzi, ma anche al committente, cui spettava la predisposizione
del progetto dell’opera, ai sensi dell’art. 5 della legge 29 aprile 1985, n. 21 (applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame), avendo quest’ultimo omesso di procedere preventivamente alle necessarie indagini geologiche.
Tale conclusione resiste alle critiche formulate dal ricorrente, ponendosi perfettamente in linea con il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità in tema di appalto, secondo cui, ove la realizzazione di un’opera arrechi a terzi danni provocati non già (o non solo) da una malaccorta esecuzione, bensì (anche) da un vizio del progetto fornito dal committente, è configurabile una concorrente responsabilità di quest’ultimo e dell’appaltatore, essendo il primo tenuto al risarcimento per aver ordinato l’esecuzione di un progetto malamente concepito, ed il secondo per aver omesso di rilevare i vizi del progetto e di denunciarli tempestivamente al committente, con la diligenza professionale di cui all’art. 1176, secondo comma, cod. civ. (cfr. Cass., Sez. III, 26/06/2020, n. 12882). È pur vero, infatti, che nell’esecuzione dei lavori commissionatigli l’appaltatore opera in autonomia, con organizzazione dei mezzi necessari e gestione a proprio rischio, sicché è di regola esclusivo responsabile dei danni cagionati a terzi, restando la responsabilità del committente circoscritta all’ipotesi in cui l’opera sia stata affidata a un’impresa manifestamente inidonea (c.d. culpa in eligendo ), oppure il committente si sia ingerito nell’esecuzione dei lavori con direttive rigide e inderogabili, tali da ridurre l’appaltatore al rango di nudus minister (cfr. Cass., Sez. III, 29/12/ 2023, n. 36399; 20/09/2011, n. 19132; 23/04/2008, n. 10588). In particolare, l’appaltatore, dovendo assolvere al proprio dovere di osservare i criteri generali della tecnica relativi al particolare lavoro affidatogli, è obbligato a controllare, nei limiti delle sue cognizioni, la bontà del progetto o delle istruzioni impartite dal committente, e, ove queste risultino palesemente errate, può andare esente da responsabilità soltanto se dimostri di avere manifestato il proprio dissenso e di essere stato indotto ad eseguirle, quale nudus minister , per le insistenze del committente ed a rischio di quest’ultimo (cfr. Cass., Sez. II, 16/01/2020, n. 777; Cass., Sez. I, 9/10/2017, n. 23594). Nel controllo sulla validità tecnica del progetto rientra anche l’esame della relazione contenente i risultati delle indagini geologiche su cui si fondano la scelta dell’ubicazione e del tracciato dell’opera e la previsione dei metodi di
scavo, che ne costituisce parte integrante ai sensi del d.m. 11 marzo 1988, sicché permane in sede esecutiva l’obbligo dell’appaltatore di segnalare al committente le inesattezze delle informazioni risultanti da tale relazione, al fine di promuovere le modifiche progettuali necessarie per la buona riuscita dell’opera (cfr. Cass., Sez. I, 26/02/2020, n. 5144; 31/12/2013, n. 28812). Tutto ciò non esclude peraltro la possibilità di ravvisare una responsabilità concorrente del committente, ove lo stesso abbia provveduto alla predisposizione del progetto, direttamente o a mezzo di professionisti da lui nominati, giacché l’obbligo di diligenza posto a carico dell’appaltatore nell’esecuzione dell’opera non fa venire meno quello del committente di mettere a sua disposizione un progetto realizzabile ed esente da errori o difetti, in adempimento del dovere, su di esso gravante, di collaborare alla realizzazione a regola d’arte dell’opera commissionata (cfr. Cass., Sez. III, 12/04/2005, n. 7515; Cass., Sez. II, 12/04/2000, n. 4689; 26/07/1999, n. 8075). Tale dovere riveste un significato particolarmente pregnante nell’ambito dell’appalto di opere pubbliche, in riferimento al quale è stato precisato che i poteri di autorizzazione, controllo ed ingerenza spettanti all’Amministrazione in sede di esecuzione, ed in particolare il riconoscimento alla stessa della facoltà di disporre varianti e di sospendere i lavori, ove potenzialmente dannosi per i terzi, escludono ogni esenzione da responsabilità per l’ente committente (cfr. Cass., Sez. I, 12/12/2016, n. 25408; Cass., Sez. VI, 27/01/2012, n. 1263).
Il ricorso va pertanto rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo, con attribuzione in favore del difensore della controricorrente, dichiaratosi anticipatario.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 8.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge, con distrazione in favore dell’Avv. NOME COGNOME antistatario.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115,
inserito dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dal comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma il 22/10/2024