Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 21223 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 21223 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 24/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 5693/2019 R.G. proposto da:
COGNOME NOME COGNOME elettivamente domiciliata in Roma INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati NOME COGNOME (CODICE_FISCALE, NOME COGNOME (CODICE_FISCALE) e NOME COGNOME (PNT CODICE_FISCALE).
– Ricorrente –
Contro
CO MMISSIONE NAZIONALE PER LE SOCIETA’ E LA RAGIONE_SOCIALE , elettivamente domiciliata in Roma INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati NOME COGNOME (CODICE_FISCALE), NOME COGNOME (CODICE_FISCALE).
– Controricorrente –
Avverso la sentenza della Corte d’appello di Venezia n. 104/2018 depositata il 6/07/2018.
Udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME nella camera di consiglio del 13 febbraio 2025.
FATTI DI CAUSA
All’esito della verifica ispettiva condotta presso la Banca Popolare di Vicenza (d’ora in poi BPVi) dal 22/04/2015 al 24/02/2016, la Consob, con delibera n. 19932/2017, ha applicato a NOME COGNOME membro del collegio sindacale in carica dal 14.5.2005, la sanzione pecuniaria di euro 40.000,00 per l’effetto del cumulo giuridico per l’omissione di rilevanti informazioni nei prospetti relativi ai due aumenti di capitale deliberati nel 2014, il primo dei quali mediante l’emissione di azioni in opzione ai soci per un importo fino ad un massimo di euro 607.786.750,00 (periodo di offerta dal 12/05/2014 all’08/08/2014), il secondo, mediante l’emissione di azioni, finalizzato all’ampliamento della base sociale, da offrire esclusivamente a non soci, fino ad un importo massimo di euro 300 mln, entro un triennio (periodo di offerta dal 12/05/2014 al 19/12/2014).
Nel dettaglio la sanzione inflitta alla ricorrente, e ad altri ventuno esponenti della banca, ha riguardato la violazione dell’art. 94, comma 2, TUF per la mancata rappresentazione, nei prospetti di offerta delle azioni, di informazioni necessarie agli investitori concernenti la determinazione del prezzo delle azioni, la concessione di finanziamenti strumentali alla sottoscrizione e all’acquisto delle azioni, la compravendita delle azioni BPVi.
NOME COGNOME ha proposto opposizione e ha chiesto l’annullamento della sanzione.
La Corte d’appello di Venezia, nella resistenza della Consob, ha respinto la domanda.
Questi, in sintesi, i punti chiave della decisione: (i) è priva di fondamento l’eccezione di decadenza dell’autorità di vigilanza dal potere sanzionatorio per il superamento del termine di 180 giorni ex art. 195 comma 1 TUF, e, comunque, del termine ragionevole di
definizione del procedimento sanzionatorio; (ii) non opera lo ius superveniens in quanto le modifiche apportate alla parte V del d.lgs. n. 58 del 1998 dal d.lgs. n. 72 del 2015 non si applicano alle violazioni commesse prima dell’entrata in vigore delle disposizioni di attuazione adottate dalla Consob e dalla Banca d’Italia, secondo le rispettive competenze, poiché così dispone l’art. 6 dello stesso decreto, che è esente dai profili di incostituzionalità prospettati dall’opponente; (iii) la motivazione del provvedimento sanzionatorio è in linea con il principio di personalizzazione della misura afflittiva, ferma la considerazione che non è applicabile, per le ragioni già indicate, la sanzione di cui all’art. 194 -bis TUF di nuova introduzione; (iv) non vi è stata la lamentata violazione del contraddittorio, con riferimento alla mancata ostensione della massa dei documenti esaminati dalla Consob in fase d’ispezione, perché la documentazione non allegata alla relazione ispettiva non costituisce il corredo probatorio delle violazioni ascritte al trasgressore; (v) infondate sono anche le censure relative ad asserite lacune del procedimento sanzionatorio (violazione del principio di imparzialità, mancanza di separazione tra funzione istruttoria e decisoria) o del giudizio poiché il rito introdotto dal d.lgs. n. 72 del 2015 prevede l’udienza pubblica e nulla vieta che l’incolpato promuova azione risarcitoria nei confronti della P.A.; (vi) con riferimento all’elemento oggettivo dell’illecito, quelle che sono state omesse sono informazioni necessarie, indispensabili agli investitori per assumere decisioni ponderate di investimento (si pensi all’informativa circa la decisione del CdA di assegnare rilievo preminente, ai fini della determinazione del prezzo delle azioni al 31/12/2013, al criterio reddituale, senza comunicare agli investitori il divario tra il valore secondo l’ Income approach, ossia 62,5 euro, e quello secondo il Market approach, ossia 49,3 euro); sono mancanti le informazioni sull’imponente fenomeno del cosiddetto ‘capitale finanziato’ e sulla crescente richiesta di vendita delle
azioni della banca, sulla mancata evasione degli ordini di vendita e sui tempi necessari al disinvestimento del titolo, illiquido; (vii) in particolare la normativa interna recante i criteri di valutazione del prezzo delle azioni, la cui predisposizione era stata demandata (nel 2011, con incarico rinnovato nel 2015) a un esperto indipendente (prof. COGNOME, prevede una ‘architettura metodologica’ articolata su tre criteri di stima ( Income approach , Market approach , Asset/Cost approaach ), che devono contemperarsi senza che l’uno prevalesse sugli altri. Ma ciò non è avvenuto in quanto, come sopra anticipato, il CdA, il 1°/04/2014, in deroga alla normativa interna, aveva deliberato di attribuire rilievo preminente al cosiddetto Income approach , pur sapendo che l’applicazione del Market approach restituiva un valore delle azioni molto più basso (62,5 euro, il primo criterio, 49,3 euro, il secondo criterio); (viii) la fondatezza della contestazione dell’autorità di vigilanza si evince proprio dalla lettura dei ‘Prospetti 2014’ e dalla disapplicazione della combinazione dei tre diversi modelli valutativi delle azioni BPVi; (ix) l’opposizione alla delibera n. 19932 poggia, anzitutto, sull’assenza dell’elemento materiale dell’illecito in relazione alla prima e alla terzo violazione. Obiezione, questa, priva di fondamento in ragione del fatto che, al contrario di quanto rappresenta l’incolpata, non è in discussione la ragionevolezza o l’opportunità della decisione del CdA di aderire al contenuto della perizia del prof. COGNOME bensì il deficit informativo dei Prospetti 2014 in relazione ai risultati ottenuti dal consulente a seguito dell’applicazione di tutti e tre i criteri valutativi che l’organo amministrativo aveva deciso di adottare nel 2011, salvo poi decidere di disapplicare la normativa interna assegnando preminenza ad un unico metodo valutativo. Non costituisce motivo di legittimo affidamento la circostanza che la Consob avesse approvato quei prospetti, senza muovere rilievi di sorta, al pari di quelli relativi agli anni precedenti, poiché solo sugli organi sociali
gravava la responsabilità di verificare la completezza del set informativo e poiché non risulta che la Consob fosse stata informata del divario tra i differenti criteri di valutazione delle azioni previsti dalla normativa interna e della sostanziale disapplicazione della stessa e, d’altra parte, all’atto dell’approvazione dei Prospetti 2014 la stessa autorità non poteva conoscere gli innumerevoli ordini di vendita in sospeso e il crescente numero di reclami presentati dai soci, nel 2013 e nei primi mesi dell’anno successivo; (x) con riferimento all’elemento soggettivo dell’illecito, in relazione all’assenza di disclosure nei Prospetti 2014 dell’esistenza del ‘capitale finanziato’, in punto di colpa deve escludersi che il dovere di controllo e vigilanza di cui era investito il collegio sindacale potesse essere affievolito in considerazione della presenza di funzioni aziendali di controllo interno poiché ai sensi dell’ art. 10, comma 2, e dell’art. 11 del Regolamento Congiunto proprio al fine di avere una miglior conoscenza della gestione aziendale il collegio sindacale si avvale, nello svolgimento delle proprie funzioni, di tutte le unità organizzative deputate all’attività di controllo interno, fra le quali l’Internal Audit e la Compliance; ciò in vista di una collaborazione costante e continua tra l’organo di vigilanza e delle strutture, onde consentire al primo di agire in modo puntuale e preciso; in capo al collegio sindacale vi era quindi l’obbligo di ‘una sorveglianza di tipo sostanziale sugli atti di gestione, sui processi e sulle procedure, che passa anche attraverso la valutazione dell’efficienza e dell’idoneità del sistema di controlli interni a identificare e monitorare eventuali disfunzioni, anomalie, o carenza nell’operatività della Banca’; il collegio sindacale, quale ‘organo con funzione di controllo’, era tenuto a ‘valorizzare il costante flusso di informazioni con gli altri organi aziendali e con la funzione di controllo interno, ma effettuando una costante e continua valutazione critica circa il grado reale di efficienza e di adeguatezza dei controlli interni
tenendo conto dei possibili rischi aziendali ‘senza limitarsi a compiti di alta vigilanza; (xi) la prova dell’imputabilità della violazione all’opponente, per la negligenza con cui aveva svolto la sua funzione di componente del collegio sindacale era documentale in considerazione della consapevole adesione del collegio stesso espressa nel parere di cui fu data lettura nel corso della seduta del CDA in data 1.4.2014 e all’altrettanto ‘consapevole disapplicazione’ degli altri due criteri prescritti dalla normativa interna della Banca; spettava, quindi, all’opponente dimostrare di avere adempiuto, anzitutto, al dovere di tenersi adeguatamente informata sulla gestione e sull’organizzazione aziendale, posto che il collegio sindacale, oltre ad essere demandato un controllo successivo che si esplica nel potere di impugnare le delibere consiliari e assembleari invalide, di agire in giudizio per far valere le responsabilità di management; al riguardo, dalla stessa difesa della RAGIONE_SOCIALE erano emersi fatti dimostrativi della sua negligenza come l’intervento, all’assemblea dei soci del 26/04/2014, del socio NOME COGNOME che aveva denunciato le carenze dei criteri di determinazione del prezzo delle azioni e la mancanza di un’informativa chiara e completa; a ciò aveva fatto seguito ulteriore istanza al Presidente del collegio sindacale corso di un incontro informale del 25 novembre 2014 senza che il Collegio sindacale assumesse alcuna iniziativa per verificare in autonomia quanto denunciato dal socio; (xii) l’attività ispettiva aveva dimostrato la violazione dell’obbligo di indicare, nei Prospetti 2014, la sussistenza e la dimensione del ‘capitale finanziato’ (fenomeno riconosciuto dalla banca nella relazione semestrale al 30/06/2015, per un controvalore di 974,9 mln di euro) e dei cosiddetti ‘finanziamenti correlati’, ricostruiti dalle verifiche ispettive dal punto di vista della genesi, delle ragioni della loro adozione, e delle iniziali modalità operative. Il fenomeno era conosciuto o conoscibile, indipendentemente dall’esistenza di segnali di allarme,
per le vistose anomalie nella gestione operativa della banca, desumibili dalla documentazione relativa alla concessione dei fidi, che costituiva parte integrante dei verbali del CdA e che, quindi, il collegio sindacale avrebbe dovuto percepire. Con la precisazione che un’analisi non superficiale di tale documentazione avrebbe consentito alla ricorrente di avvedersi della stretta correlazione temporale e quantitativa tra i finanziamenti concessi e gli acquisti di azioni BPVi; (xiii) anche un consigliere, NOME COGNOME (tramite la società da lui controllata RAGIONE_SOCIALE) e il fratello NOME COGNOME beneficiarono di erogazioni di credito finalizzate esclusivamente all’acquisto o alla sottoscrizione di azioni BPVi; non era sostenibile che, con la diligenza richiesta ai sindaci, non fosse possibile correlare concessione di finanziamenti e acquisto di azioni, anche se le due operazioni non erano contestuali; l’attività ispettiva ha messo in luce anche le omissioni di informazioni concernenti la compravendita di azioni e ha fatto emergere la consapevolezza, da parte del CdA, dell’enorme mole di richieste di cessione dei titoli da parte della clientela con i connessi reclami; si trattava, quindi di circostanza facilmente conoscibile che avrebbe dovuto essere approfondita e verificata dal Collegio sindacale al fine di darne contezza nei prospetti informativi, attesa la sua incidenza sulla realizzabilità del disinvestimento delle azioni BPVi offerte in vendita; tale circostanza risultava peraltro ammessa dalla stessa COGNOME a pag. 54,55 del ricorso. Analoghe considerazioni valgono per il deficit informativo sul tema del blocking period , deliberato nel corso delle riunioni del CdA alle quali la ricorrente, in qualità di membro del collegio sindacale partecipò, ben potendo cogliere gli effetti che la sospensione delle operazioni in contropartita diretta poteva assumere ai fini della decisione di investimento; (xiv) la condotta della COGNOME quale membro del collegio sindacale è punibile a titolo di colpa e in relazione all’illecito amministrativo non operano i presidi che la Costituzione accorda alle sanzioni penali;
(xv) non può essere fondatamente invocata l’esimente della buona fede, in assenza di un elemento positivo idoneo ad ingenerare nell’autore della violazione l’incolpevole convinzione della liceità della propria condotta; con l’ulteriore considerazione che il giudizio di colpevolezza è ancorato a parametri normativi estranei al dato puramente psicologico, con limitazioni dell’indagine all’elemento oggettivo dell’illecito e alla suitas della condotta inosservante, con onere per il trasgressore di provare di avere agito in assenza di colpevolezza; (xvi) le condotte contestate alla ricorrente erano eterogenee con conseguente esclusione dell’applicabilità della disciplina del concorso formale.
NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione, articolato in 16 motivi.
La Consob ha depositato controricorso. Le parti hanno depositato memorie prima dell’udienza.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il primo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 1 c.p.c., il difetto di giurisdizione del giudice ordinario per incongrua lettura del dato normativo attributivo della potestas iudicandi e, in subordine, l’incostituzionalità dell’art. 195 commi 4 -8 TUF, nella parte in cui è attribuita al GO la giurisdizione sulle opposizioni alle sanzioni amministrative, con violazione del principio del giusto processo di cui agli artt. 111 e 113 Cost., nonché dell’art. 47 par. 1, della Carta Europea dei diritti fondamentali e dell’art. 6 CEDU.
Sostiene la ricorrente che sin dall’atto di opposizione era stato sottolineato come il procedimento di cui all’art. 195, nel porre limiti all’introduzione di eventuali ulteriori domande anche di carattere risarcitorio, non garantisce la piena ed effettiva tutela prevista dalle norme costituzionali e da quelle di carattere internazionale. Infatti, la limitazione dell’oggetto della cognizione alla sola contestazione della legittimità dell’atto sanzionatorio preclude la cumulabilità anche della domanda risarcitoria.
Come del pari, nell’ottica della ricorrente, si palesa l’illegittimità della previsione in rapporto ad altri procedimenti sanzionatori per i quali l’opposizione è invece riservata dalla legge alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. E’ pur vero che la Corte Costituzionale con la sentenza n. 162 del 2012 ha dichiarato incostituzionale l’art. 4 comma 1 n. 19 all. 4 del d.lgs. n. 104/2010, che disponeva l’abrogazione dei commi da 4 ad 8 dell’art. 195, in punto di giurisdizione della Corte di appello quanto alle sanzioni irrogate dalla Consob, ma successivamente l’art. 3 del d.lgs. n. 160/2012 ha soppresso il citato n. 19, dovendosi quindi ritenere che a seguito di tale soppressione sia restata immutata la portata della disposizione generale in tema di giurisdizione esclusiva del GA ai sensi dell’art. 133 del d.lgs. n. 104/2010, con la conseguente attrazione a tale giurisdizione anche delle sanzioni amministrative oggetto di causa. Sussiste quindi, ad avviso del ricorrente, il difetto di giurisdizione del GO sostenendosi, in subordine, l’illegittimità costituzionale delle norme di cui in rubrica, ove interpretate nel senso della attribuzione della giurisdizione a detto giudice.
1.1. Il motivo è infondato.
In linea con la consueta giurisprudenza della Corte (tra le altre, Sez. 2, n. 1740/2022; Cass. n. 1760/2022), relative al giudizio di opposizione avverso altre delibere sanzionatorie adottate dalla Consob nei confronti degli organi di vertice della BPVi, vanno riaffermati i seguenti principi, calibrati in relazione alla fattispecie concreta in esame: (a) l’opposizione all’ordinanza -ingiunzione proposta dinanzi alla Corte di appello non configura un’impugnazione dell’atto ma introduce, piuttosto, un ordinario giudizio sul fondamento della pretesa dell’autorità amministrativa, devolvendo al giudice adito la piena cognizione circa la legittimità e la fondatezza del provvedimento sanzionatorio (Cass. n. 13150 del 2020); (b) dato l’oggetto limitato del procedimento, si realizza un sacrificio al principio di economia processuale che trova una
giustificazione nella peculiare natura del giudizio di opposizione (nella specie devoluto alla cognizione in unico grado di merito della Corte di appello), sicché è proprio l’esigenza di tutela del principio del doppio grado di merito (sebbene non costituzionalizzato) per le diverse pretese scaturenti dal giudizio di opposizione che impone, in assenza di una pari previsione derogatoria da parte del legislatore, la non cumulabilità di altre diverse domande nel medesimo giudizio di opposizione. Si tratta in ogni caso di scelta rimessa alla discrezionalità del legislatore e che non determina una violazione irreparabile del diritto di difesa, stante appunto la possibilità di poter autonomamente proporre domanda per la tutela delle situazioni connesse alla vicenda sanzionatoria; (c) quanto alla giurisdizione del GO, la corretta lettura degli effetti della sentenza della Corte costituzionale n. 162 del 2012 è nel senso che, come ripetutamente affermato dalla S.C., la competenza giurisdizionale a conoscere delle opposizioni avverso le sanzioni inflitte dalla Consob spetta all’autorità giudiziaria ordinaria. Tale soluzione è stata ribadita da Cass., Sez. U. n. 4362/2021, che ha affermato che le controversie relative all’applicazione delle sanzioni amministrativi irrogate dalla Banca d’Italia ex artt. 145 d.lgs. n. 385 del 1993, per violazioni commesse nell’esercizio dell’attività bancaria sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario, la cui cognizione si estende agli atti amministrativi e regolamentari presupposti che hanno condotto all’emissione del provvedimento finale, con una motivazione che, sebbene espressamente riferita alle sanzioni della Banca d’Italia, si presta adeguatamente a sorreggere identica conclusione anche per le sanzioni Consob (per le sanzioni Consob e nel medesimo senso si veda anche Cass., Sez. Un. n. 25476/2021); (d) la materia sanzionatoria può essere sottoposta alla giurisdizione del giudice amministrativo, come eccezione alla regola generale, solo in presenza di un’apposita disposizione di legge, costituendo i provvedimenti sanzionatori la reazione a
comportamenti del privato assunti come illegittimi, in relazione ai quali non si pone la difficoltà – alla base della previsione della giurisdizione esclusiva – di distinguere gli aspetti concernenti diritti soggettivi da quelli riguardanti interessi legittimi, poiché la situazione giuridica di chi deduce di essere stato sottoposto a sanzione in casi e nei modi non stabiliti dalla legge, ha consistenza di diritto soggettivo perfetto (Cass. Sez. Un., n. 18040/2008). Una questione di costituzionalità sotto questo profilo, pertanto, può al più porsi in senso inverso, sulla legittimità dell’attribuzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle suddette controversie. La Corte costituzionale ha ritenuto inammissibile, in più occasioni, una pronuncia additiva, come quella invocata nel caso in esame. Si è detto, infatti, che l’introduzione di un nuovo caso di giurisdizione esclusiva può essere effettuata solo da una legge, come prescrive l’art. 103, primo comma, Cost., e nel rispetto dei principi e dei limiti fissati dalla sentenza n. 204 del 2004, pertanto risulta inammissibile il petitum posto dal giudice rimettente, che si risolve nella richiesta di introdurre, con una sentenza additiva, un nuovo caso, che può invece essere frutto di una scelta legislativa non costituzionalmente obbligata (Corte costituzionale, sentenza n. 259 del 2009); (e) nella specie, la questione di costituzionalità posta dal ricorrente va disattesa in quanto dichiaratamente volta ad ottenere una (non consentita, per le ragioni sopra evidenziate) pronuncia additiva, che estenda le ipotesi di giurisdizione esclusiva, sino a ricomprendervi la cognizione delle controversie relative ai provvedimenti sanzionatori emessi dalla Consob.
2. Con il secondo motivo si denuncia la violazione dell’art. 5 del d.lgs. n. 72 del 2015, come interpretato alla luce dell’art. 7 CEDU, dell’art. 49, par. 1, e art. 52, part. 5 della Carta dei diritti fondamentali UE, in relazione all’art. 360, n. 3 c.p.c. nella parte in cui la Corte d’appello ha ritenuto non fondata la prospettata
questione di illegittimità costituzionale dell’art. 6 del d.lgs. n. 72 del 2015 e dell’ivi contenuta previsione che esclude la retroattività della disciplina più favorevole a illeciti compiuti anteriormente alla sua entrata in vigore.
In primo luogo, in relazione alla censura in esame, deve affermarsi che, diversamente da quanto rimarcato dal ricorrente nella premessa all’esposizione dei vizi formali di cui sarebbe affetta la decisione gravata, deve escludersi per le sanzioni oggetto di causa la loro natura sostanzialmente penale. Risulta, invero, incensurabile la conclusione del giudice di merito che ha ritenuto che (cfr. Cass. n. 20689 del 2018) le sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dalla CONSOB diverse da quelle di cui all’art. 187 ter TUF non sono equiparabili, quanto a tipologia, severità, incidenza patrimoniale e personale, a quelle appunto irrogate dalla CONSOB per manipolazione del mercato, sicché esse non hanno la natura sostanzialmente penale che appartiene a queste ultime, né pongono, quindi, un problema di compatibilità con le garanzie riservate ai processi penali dall’art. 6 CEDU, agli effetti, in particolare, della violazione del “ne bis in idem” tra sanzione penale ed amministrativa comminata sui medesimi fatti.
Trattasi di principio già affermato in precedenza (cfr. Cass. n. 8855 del 2017; Cass. n. 1621 del 2018;) e confermato anche dalla successiva giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. n. 4 del 2019; Cass. n. 5 del 2019; Cass. n. 31632 del 2019 Cass. n. 15685 del 2024; in argomento altresì Cass. n. 30046 del 2024).
Nel dettaglio si è osservato che con riferimento alle le sanzioni oggetto di causa non si pone un problema di compatibilità con le garanzie riservate ai processi penali dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo né di applicabilità del successivo art. 7 della medesima Convenzione. Da tale premessa, Cass. n. 1621/2018 ha poi tratto l’ulteriore corollario che in tema di sanzioni amministrative il procedimento preordinato alla loro irrogazione
sfugge all’ambito di applicazione della legge 7 agosto 1990, n. 241, in quanto, per la sua natura sanzionatoria, è compiutamente retto dai principi sanciti dalla legge 21 novembre 1981, n. 689; ne consegue che non assume alcuna rilevanza il termine di trecentosessanta giorni per la conclusione del procedimento di cui all’art. 4 del regolamento Consob 2 agosto 2000, n. 12697 attesa l’inidoneità di un regolamento interno emesso nell’erroneo convincimento di dover regolare i tempi del procedimento ai sensi della legge n. 241 del 1990 a modificare le disposizioni della citata legge n. 689 del 1981 (Cass. n. 4873 del 2007; Cass. n. 22199 del 2010 in motivazione; Cass. n. 4329 del 2008 in motivazione).
Il motivo è, dunque, infondato alla luce delle superiori considerazioni quanto al carattere delle sanzioni oggetto di causa, per le quali deve escludersi che possano ritenersi sostanzialmente penali.
È destinata, quindi, in tal caso a prevalere la volontà espressa dal legislatore che ha chiaramente statuito all’art. 6 del citato d.lgs. n. 72 che le modifiche apportate alla parte V del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, si applicano alle violazioni commesse dopo l’entrata in vigore delle disposizioni adottate dalla Consob e dalla Banca d’Italia secondo le rispettive competenze ai sensi dell’articolo 196-bis del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58. Alle violazioni commesse prima della data di entrata in vigore delle disposizioni adottate dalla Consob e dalla Banca d’Italia continuano ad applicarsi le norme della parte V del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 vigenti prima della data di entrata in vigore del presente decreto legislativo. Va quindi confermato l’orientamento già espresso in passato secondo cui le modifiche alla parte V del d.lgs. n. 58 del 1998 apportate dal d.lgs. n. 72 del 2015 non si applicano alle violazioni commesse prima dell’entrata in vigore delle disposizioni di attuazione adottate dalla Consob e dalla Banca d’Italia, poiché in tal senso dispone l’art. 6 del d.lgs. n. 72
cit., né trova applicazione alle sanzioni amministrative, in assenza di una specifica disposizione amministrativa, il principio c.d. del “favor rei”, di matrice penalistica. Tale interpretazione non viola i principi convenzionali enunciati dalla Corte EDU nella sentenza 4 marzo 2014 (COGNOME RAGIONE_SOCIALE altri c/o Italia) – secondo la quale l’avvio di un procedimento penale a seguito delle sanzioni amministrative comminate sui medesimi fatti violerebbe il principio del “ne bis in idem” – atteso che tali principi non possono indurre a ritenere che una sanzione, qualificata come amministrativa dal diritto interno, abbia sempre ed a tutti gli effetti natura sostanzialmente penale, con conseguente irrilevanza di un’eventuale questione di costituzionalità ai sensi dell’art. 117 Cost. (Cass. n. 13433 del 2016; Cass. n. 26131 del 2015).
Con il terzo motivo si denuncia la violazione dell’art. 8, comma 1, n. 689 del 1981, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. nella parte in cui la Corte d’appello ha negato l’applicabilità del principio di specialità in considerazione della moltiplicazione delle sanzioni amministrative irrogate da Consob per gli stessi fatti; nullità della sentenza per carenza assoluta di motivazione ex art. 132 n. 4 c.p.c. in relazione all’art. 360, n. 4 c.p.c. per aver la Corte d’appello circoscritto la propria statuizione ad un enunciato meramente apodittico sulla diversità delle condotte anziché smentire l’unicità degli addebiti.
Secondo la ricorrente avrebbe dovuto applicarsi il principio di specialità per la eterogeneità delle condotte poste a fondamento dei vari provvedimenti sanzionatori adottati dall’autorità di vigilanza.
Nella prospettazione della ricorrente, la Consob ha irrogato diverse sanzioni amministrative sia pecuniarie che accessorie:
Con la delibera 19932 la sanzione pecuniaria di euro 40.000;
Con la delibera 19933 la sanzione pecuniaria di euro 15.000;
Con la delibera 19934 la sanzione pecuniaria di euro 100.000 e sanzione accessoria della durata di mesi due;
Con la delibera 19935, la sanzione pecuniaria di euro 160.000, oltre alla sanzione accessoria di mesi due.
Il giudice anziché analizzare le singole fattispecie, ed indagare se si trovasse in presenza di un concorso formale (omogeneo o eterogeneo) di norme si sarebbe limitato ad elencarle.
Il giudice avrebbe inoltre motivato il proprio convincimento mediante l’uso di espressioni meramente tautologiche senza comprendere che nella specie alla COGNOME sarebbe stato ‘reiteratamente addebitato un unico ed identico evento naturalistico, concretantesi nella colpa omissiva di non aver apprezzato sedicenti elementi di allarme’.
Il motivo è infondato.
Deve premettersi che in tema di sanzioni amministrative, allorché siano poste in essere più condotte realizzatrici della medesima violazione, l’unificazione ai fini della applicazione della sanzione secondo il criterio del cumulo giuridico, presuppone l’unicità dell’azione od omissione produttiva della pluralità di violazioni, non operando nel caso di condotte distinte, sebbene collegate sul piano della identità di una stessa intenzione plurioffensiva, né è applicabile in via analogica l’istituto della continuazione di cui all’art. 81, comma 2, c.p., utilizzabile solo per le violazioni in materia di previdenza ed assistenza tenuto conto, altresì, delle differenze tra reato ed illecito amministrativo (Cass. n. 20129 del 2022).
L’unificazione, ai fini dell’applicazione della sanzione – nella misura massima del triplo di quella prevista per la violazione più grave – in ordine a plurime trasgressioni di diverse disposizioni o della medesima disposizione, riguarda, ai sensi dell’art. 8, comma
1, in questione, esclusivamente l’ipotesi in cui la pluralità delle violazioni discenda da un’unica condotta e, quindi, non opera nel caso di condotte distinte, quantunque collegate sul piano dell’identità di una stessa intenzione plurioffensiva (al di fuori, in via di eccezione, delle violazioni attinenti alla materia previdenziale e assistenziale indicate nel comma 2), nella cui ipotesi, perciò, trova applicazione il criterio generale del cumulo materiale delle sanzioni.
Pertanto, la previsione di cui all’art. 8 -bis, comma 1, della l. n. 689 del 1981, relativa alle “violazioni amministrative commesse in tempi ravvicinati e riconducibili ad una programmazione unitaria”, è dettata al solo fine di escludere l’effetto aggravante che deriverebbe dalla reiterazione, e non in funzione di unificazione della condotta (Cass. 17347/2007, Cass. 5252/2011 e Cass. n. 10890/2018; Cass. 27707/2019).
Il presupposto legittimante l’applicazione del la norma invocata è quindi l’unicità della azione od omissione produttiva della pluralità di violazioni.
La Corte d’appello, con motivazione del tutto esente da vizi logici e giuridici – ha precisato che: a) la delibera 19332, oggetto della decisione qui impugnata, riguardava omissioni informative relative ai prospetti pubblicati in occasione dei due aumenti di capitale realizzati nel corso del 2014; b) la delibera 19933 concerneva omissioni informative nei confronti del pubblico (in merito alla sussistenza, all’entità e agli effetti del capitale finanziato) in relazione ai prospetti pubblicati in occasione delle emissioni obbligazionarie realizzate tra il 2014 e il 2015; c) con la delibera 19935 erano state plurime violazioni delle norme che prescrivono obblighi procedurali e di comportamento in capo agli intermediari nella prestazione dei servizi di investimento nei confronti dei clienti della Banca individualmente considerati; d) con la delibera n. 19334 è stata era stata contestata la mancata
pubblicazione del prospetto informativo in relazione ad un’offerta al pubblico di azioni BPVi nel fondo acquisto azioni proprie, negoziate in contropartite dirette dalla banca.
Il giudice di merito ha quindi individuato le singole condotte (che nel solo caso della delibera n. 19935 riguardavano l’attività della Banca nell’ambito della relazione individuale con la clientela) e ha affermato, correttamente, che le stesse non costituissero un unicum ma che fossero eterogenee ed autonome, dando contezza del proprio percorso motivazionale.
Ne consegue la reiezione del motivo.
Con il quarto motivo si denuncia la ‘violazione dell’art. 6 CEDU, dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali UE, dell’art. 15 della l. n. 689/1981, dell’art. 195, comma 7, TUF, in relazione all’art. 360, n. 4 c.p.c., per aver la Corte negato la pur patente violazione del contraddittorio insita nelle limitazioni imposte all’accesso agli atti da parte della ricorrente.’
Si censura la decisione nella parte in cui la Corte d’appello ha respinto il rilievo affermando che la mancata globale ostensione dei documenti (nella specie 2800) è stata legittimata dalla irrilevanza di quelli che non hanno formato oggetto di esame da parte della Divisione competente allorché sono stati formulati gli addebiti.
La censura non può trovare ingresso.
In primo luogo, il motivo si palesa inammissibile in quanto risulta del tutto generica l’allegazione circa la lesione del principio del contraddittorio, avendo questa Corte ribadito che per validamente allegare la violazione del contraddittorio occorre allegare e dimostrare una concreta ed effettiva lesione del diritto di difesa (Cass., Sez. Un., n. 20935 del 2009).
Trattasi di una ricaduta del principio secondo cui (Cass. n. 8046/2019) le garanzie del contraddittorio previste per il procedimento sanzionatorio davanti alla CONSOB prima delle modifiche introdotte dalla delibera n. 29158 del 29 maggio 2015
della medesima CONSOB sono da ricondurre al livello proprio del contraddittorio procedimentale, di solito di tipo verticale, svolgendosi esso tra l’amministrazione e l’interessato su un piano non di eguaglianza, ma in funzione collaborativa, partecipativa e non difensiva, non già di quello di matrice processuale, di tipo orizzontale, che riguarda due parti in posizione paritaria rispetto ad un decidente terzo e imparziale. Infatti, è opinione consolidata quella secondo, cui, soprattutto in caso di sanzioni non penali dal punto di vista sostanziale, il procedimento sanzionatorio della Banca d’Italia, ai sensi dell’art. 195 TUF, non viola l’art. 6, par. 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, perché questo esige solo che, ove il procedimento amministrativo sanzionatorio non offra garanzie equiparabili a quelle del processo giurisdizionale, l’incolpato possa sottoporre la questione della fondatezza dell'”accusa penale” a un organo indipendente e imparziale, dotato di piena giurisdizione, come la disciplina nazionale gli consente di fare tramite l’opposizione alla corte d’appello (Cass. n. 25141 del 2015, che richiama anche Corte europea dei diritti dell’uomo, 4 marzo 2014, COGNOME e altri c. Italia; Cass. n. 9371 del 2020; Cass. n. 16517 del 2020, per la quale è esclusa la diretta applicabilità, in tale ambito, dei precetti costituzionali degli artt. 24 e 111 Cost., invocabili solo con riferimento al processo che si svolge davanti al giudice, innanzi al quale l’incolpato può impugnare il provvedimento sanzionatorio con piena garanzia del diritto di difesa e del contraddittorio).
La doglianza appare priva di fondamento quanto alla violazione che si assume verificatasi nella fase procedimentale, mentre quanto all’analogo diniego ricevuto in sede giurisdizionale, come detto, la censura risulta del tutto generica ed inammissibile, in quanto priva dell’indicazione dei documenti (il cui oggetto specifico era evincibile dai processi verbali allegati alla relazione ispettiva) la cui mancata ostensione avrebbe pregiudicato il diritto di difesa, e
non si confronta con il tenore della motivazione del giudice di appello che ha sottolineato come al ricorrente fossero stati messi a disposizione proprio quei documenti su cui si fondava l’impianto accusatorio della delibera impugnata.
In presenza di un giudizio di irrilevanza della richiesta di esibizione, la censura appare – anche nel merito – destituita di fondamento. A tal fine rileva poi proprio quanto ribadito dalla Corte CEDU, nella sentenza del 30/6/2011 C. 25041/07, che ha escluso la violazione delle norme della Convenzione, osservando (cfr. punto 61) che il richiedente non aveva indicato quali elementi non fossero stati versati nel fascicolo e che avrebbero potuto contribuire alla sua difesa, il che escludeva che (cfr. punto 63) che fosse stata validamente allegata l’offesa al contradditorio ed alla giustizia della procedura.
Risulta poi del tutto inconferente rispetto alla fattispecie il richiamo alla previsione di cui all’art. 15 della legge n. 689/1981, essendosi nel caso in esame al cospetto di prove documentali, per le quali non è dato invocare la diversa previsione dettata in materia di accertamenti su campioni.
Con il quinto motivo si denuncia la ‘violazione dell’art. 6 CEDU, dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali UE, dell’art. 15 della l. n. 689/1981, dell’art. 195, comma 7, TUF, in relazione all’art. 360, n. 4 c.p.c., per aver la Corte negato la pur patente violazione del contraddittorio insita nell’essersi la Commissione adagiata sulla tecnica della motivazione tramite integrale rinvio ad altro atto.
La ricorrente lamenta di aver contestato il provvedimento sanzionatorio anche sotto il profilo della mancata distinzione tra funzioni istruttorie e decisorie, rispetto all’irrogazione della sanzione.
La ricorrente evidenzia come l’art. 3 della l. n. 689 del 1981 a garanzia del sanzionato pone il principio di autosufficienza dell’atto
punitivo e non ammette integrazioni motivazionali esterne come invece avrebbe erroneamente affermato il giudice di merito. La delibera sarebbe quindi nulla perché difetterebbe di un elemento essenziale.
Il motivo è infondato.
Deve premettersi che il fatto che la regolamentazione secondaria dell’organizzazione della Consob preveda in capo alla stessa, nell’ambito del procedimento di accertamento e contestazione di illeciti nell’attività soggetta alla sua vigilanza, un cumulo successivo di funzioni decisorie (cautelari e nel merito), non comporta per ciò solo alcuna violazione dell’art. 6 CEDU in tema di garanzia del giusto processo; per un verso, infatti, detta garanzia è realizzata, alternativamente rispetto alla fase amministrativa, con l’assoggettamento del provvedimento sanzionatorio ad un sindacato giurisdizionale pieno, e, per altro verso, il semplice fatto che siano già state assunte decisioni prima della deliberazione finale non è sufficiente a generare un ragionevole timore di mancanza di imparzialità, dovendosi aver riguardo, in tal senso, alla portata ed alla natura di tali decisioni, da valutarsi caso per caso (Cass. n. 3734/2018).
Va in questa rimarcato come il giudizio di opposizione verte sul rapporto sanzionatorio e si traduce in un controllo sul corretto esercizio del potere punitivo dell’amministrazione, per cui eventuali vizi del provvedimento sotto il profilo della legittimità e dell’esaustività della motivazione, hanno un rilievo residuale, potendo inficiare il provvedimento solo in caso di totale omissione della motivazione.
Non occorre, quindi, una motivazione analitica e dettagliata come quella di un provvedimento giudiziario, essendo sufficiente una motivazione succinta che dia conto delle ragioni di fatto della decisione (che possono anche essere desunte “per relationem”
dall’atto di contestazione) ed evidenzi l’avvenuto esame degli eventuali rilievi difensivi formulati dal ricorrente.
L’atto in questione non soggiace alle regole motivazionali, né al rigore del rispetto assoluto dell’iter procedimentale che valgono per gli atti amministrativi discrezionali e, comunque, di natura provvedimentale (Cass. s.u. 1786/2010; Cass. 17994/2014; Cass. 12503/2018).
Si è evidenziato che il contenuto dell’obbligo imposto dall’art. 18, comma secondo, della l. n. 689/1981 di motivare l’atto applicativo della sanzione amministrativa, va individuato in funzione dello scopo della motivazione stessa, che è quello di consentire all’ingiunto la tutela dei suoi diritti mediante l’opposizione.
Tale dovere di motivazione deve considerarsi soddisfatto quando dal provvedimento risulti la violazione addebitata, in modo che l’ingiunto possa far valere le sue ragioni e il giudice esercitare il controllo giurisdizionale, con la conseguenza che è ammissibile la motivazione “per relationem” mediante il richiamo di altri atti del procedimento amministrativo e, in particolare, del verbale di accertamento, già noto al trasgressore in virtù della obbligatoria preventiva contestazione (Cass. 16316/2020; Cass. 8649/2006).
Il decreto che commina la sanzione può quindi essere motivato “per relationem” mediante il rinvio all’atto che ne contiene la proposta, purché questo sia richiamato nel provvedimento con la precisa indicazione dei suoi estremi e sia reso disponibile agli interessati, secondo le modalità che disciplinano il diritto di accesso ai documenti della pubblica amministrazione particolare, l’organo decisorio, ove condivida tale proposta, non è tenuto a ribadirne le argomentazioni (cfr., in tema di sanzioni irrogate dalla Banca d’Italia: Cass. 4/2019; da ultimo Cass. 10212 del 2024).
Nella specie il giudice di merito ha correttamente richiamato il principio generale di cui all’art. 3 della l n. 241 del 1990 ed ha
pertanto escluso che il provvedimento della Consob fosse illegittimo in quanto richiamante espressamente le proposte dell’Ufficio sanzioni.
7. Con la sesta doglianza la ricorrente censura la sentenza per omesso esame di un fatto decisivo, in relazione all’art. 360, n. 5 c.p.c., nella parte in cui la Corte d’appello ha individuato il dies a quo dell’acquisita conoscenza delle condotte illecite, onde decorre il termine decadenziale di cui all’art. 195 comma 1, TUF, senza considerare una pluralità di fatti esposti dalla ricorrente, con particolare riguardo al possesso da parte di Consob di tutti gli elementi necessari all’accertamento delle pretese violazioni sin dall’approvazione del Prospetto nel maggio 2014, nonché al fatto che il comunicato stampa d.d. 28.8.2015 e la relazione semestrale al 30.6.2015 erano sicuramente in possesso di Consob al momento dell’acquisizione documentale d.d. 17.9.2015, risultando irrilevanti e superflue le acquisizioni successive.
La ricorrente evidenzia di aver impugnato il provvedimento afflittivo deducendone la nullità per essere il risultato di un procedimento avviato dopo lo spirare del termine perentorio di 180 giorni. Nella prospettazione della Piussi la Corte d’appello si sarebbe limitata a invocare l’impossibilità di far coincidere l’accertamento dei fatti con la mera loro constatazione.
La sentenza ha disatteso tale censura con una motivazione contraria ai principi espressi dal giudice di legittimità, avendo omesso di compiere la verifica in fatto in merito alla coerenza temporale dell’iniziativa amministrativa.
Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.
E’ inammissibile perché, discostandosi dal parametro normativo dell”omesso esame circa un fatto decisivo’, sottopone all’attenzione della Corte una quaestio iuris e non (appunto) la pretermissione, da parte del giudice di merito, di un fatto storico decisivo.
È infondato alla luce della giurisprudenza di questa Corte che, anche di recente, ha affermato che, in tema di sanzioni amministrative per la violazione delle norme disciplinanti l’attività di intermediazione finanziaria, il termine di decadenza di centottanta giorni per la contestazione al trasgressore decorre non già dalla ‘constatazione del fatto’, cioè dalla data di acquisizione della notizia dell’illecito, nella sua materialità, ma dal momento dell”accertamento del fatto’, ossia dal giorno in cui l’autorità ha completato l’attività istruttoria finalizzata a verificare la sussistenza dell’infrazione (Sez. 2, Sentenza n. 26766 del 15/10/2024, Rv. 672801 – 01).
Nel caso in esame, la Corte d’appello, con giudizio di fatto ad essa riservato, ha stabilito che tutte le contestazioni sono state mosse al trasgressore nel rispetto del termine di 180 giorni dalla fine dell’attività di accertamento operata dall’autorità di vigilanza.
8. Con il settimo motivo si denuncia la violazione degli artt. 94 comma 2 e 191 comma 2 TUF, in relazione all’art. 360, n. 3 c.p.c. per aver la sentenza impugnata confermato la violazione degli obblighi informativi per mancato inserimento di una notizia non prevista dagli schemi comunitari di prospetto. Si denuncia altresì la violazione del principio di determinatezza della fattispecie illecita e di buona fede oggettiva e affidamento.
La ricorrente obietta in particolare che ‘nulla poteva esserle imputato, in quanto l’inclusione di quelle informazioni nel prospetto informativo non è prevista dalla disciplina europea di riferimento’ e comunque al più poteva esserle chiesto, se le ulteriori informazioni fossero state ritenute necessarie, solo in sede procedimentale o con l’atto di autorizzazione alla pubblicazione del prospetto.
Peraltro, la Consob stessa non aveva richiesto alcuna integrazione dopo aver ricevuto il prospetto, ed anzi lo aveva approvato, per cui anche il suo potere di integrazione era cessato.
Ciò peraltro non poteva non generare un legittimo affidamento tenuto conto dell’indicazione ricavabile non solo dall’art. 9 comma 1 della l. n. 189 del 2011 ma anche dell’art. 1, comma 1, della l. n. 241 del 1990.
C on l’ottavo motivo si denuncia la violazione dell’art. 94, comma 2, TUF in relazione all’art. 360, n. 3 c.p.c. nonché dei principi di tipicità dell’illecito e della preventiva conoscibilità della condotta vietata, nella parte in cui la Corte d’appello (relativamente alla prima ed alla terza contestazione) ha del tutto omesso di verificare la rilevanza e necessità delle informazioni asseritamente omesse al fine della formazione di un giudizio sull’offerta da parte dell’investitore dando per presupposto che qualsiasi informazione sia necessaria.
Il settimo e l’ottavo motivo, che possono essere esaminati insieme perché pongono le stesse questioni, sono in parte inammissibili e in parte infondati.
Le censure sono inammissibili là dove, nella sostanza, sollecitano la Corte, cui è demandato esclusivamente il controllo della legalità della decisione, a compiere un nuovo accertamento degli aspetti fattuali della vicenda, in precedenza insindacabilmente vagliati dalla Corte d’appello, la quale ha illustrato le ragioni del proprio convincimento con motivazione specifica, completa e priva di vizi logici.
Quanto all’infondatezza delle censure, la premessa è che i motivi in esame pongono l’accento sull’incidenza, rispetto alle contestate violazioni, della mancata previsione di alcune informazioni negli schemi comunitari di prospetto, anche dal punto di vista della determinatezza dell’illecito.
La tesi difensiva non è persuasiva poiché è indubitabile che detti schemi comunitari non tipizzano le ‘informazioni necessarie’, ma si limitano ad indicare le ‘informazioni minime’. Infatti, il regolamento 809 del 2004, in tema di modalità di esecuzione della
direttiva 2003/71/CE, i cui secondo e sesto considerando precisano, rispettivamente, che ‘in funzione del tipo di emittente e di strumento finanziario interessati occorre fissare la tipologia di informazioni minime corrispondenti agli schemi più frequentemente utilizzati nella pratica’ e che ‘nella maggior parte dei casi, vista la varietà di emittenti, i tipi di strumenti finanziari, la partecipazione o meno di un terzo come garante, l’esistenza o meno di una quotazione, ecc., uno schema unico non fornisce tutte le informazioni di cui gli investitori hanno bisogno per assumere le loro decisioni di investimento. Pertanto deve essere possibile la combinazione di vari schemi. Occorre elaborare una tabella di combinazione non esaustiva, che fissi le varie combinazioni di schemi e di moduli possibili per la maggior parte dei diversi tipi di strumenti finanziari e che sia di ausilio agli emittenti nella redazione dei loro prospetti’.
Il regolamento fornisce, quindi, unicamente le ‘informazioni minime’, di carattere non esaustivo, che devono corredare i prospetti, laddove l’art. 94 TUF contiene una previsione di carattere decisamente elastico e residuale, secondo cui il prospetto deve contenere ‘tutte le informazioni che sono necessarie affinché gli investitori possano pervenire ad un fondato giudizio sulla situazione patrimoniale e finanziaria, sui risultati economici e sulle prospettive dell’emittente nonché sui prodotti finanziari e sui relativi diritti’ e deve essere corredato di una nota di sintesi (nella lingua in cui il prospetto è stato in origine redatto) che fornisce le ‘informazioni chiave’.
Nella specie, il giudice di merito indica in maniera puntuale e dettagliata quali informazioni sono state omesse, con specifico riferimento ai criteri di determinazione del valore delle azioni oggetto delle offerte di acquisto e al massiccio ricorso, da parte della banca, al sistema dei finanziamenti correlati e alle rilevanti anomalie nella compravendita delle azioni della banca.
Da un diverso punto di vista, l’accertamento operato dalla Corte d’appello circa l’insussistenza della buona fede della ricorrente – la quale, è bene ricordarlo, faceva parte del collegio sindacale della banca – involge una quaestio facti che sta al di fuori del perimetro del sindacato di legittimità e che, comunque, sul piano dei principi applicati dalla Corte territoriale, è in linea con l’esegesi giurisprudenziale secondo cui, in tema di sanzioni amministrative, la buona fede rileva come causa di esclusione della responsabilità amministrativa quando sussistono elementi positivi idonei ad ingenerare nell’autore della violazione il convincimento della liceità della sua condotta e quando l’autore medesimo abbia fatto tutto quanto possibile per conformarsi al precetto di legge, onde nessun rimprovero possa essergli mosso, neppure sotto il profilo della negligenza omissiva (Sez. 2, Ordinanza n. 11977 del 19/06/2020, Rv. 658272 – 01).
La Corte d’appello ha evidenziato che l’intero CdA così come il collegio sindacale, era a conoscenza della peculiarità del prescelto criterio di valutazione delle azioni, delle denunce di un deficit informativo provenienti da alcuno dei soci, e del consistente fenomeno del capitale finanziato (del quale anche un altro membro del CdA si era avvalso), così escludendo la possibilità nel caso di specie di invocare la buona fede e fondandosi il giudizio di negligente condotta da parte della ricorrente.
11. Con il nono motivo si denuncia la violazione dell’art. 191, comma 2, TUF, in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. nella parte in cui la Corte d’appello ha confermato la sanzione applicata alla ricorrente a titolo di colpa là dove la fattispecie prevede la sanzionabilità solo a titolo di dolo. La ricorrente afferma di aver nel proprio ricorso in opposizione denunciato l’illegittimità della determinazione Consob per aver inteso punirla ed altresì per non essere state considerate le situazioni esimenti o che comunque escludevano il suo dovere di controllo rispetto a specifici atti
d’impresa tramite cui furono posti in essere i comportamenti oggetto del procedimento sanzionatorio. La Piussi non potrebbe essere punita atteso che la corretta esegesi della norma, in tesi violata, deporrebbe in tal senso. 11.1. Il motivo è infondato. Al contrario di quanto afferma la ricorrente, la sentenza ha correttamente rilevato che si è in presenza di un illecito amministrativo per il quale vale il principio generale, sancito dall’art. 3 della legge n. 689 del 1981, secondo cui la responsabilità della violazione amministrativa, posta in essere mediante condotta attiva od omissiva cosciente e volontaria, grava sull’autore della medesima, sia essa doloso o colposa.
12. Con il decimo motivo si denuncia la falsa applicazione di legge, in relazione all’art. 2729 c.c., in relazione agli artt. 2441, comma 6 c.c.c, e 94 comma 7, tuf, ai sensi dell’art. 360, n. 3 c.p.c. nella parte in cui la Corte d’appello ha fondato l’accertamento della negligenza della ricorrente su una pretesa esistenza di indici di allarme circa l’insufficienza delle informazioni fornite con riguardo alla determinazione del prezzo delle azioni (prima contestazione) postulando l’esistenza di obblighi di verifica esclusi dalla disciplina codicistica qui rilevante.
La Corte sarebbe incorsa in una violazione delle norme in materia di presunzione per ciò che attiene alla ritenuta impossibilità di escludere la colpa sulla base della mera asserzione di Consob della percepibilità di una serie di elementi sintomatici e significativi tali da innescare il dovere di attivazione di ogni singolo consigliere, tra cui l’opponente in merito alla segnalata insufficienza dell’informazione sula formazione del prezzo delle azioni.
12. Con l’undicesimo motivo si denuncia la violazione dell’art. 2729 c.c., in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. , nella parte in cui la sentenza ha fondato l’accertamento della negligenza della ricorrente su una pretesa esistenza di indici sintomatici del fenomeno dei finanziamenti correlati (seconda contestazione) pur
taciuto al CDA; omesso esame di un fatto decisivo, idoneo a demolire la coerenza logica dell’argomentazione fatta propria dalla Corte d’appello nel valorizzare i predetti indici sintomatici.
13. Con il dodicesimo motivo si denuncia la falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., la violazione dell’art. 2407 c.c., in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., nella parte in cui la Corte d’appello ha fondato l’accertamento della negligenza della ricorrente sulla pretesa consapevolezza della ingente quantità del numero di richieste di cessione di titoli non quotati su mercato regolamentato e pertanto tutti illiquidi.
13.1.I tre motivi di cui innanzi possono essere trattati congiuntamente, stante l’intima connessione, e sono infondati. Innanzitutto, è indubitabile che alla SRAGIONE_SOCIALE non può essere chiesto di ripetere il giudizio di fatto della Corte d’appello, poiché una simile attività non è consentita nel giudizio di cassazione.
Ciò precisato, si deve escludere che la sentenza sia viziata da falsa applicazione della disposizione codicistica in tema di prova presuntiva (art. 2729 c.c.). Infatti, il giudice di merito ha ritenuto fondata le contestazioni alla luce di specifiche circostanze di fatto che, secondo la sua insindacabile ricostruzione della vicenda, dimostravano la violazione, da parte della COGNOME, quale membro del Collegio sindacale, degli obblighi informativi nei confronti degli investitori in relazione agli aumenti di capitale deliberati dalla banca.
Nella specie, dalla piana lettura della sentenza emerge come non di ragionamento presuntivo, al quale riferimento alcuno implicito o esplicito è fatto dal giudice di merito, ma di mera valorizzazione delle emergenze probatorie che hanno meglio fondato la responsabilità della COGNOME quale membro del collegio sindacale.
In particolare, per il giudice di merito, l’agire negligente e imprudente del ricorrente trova riscontro documentale nella
‘consapevole adesione’ espressa nel parere di cui fu data lettura nella seduta del CDA del 1.4.2014′ nonché dal contenuto dell’intervento del socio COGNOME dal quale ‘emergeva in maniera univoca’ il richiamo all’obbligo dell’emittente di offrire nella documentazione le informazioni omesse.
Dalle emergenze probatorie, secondo il giudice di merito, emergeva quindi che ella era a conoscenza o avrebbe dovuto essere a conoscenza di macroscopiche anomalie concernenti i criteri di stima delle azioni (la cui mancanza di chiarezza era stata portata all’attenzione degli organi di vertice da un socio nel corso di una assemblea dei soci), nonché del fenomeno dei finanziamenti correlati e della corsa della clientela alla vendita dei titoli azionari illiquidi, e nella constatazione che, conseguentemente ella avrebbe dovuto attivarsi al fine di compiere gli approfondimenti del caso.
14. Con il tredicesimo motivo di ricorso si denuncia la violazione dell’art. 3, l. n. 689 del 1981 come interpretato alla luce dell’art. 6 CEDU nonché dell’art. 7, comma 10, del d.lgs. 150 del 2011, in relazione all’art. 360, n. 3 c.p.c. per essere stato disatteso il principio di presunzione di innocenza.
La decisione della Corte sarebbe contraria ai principi di contraddittorio paritario e della distribuzione dell’onere della prova che caratterizzano il rapporto giuridico processuale contenzioso, come letti alla luce dell’art. 6 CEDU. Il giudice di merito errerebbe mostrando di ignorare il richiamato art. 7 che esclude qualsiasi forma di preferenza o agevolazione probatoria a favore della p.a. mentre avrebbe riconosciuto una particolare attendibilità alle prospettazioni della P.A. rispetto a circostanze che secondo la ricorrente non erano state dimostrate.
Erroneamente la Corte d’Appello avrebbe escluso, anche per le sanzioni sostanzialmente penali, l’applicazione dei presidi che la Costituzione appronta per le misure anche formalmente penali, ivi inclusa la presunzione di innocenza di cui all’art. 27 Cost., violando
inoltre l’art. 7, co. 10, del D. Lgs. 150/2011, che esclude ogni agevolazione probatoria per la PA nel giudizio di opposizione a sanzione amministrativa, e ammettendo infondatamente la possibilità di desumere l’elemento soggettivo dell’illecito dalla semplice difformità della condotta, in assenza di prescrizioni di carattere specifico.
La verifica di adeguatezza dei sistemi di controllo imponeva, per contro, l’individuazione del patrimonio informativo disponibile e quindi l’esistenza di elementi percepibili, poiché solo in tal caso era possibile contestare la colpa omissiva.
La doglianza parte dalla premessa – non condivisa da questa Corte -della natura sostanzialmente penale delle sanzioni applicate, al fine di invocare le garanzie predisposte dalla Costituzione e dalle fonti sovranazionali per le sanzioni penali.
Data -per contro – la natura puramente amministrativa delle misure adottate, nessuna delle conseguenze auspicate dal ricorrente sulla base di tale presupposto può ricevere avallo.
Si sostiene che la sentenza sarebbe in contrasto con i principi del contraddittorio paritario e della distribuzione dell’onere della prova che caratterizzano il rapporto giuridico processuale contenzioso, come interpretati alla luce dell’art. 6 CEDU.
Inoltre, la Corte territoriale avrebbe pretermesso l’art. 7 del decreto citato che esclude che alla P.A. vengano accordate preferenze o agevolazioni sul piano probatorio, in coerenza con la natura del processo di opposizione;
Il motivo è infondato.
Il giudice di merito, nel disattendere l’eccezione della ricorrente relativa alla carenza dell’elemento soggettivo della violazione, ha fatto corretta applicazione del principio di diritto (Cass. n. 24081/2019) secondo cui l’art. 3 della legge n. 689 del 1981 pone una presunzione di colpa a carico dell’autore del fatto vietato, gravando sul trasgressore l’onere di provare di aver agito senza
colpa. Infatti, sia pure con riferimento a sanzioni amministrative irrogate dalla Banca d’Italia (Cass. n. 9546/2018), si è precisato che il legislatore individua una serie di fattispecie, destinate a salvaguardare procedure e funzioni ed incentrate sulla mera condotta, secondo un criterio di agire o di omettere doveroso, ricollegando il giudizio di colpevolezza a parametri normativi estranei al dato puramente psicologico e limitando l’indagine sull’elemento oggettivo dell’illecito all’accertamento della ‘suità’ della condotta inosservante sicché, integrata e provata dall’autorità amministrativa la fattispecie tipica dell’illecito, grava sul trasgressore, in virtù della presunzione di colpa posta dall’art. 3 della legge n. 689 del 1981, l’onere di provare di aver agito in assenza di colpevolezza. Ne consegue che (Cass. n. 1529/2018) sebbene l’onere di provare i fatti costitutivi della pretesa sanzionatoria sia posto a carico dell’Amministrazione, la quale è pertanto tenuta a fornire la prova della condotta illecita, nel caso dell’illecito omissivo di pura condotta, essendo il giudizio di colpevolezza ancorato a parametri normativi estranei al dato puramente psicologico, è sufficiente la prova dell’elemento oggettivo dell’illecito comprensivo della ‘suità’ della condotta inosservante, in assenza di elementi tali da rendere inesigibile la condotta o imprevedibile l’evento (conf. Cass. Sez. U., n. 20930/2009). Così intesa la ‘presunzione di colpa’ non si pone in contrasto con gli artt. 6 CEDU e 27 Cost. E ciò anche nel caso (diverso da quello di specie) in cui la sanzione abbia natura sostanzialmente penale in quanto afflittiva. Non è quindi necessaria la concreta dimostrazione del dolo o della colpa in capo all’agente, sul quale grava, pertanto, l’onere della dimostrazione di aver agito senza colpa (Cass. n. 11777/2020).
La sentenza impugnata, come detto, si uniforma ai principi in tema di interpretazione dell’articolo 3.
15. Con il quattordicesimo motivo si denuncia, ex art. 360 n.3 c.p.c. violazione di legge per aver la Corte d’appello giudicato sulla base della cd. presunzione ritraibile dell’art. 3 l. n. 689/1981, omettendo di valorizzare il limite all’operare della stessa, quale individuato nella giurisprudenza di legittimità; omesso esame di un fatto decisivo in merito alla circostanza dell’occultamento della propria condotta illecita da parte di un gruppo di dirigenti al livello di Direzione Generale, e ciò pur in presenza di fatti accertati e incontroversi in tal senso risultanti dallo stesso atto di accertamento.
La Corte d’appello, nella denegata ipotesi della sussistenza di una presunzione iuris tantum di colpevolezza, la Corte d’appello sarebbe comunque incorsa in violazione di legge ed in omesso fatto decisivo là dove avrebbe omesso di considerare, al riguardo, il limite all’operatività di tale presunzione, idoneo a concretare l’insussistenza di colpa.
16. Con il quindicesimo motivo si denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo in relazione all’art. 360, n. 5 c.p.c. per aver la corte d’appello ritenuto comunque irrilevante l’attività dolosa dell’alta dirigenza della banca, e l’effettivo funzionamento dei controlli interni, ad escludere la colpa in capo alla ricorrente.
16.1. I motivi possono essere trattati unitamente e sono in parte infondati ed in parte inammissibili.
Dal primo punto di vista (inammissibilità delle doglianze), rileva il Collegio che la censura di omesso esame di una determinata circostanza si risolve, in realtà, nell’indebita sollecitazione, rivolta alla S.C., a compiere un nuovo scrutinio dei fatti di causa, già esaminati dalla Corte territoriale.
Sul punto, è solo il caso di ricordare che, ad esempio, la sentenza non ravvisa che la ricorrente abbia ‘offerto la prova di manovre dirette a occultare il fenomeno del ‘capitale finanziato”.
Il quattordicesimo di mezzo di censura parte anche in questo caso dalla non condivisibile premessa della natura sostanziale penale delle sanzioni oggetto di causa, al fine di invocare le garanzie predisposte dalla Costituzione e dalle fonti sovranazionali per le sanzioni penali.
La prospettata violazione dell’art. 3 della legge n. 689 del 1981 è priva di fondamento sia per le ragioni sopra evidenziate (punto 14) a proposito dell’elemento soggettivo dell’illecito amministrativo, sia alla luce dei principi in tema di doveri a carico dei componenti del collegio sindacale.
Questa Corte ha reiteratamente ribadito che in tema di sanzioni amministrative per violazione delle disposizioni previste dal t.u.f., sussiste la responsabilità dei sindaci che omettano o esplichino in modo inadeguato il controllo su tutta l’attività sociale, poiché il dovere di vigilanza sancito dall’art. 2403 c.c. non è circoscritto all’operato degli amministratori, ma attiene al regolare svolgimento dell’intera gestione dell’ente ed è posto a tutela, oltre che dei soci, anche dei creditori sociali, in modo ancora più stringente nelle società quotate, considerata l’esigenza di garantire l’equilibrio del mercato (Cass. n. 1601/2021)
Inoltre è stato affermato che, in tema di sanzioni amministrative per violazione delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, la complessa articolazione della struttura organizzativa di una società di investimenti non può comportare l’esclusione od anche il semplice affievolimento del potere-dovere di controllo riconducibile a ciascuno dei componenti del collegio sindacale, i quali, in caso di accertate carenze delle procedure aziendali predisposte per la corretta gestione societaria, sono sanzionabili a titolo di concorso omissivo “quoad functione”, gravando sui sindaci, da un lato, l’obbligo di vigilanza – in funzione non soltanto della salvaguardia degli interessi degli azionisti nei confronti di atti di abuso di gestione da parte degli amministratori,
ma anche della verifica dell’adeguatezza delle metodologie finalizzate al controllo interno della società di investimenti, secondo parametri procedimentali dettati dalla normativa regolamentare Consob, a garanzia degli investitori – e, dall’altro lato, l’obbligo legale di denuncia immediata alla Banca d’Italia ed alla Consob. (Cass. n. 1602/2021), non potendosi addurre quale esimente la mancata informazione dei sindaci da parte degli amministratori, potendo gli stessi avvalersi della vasta gamma di strumenti informativi ed istruttori, prevista dall’art. 149 del d. lgs. n. 58 del 1998 (Cass. n. 5357/2018). Posti tali principi, ai quali la Corte intende assicurare continuità, emerge con evidenza che il motivo non attinge validamente la ricostruzione del giudice di merito circa la effettiva ricorrenza delle violazioni contestate, limitandosi la parte a richiamare le difese svolte nell’atto di opposizione, denunciando in maniera apodittica la loro mancata valutazione da parte del giudice di merito. Quest’ultimo, poi, dopo aver richiamato il contenuto degli obblighi e dei doveri incombenti sui componenti del collegio sindacale, quali ribaditi nel Regolamento congiunto Consob/Banca d’Italia del 29/10/2007, che fondano appunto l’affermazione dei richiamati principi, ha correttamente escluso che potesse attenuare l’obbligo di diligenza del collegio sindacale l’esistenza di funzioni aziendali di controllo interno, le quali, proprio ai sensi dell’art. 10 del citato Regolamento hanno una funzione di ausilio e di supporto per il collegio sindacale, che non può quindi adagiarsi sulle eventuali indicazioni fornite da queste funzioni. Il rapporto non è di subordinazione o di recezione passiva da parte del collegio sindacale che è in ogni caso tenuto ad assicurare una costante sorveglianza sull’operato dei soggetti incaricati di funzioni amministrative e gestionali, dovendo quindi riscontrare la correttezza non solo formale, ma anche sostanziale, delle procedure e dei processi messi in atto, monitorando eventuali disfunzioni, anomalie o carenze. Il controllo del collegio sindacale,
come puntualmente rilevato in sentenza, non è solo postumo, e suscettibile di concretarsi nel potere di impugnare le delibere consiliari ed assembleari invalide, ovvero di ricorrere all’autorità giudiziaria ex art. 2409 c.c., ma deve essere anche di natura preventiva, mediante la partecipazione alle riunioni del CDA, onde percepire ogni potenziale anomalia o disfunzione nella vita della società. Ne consegue che il D. Lgs. n. 58/1998, unitamente alla disciplina anche codicistica concernente le funzioni sindacali, ha individuato una serie di fattispecie a carattere ordinatorio destinate a salvaguardare procedure e funzioni incentrate su mere condotte doverose, essendo quindi il giudizio di colpevolezza, ai sensi dell’art. 3 della legge n. 689/1981, ancorato a parametri estranei al dato puramente piscologico, dovendosi solo verificare la suitas della condotta, incombendo sul trasgressore l’onere di provare di avere agito in assenza di colpevolezza. Quanto all’esimente della buona fede la stessa può essere invocata solo quando la condotta sia inevitabile e ciò per effetto di un elemento positivo estraneo all’autore dell’infrazione, idoneo ad ingenerare la convinzione della liceità della condotta, ovvero allorché emerga che l’autore abbia fatto tutto il possibile per osservare la legge, senza che nessun rimprovero possa essergli mosso. Sulla scorta di tali ineccepibili premesse, la sentenza gravata ha quindi verificato in relazione ad ognuna delle infrazioni contestate quale fosse stata la condotta in concreto tenuta da parte della ricorrente riscontrando in relazione alle stesse una colpevole inerzia, concludendo quindi per l’insussistenza di fatti non smascherabili ove invece la parte avesse conformato la propria condotta a quanto impostogli per legge.
17. Il sedicesimo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c., la violazione dell’art. 91 c.p.c.
La sentenza avrebbe erroneamente liquidato, a favore della Consob, le spese processuali per compenso professionale, nonostante che, nel caso in cui la P.A. stia in giudizio a mezzo di un
proprio funzionario appositamente delegato e risulti vittoriosa, debbano esserle riconosciute esclusivamente le spese vive, adeguatamente documentate, con esclusione del pagamento dei diritti di procuratore e degli onorari di avvocato.
18. Il motivo è infondato.
La doglianza fa leva su un’erronea lettura degli atti di causa dai quali risulta che il patrocinio dell’autorità di vigilanza è stato svolto da avvocati (dipendenti della Commissione), iscritti nella sezione speciale dell’albo degli avvocati di Roma, e non da funzionari della Consob.
In continuità con la giurisprudenza di questa Corte, va nuovamente enunciato il principio di diritto secondo cui, qualora la P.A. sia rappresentata in giudizio non da un funzionario delegato ma da un difensore iscritto nell’apposito albo, ai sensi degli artt. 82 e 87 c.p.c., il diritto dell’amministrazione al rimborso delle spese di lite, ex art. 91 c.p.c., comprende anche i relativi compensi, ancorché lo stesso difensore sia anche un suo dipendente, atteso che quel diritto sorge per il solo fatto che la parte vittoriosa è stata in giudizio con il ministero di un difensore tecnico (Cass. nn. 24374/2024, 23825/2023, 16274/2022, 1740/2022, cit.);
19. Nella memoria da ultimo depositata la ricorrente chiede che il Collegio, con rinvio pregiudiziale, sottoponga alla Corte di giustizia UE alcuni quesiti (compendiati a pagg. 35 e 36) al fine di verificare se le sanzioni per le violazioni in questione (art. 191 comma 2 TUF) siano o meno compatibili con i principi e la normativa europea (Carta dei diritti fondamentali UE, artt. 6 e 7 CEDU): l’istanza, manifestamente infondata, va respinta.
Innanzitutto, è utile mettere in evidenza che l’oggetto della domanda di pronuncia pregiudiziale rivolta alla Corte di giustizia deve riguardare l’interpretazione o la validità del diritto dell’Unione, e non (come nel caso di specie pare sostanzialmente intendere il ricorrente) l’interpretazione delle norme del diritto nazionale o
questioni di fatto sollevate nel procedimento principale (così C. giust., Raccomandazioni all’attenzione dei giudici nazionali, relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale, 2018/C 257/01, in Gazzetta ufficiale dell’Unione europea del 20/07/2018).
Inoltre, per la giurisprudenza di questa Corte «non v’è diritto della parte all’automatico rinvio pregiudiziale ogniqualvolta la Corte di cassazione non ne condivida le tesi difensive (Cass., S.U., 08/07/2016, n. 14043), bastando che le ragioni siano espresse (Corte EDU, in caso COGNOME e Rezabek c. Belgio), ovvero implicite laddove la questione pregiudiziale sia manifestamente inammissibile o manifestamente infondata (Corte EDU, in caso RAGIONE_SOCIALE, par. 36), ovverosia quando l’interpretazione della norma e del caso siano evidenti (Cass., S.U., 24/05/2007, n. 12067). Infatti, un organo giurisdizionale di ultima istanza non è tenuto a presentare alla Corte di giustizia una domanda di pronuncia pregiudiziale (art. 267 comma 3 TFUE), qualora esista già una giurisprudenza consolidata in materia o qualora la corretta interpretazione della norma di diritto di cui trattasi non lasci spazio a nessun ragionevole dubbio (Raccomandazioni 2016. C. – 439.01, par. 6)» (Cass. Sez. U., 19/06/2018, n. 16157, in motivazione, p. 5.5.; nello stesso senso, tra le tante, Cass. 07/06/2018, n. 14828; Cass. 16/06/2017, n. 15041, secondo cui il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione Europea presuppone il dubbio interpretativo su una norma comunitaria, che non ricorre allorché l’interpretazione sia auto-evidente oppure il senso della norma sia già stato chiarito da precedenti pronunce della Corte, non rilevando, peraltro, il profilo applicativo di fatto, che è rimesso al giudice nazionale). Ed anche la Corte costituzionale (sentenza n. 28 del 2010, in motivazione al p. 6) ha ritenuto che sia da escludere il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea, non «necessario quando il
significato della norma comunitaria sia evidente, anche per essere stato chiarito dalla giurisprudenza della Corte di giustizia».
Come ricorda da ultimo Cass. Sez. 1, Ord. interloc. 30/12/2024, n. 34898, la Corte di giustizia (C. giust., 06/10/2021, C-561/19), dopo aver rimarcato che il rinvio pregiudiziale costituisce la chiave di volta del sistema giurisdizionale istituito dai trattati, ha ribadito e sviluppato i criteri (già espressi nella sentenza Cilfit) al ricorrere dei quali viene meno l’obbligo dei giudici di ultima istanza di rivolgersi alla Corte in presenza di questioni di interpretazione del diritto eurounitario. Si tratta, oltre ai casi di irrilevanza della questione, dell’acte éclairé, ovverosia quando la questione sia materialmente identica ad altra già decisa o vi sia una giurisprudenza consolidata della Corte sul punto, e dell’acte clair, quando l’interpretazione del diritto dell’Unione si imponga con evidenza tale da non dare adito a ragionevoli dubbi. Per la Corte di giustizia l’iniziativa delle parti nel giudizio di ultima istanza non può privare il giudice della propria indipendenza nel vagliare se ricorra una delle ipotesi di cui alla sentenza Cilfit, obbligandolo così a presentare un rinvio pregiudiziale.
Tornando alla fattispecie concreta in esame, ritiene il Collegio che non vi sia necessità di disporre il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia in quanto, per la consolidata giurisprudenza di legittimità (della quale si è dato conto nelle pagini precedenti), le sanzioni amministrative pecuniarie applicate dalla Consob per violazione in materia di offerta al pubblico di titoli ex art. 94 TUF, non sono sanzioni amministrative di carattere punitivo, non pongono un problema di compatibilità con le garanzie riservate ai processi penali dall’art. 6 CEDU (secondo l’interpretazione della sentenza della Corte EDU del 04/03/2014, COGNOME e altri c. Italia), nel senso che non sono equiparabili, per tipologia, severità, incidenza patrimoniale e personale, alle sanzioni Consob relative all’abuso di informazioni privilegiate (Cass. nn. 12031/2022,
4524/2021; da ultimo Cass. n. 15685/2024) e alla manipolazione del mercato (Cass. nn. 17209/2020, 24850/2019), entrambe ritenute sostanzialmente penali.
In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.
Le spese del giudizio di cassazione, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
A i sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115/2002, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis del citato art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in euro 6.300,00, a titolo di compenso, più euro 200,00, per esborsi, oltre alle spese generali e agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115/2002, dichiara che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis del citato art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda