Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 10825 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 2 Num. 10825 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 24/04/2025
SENTENZA
sul ricorso 26248-2019 proposto da: COGNOME rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME ricorrente –
contro
COGNOME e NOME, elettivamente domiciliati in ROMA, INDIRIZZO nello studio dell’avv. NOME COGNOME
COGNOME che li rappresenta e difende in unione di delega con l’avv. NOME COGNOME
-controricorrente –
nonchè contro
COGNOME
-intimata – avverso la sentenza n. 305/2019 della CORTE D’APPELLO di MESSINA, depositata in data 17/04/2019
udita la relazione della causa svolta in camera di consiglio dal Consigliere COGNOME
udito il Procuratore Generale, nella persona del Sostituto dott. NOME COGNOME;
uditi gli avvocati NOME COGNOME per la parte ricorrente, che ha invocato l’accoglimento del ricorso, e l’avv. NOME COGNOME per la parte controricorrente, il quale ha concluso per il rigetto ricorso
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione notificato il 12.5.2006 COGNOME Marina veniva chiamata in causa, ad istanza di COGNOME NOME e COGNOME NOME, in un giudizio promosso nei confronti di questi ultimi da COGNOME NOME, pendente innanzi il Tribunale di Messina, avente ad oggetto la denuncia di nuova opera e la domanda di arretramento sino al rispetto delle distanze previste dalla legge, che era stata proposta dalla COGNOME nei confronti degli COGNOME in relazione ad un intervento edilizio realizzato dai secondi su progetto redatto dalla COGNOME. Gli Staiti invocavano, in particolare, la responsabilità della progettista in manleva, per il caso in cui essi fossero stati risultati soccombenti rispetto alla domanda svolta nei loro confronti dalla COGNOME, sul presupposto che la COGNOME aveva redatto il progetto di quanto da loro realizzato, assicurando la
conformità dell’intervento alle norme codicistiche ed al regolamento edilizio comunale.
Si costituiva la COGNOME resistendo alla domanda e chiedendo in via riconvenzionale la condanna degli Stati al pagamento del corrispettivo dovuto per la sua opera professionale.
Con sentenza n. 745/2010 il Tribunale accoglieva la domanda della COGNOME, ritenendo che il manufatto realizzato dagli COGNOME non rispettasse le distanze dal confine con la proprietà dell’attrice previste dall’art. 3 delle N.T.A. del Comune di Messina ed escludendo l’applicazione della prevenzione. Condannava quindi gli COGNOME ad arretrare la loro fabbrica e, ravvisata la sussistenza della responsabilità del progettista, condannava la COGNOME al risarcimento del danno, quantificato in complessivi € 66.350,00.
Con la sentenza impugnata, n. 305/2019, la Corte di Appello di Messina, riunite le impugnazioni separatamente proposte avverso la decisione di prime cure dalla COGNOME e dagli COGNOME, li rigettava, confermando la statuizione del Tribunale. La Corte distrettuale riteneva, in particolare, che il manufatto realizzato dagli COGNOME integrava una nuova costruzione e non rispettava le distanze imposte dal regolamento locale, fissate in 5 metri dal confine, sia nel caso di pareti finestrate che di pareti cieche, a meno che, in tale secondo caso, la costruzione non sia realizzata in aderenza. Escludeva quindi l’operatività del criterio della prevenzione, in presenza di una limitazione della facoltà di costruire sul confine, e confermava quindi la statuizione di arretramento della fabbrica contenuta nella sentenza di primo grado, ritenendo irrilevante la circostanza che l’intervento fosse stato autorizzato dalle competenti autorità. Escludeva poi che lo stradello esistente tra le due proprietà potesse essere considerato come strada, in quanto non inserito nella viabilità pubblica, di modeste
dimensioni e di natura privata, e confermava altresì la condanna del progettista a tenere indenne i committenti dai danni da essi patiti a fronte della constatata inadeguatezza del progetto.
Propone ricorso per la cassazione di detta decisione COGNOME, affidandosi Ad otto motivi, ancorché contraddistinti da numerazione in parte assente ed in parte confusa.
Resistono con controricorso COGNOME NOME e COGNOME NOME.
COGNOME NOME, intimata, non ha svolto attività difensiva nel presente giudizio di legittimità.
In prossimità dell’udienza pubblica, il P.G. ha depositato requisitoria scritta, insistendo per l’accoglimento del quinto motivo del ricorso, rigettati i restanti, ed ambo le parti costituite hanno depositato memoria.
Sono comparsi all’udienza pubblica il P.G., nella persona del sostituto dott. NOME COGNOME il quale ha concluso per l’accoglimento del quinto motivo del ricorso ed il rigetto dei restanti, l’avv. NOME COGNOME per la parte ricorrente, che ha invocato l’accoglimento del ricorso, e l’avv. NOME COGNOME per la parte controricorrente, il quale ha insistito per il rigetto del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, la parte ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 3 delle N.T.A. del Comune di Messina, perché la Corte di Appello non avrebbe considerato che detta disposizione prevede l’inapplicabilità delle distanze in presenza di edifici di altezza non superiore a due piani separati da strade. Ad avviso della ricorrente, la stradella esistente tra le proprietà COGNOME e Lombardo, avente larghezza variabile da metri 2,00 a metri 2,50, avrebbe dovuto essere considerata sub specie di strada, con conseguente esonero dell’obbligo di rispettare la normativa in tema di distanze.
Con il secondo motivo, invece, la ricorrente si duole dell’omesso esame di un fatto decisivo, costituito dalla circostanza che l’edificio da lei progettato, e realizzato dagli Staiti, non aveva altezza superiore a due piani e rientrava, quindi, nell’ambito dell’esenzione prevista dall’art. 3 della N.T.A. del Comune di Messina.
Le due censure, suscettibili di esame congiunto, sono infondate.
La Corte di Appello ha espressamente escluso che la stradella esistente tra le proprietà Staiti e Lombardo possa essere considerata come strada, in quanto non inserita nella viabilità pubblica, di modeste dimensioni e di natura privata (cfr. pag. 6 della sentenza impugnata). La statuizione è coerente con l’insegnamento di questa Corte, secondo cui ‘In tema di distanze legali fra costruzioni, ai fini dell’esenzione prevista dall’art. 879 secondo comma c.c., una strada privata può ritenersi legittimamente asservita ad uso pubblico qualora l’uso predetto trovi titolo in una convenzione tra i proprietari del suolo stradale e l’ente pubblico, ovvero si sia protratto per il tempo necessario all’usucapione’ (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9077 del 16/04/2007, Rv. 596355; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6401 del 24/03/2005, Rv. 581703; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8619 del 29/08/1998, Rv. 518495). Non basta, dunque, che esista una qualsiasi strada, ma occorre che questa, se di natura privata, sia asservita all’uso pubblico, e dunque destinata al passaggio di una collettività indistinta di persone, o per titolo -e dunque in virtù di convenzione tra proprietario del suolo sul quale insiste ed ente pubblico- ovvero per maturata usucapione. Più specificamente, va ribadito che ‘L’esonero dal rispetto delle distanze legali previsto dall’articolo 879, comma secondo, c.c. per le costruzioni a confine con piazze e vie pubbliche, va riferito anche alle costruzioni a confine delle strade di proprietà privata gravate da servitù pubbliche di passaggio, giacché il carattere pubblico
della strada, rilevante ai fini dell’applicazione della norma citata, attiene più che alla proprietà del bene, piuttosto all’uso concreto di esso da parte della collettività’ (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6006 del 05/03/2008, Rv. 602248; conf. Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 27364 del 29/10/2018, Rv. 651024). L’effettiva destinazione della strada al transito pubblico, dunque, costituisce la condizione sine qua non per l’esclusione delle distanze legali, tanto è vero che il fatto che sia intervenuta una convenzione, tra un privato e un ente pubblico, per la costruzione di un parcheggio in una determinata area non è, di per sé, elemento sufficiente a conferire natura pubblica alla costruzione, ai fini dell’inapplicabilità della disciplina di cui agli artt. 873 e ss. c.c. (cfr . Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5258 del 04/03/2011, Rv. 617023). Poiché, nella specie, la Corte distrettuale ha escluso che la stradella esistente tra le due proprietà, Staiti e Lombardo, fosse inserita nella viabilità pubblica, le norme in tema di distanze non potevano essere disapplicate. L’accertamento della natura privata della stradella e del suo mancato inserimento nella viabilità pubblica, peraltro, non viene specificamente attinto dalle censure in esame, onde le stesse risultano anche non del tutto attinenti alla complessiva ratio della decisione della sentenza impugnata.
Con il terzo motivo, la ricorrente denunzia la violazione o falsa applicazione dell’art. 2236 c.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente ravvisato la colpa grave del progettista, in presenza di una condizione di obiettiva difficoltà rappresentata dall’esistenza, in loco , di una strada, apparentemente idonea ad assicurare l’esenzione del rispetto delle norme in tema di distanze legali.
La censura è inammissibile.
La Corte di Appello, confermando la statuizione del Tribunale, ha ravvisato la colpa grave del professionista, in presenza di un errore
progettuale idoneo ad integrare responsabilità professionale. Il progettista infatti, secondo il giudice di seconde cure, risponde di una obbligazione di risultato, onde ‘… tra i suoi doveri rientra anche quello di redigere un progetto conforme, oltre che alle regole tecniche, anche alle norme giuridiche che disciplinano le modalità di edificazione su un dato territorio, con la conseguenza che gli errori di progettazione concernenti la mancata adeguazione degli edifici previsti alla normativa vigente non possono che costituire inadempimento caratterizzato da colpa grave e quindi fonte di responsabilità del progettista (Cass. 16.2.1996 n. 1208; Cass. 19.7.1993 n. 8033)’ (cfr. pag. 7 della sentenza impugnata). La ricorrente contesta tale statuizione, allegando anche che i precedenti richiamati dal giudice di appello non sarebbero confacenti alla fattispecie, in quanto relativi ad errori che avevano impedito il rilascio del titolo autorizzativo dell’intervento edilizio (cfr. pag. 12 del ricorso).
In realtà, questa Corte ha sempre affermato il principio secondo cui ‘L’architetto, l’ingegnere o il geometra, nell’espletamento dell’attività professionale consistente nell’obbligazione di redigere un progetto di costruzione o di ristrutturazione di un immobile, è debitore di un risultato, essendo il professionista tenuto alla prestazione di un progetto concretamente utilizzabile, anche dal punto di vista tecnico e giuridico, con la conseguenza che l’irrealizzabilità dell’opera, per erroneità o inadeguatezza del progetto affidatogli, dà luogo ad un inadempimento dell’incarico ed abilita il committente a rifiutare di corrispondere il compenso, avvalendosi dell’eccezione di inadempimento’ (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1214 del 18/01/2017, Rv. 642220). In senso più specifico, ‘Se dall’edificazione di una costruzione in violazione delle norme sulle distanze legali sia derivato l’obbligo del committente della riduzione in pristino, sussiste il diritto di rivalsa del
committente nei confronti del progettista direttore dei lavori, qualora l’irregolare ubicazione della costruzione sia conforme al progetto e non sia stata impedita dal professionista medesimo in sede di esecuzione dei lavori , in quanto il fatto illecito, consistente nella realizzazione di un edificio in violazione delle distanze legali rispetto al fondo del vicino, è legato da un nesso causale con il comportamento del professionista che ha predisposto il progetto e diretto i lavori’ (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1513 del 30/01/2003, Rv. 560207; conf. Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 14527 del 25/05/2023, Rv. 667977).
I precedenti richiamati dalla sentenza impugnata, dunque, si collocano nell’alveo di una linea interpretativa secondo la quale il professionista che assume l’incarico di redigere il progetto di un intervento edilizio è onerato di assicurare non soltanto il rispetto delle norme tecniche, ma anche di quelle giuridiche, tra le quali rientrano quelle in materia di distanze, tra edifici e dal confine. Poiché, nel caso specifico, i committenti sono stati condannati ad arretrare la loro fabbrica, perché ritenuta in violazione delle norme sulle distanze, la responsabilità del progettista sussiste.
Con il quarto motivo, la ricorrente contesta la violazione o falsa applicazione dell’art. 1227 c.c. perché la Corte di Appello non avrebbe ravvisato la presenza di un concorso di colpa dei committenti, i quali avevano comunicato al Comune l’inizio dei lavori ed incaricato della direzione dei lavori un diverso professionista (ing. COGNOME il quale non aveva evidenziato immediatamente l’irregolarità del progetto redatto dalla odierna ricorrente, né aveva sospeso i lavori subito dopo aver ricevuto la prima diffida della COGNOME.
Con il quinto motivo, non contraddistinto da alcun numero ma sviluppato a pag. 17 del ricorso, la COGNOME lamenta invece l’omesso
esame di un fatto decisivo, rappresentato dall’esistenza del concorso di colpa di cui al precedente motivo.
Le censure sono infondate.
Deve infatti essere escluso che i committenti possano rispondere dei danni cagionati dalla cattiva esecuzione dell’incarico professionale da loro conferito ad un tecnico specializzato, soltanto perché essi hanno sottoscritto le domande o istanze rivolte alle competenti autorità, per la realizzazione di un progetto redatto dal predetto professionista. Sul punto, va data continuità al principio secondo cui ‘In tema di contratto d’opera per la redazione di un progetto edilizio, pur costituendo il progetto, sino a quando non sia materialmente realizzato, una fase preparatoria, strumentalmente preordinata alla concreta attuazione dell’opera, il progettista deve assicurare, la conformità del medesimo progetto alla normativa urbanistica ed individuare in termini corretti la procedura amministrativa da utilizzare, così da assicurare la preventiva soluzione dei problemi che precedono e condizionano la realizzazione dell’opera richiesta dal committente. Ne consegue che sussiste la responsabilità del progettista per l’attività professionale espletata nella fase antecedente all’esecuzione delle opere, in relazione alla scelta del titolo autorizzativo occorrente per il tipo di intervento edilizio progettato (avendo, nella specie, il professionista richiesto l’autorizzazione per la manutenzione straordinaria di un edificio, anziché quella gratuita per la ristrutturazione), non costituendo tale scelta di per sé indice di un accordo illecito tra le parti per porre in essere un abuso edilizio, in quanto, piuttosto, spettante al medesimo professionista, giacché qualificata da una specifica competenza tecnica, e senza che possa rilevare, ai fini dell’applicabilità dell’esimente di cui all’art. 2226, primo comma, c.c., la firma apposta dal committente sul progetto redatto’ (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8014 del 21/05/2012, Rv.
622411; conf. Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 18342 del 09/07/2019, Rv. 654566). Il progettista, quindi, è comunque responsabile della propria opera, a prescindere dal fatto che le conseguenti istanze presentate per la concreta realizzazione dell’edificio siano state, materialmente, sottoscritte o inoltrate dai committenti alle autorità competenti al rilascio dei titoli autorizzativi prescritti dalla legge.
Del pari irrilevante è il fatto che gli Staiti abbiano deciso di conferire l’incarico di direttore dei lavori ad un professionista diverso dalla COGNOME, o che quest’ultimo non abbia ritenuto di sospendere i lavori dopo le segnalazioni o diffide dei vicini, poiché va data, sul punto, continuità all’ulteriore principio secondo cui ‘In relazione alle condotte illecite poste in essere in violazione della normativa edilizia, mentre sul piano amministrativo, cioè nei rapporti con la pubblica amministrazione, la responsabilità per gli abusi incombe sia sul committente, sia sul direttore dei lavori, sia sull’appaltatore, ai fini della responsabilità nei rapporti interni rilevano il rapporto contrattuale e le obbligazioni da esso derivanti. (Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 13157 del 13/05/2024, Rv. 671145). Ne consegue che il direttore dei lavori, in quanto incaricato di assicurare che le opere siano eseguite in conformità al progetto, al capitolato e alle regole della tecnica (cfr. Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 9572 del 09/04/2024, Rv. 670708) risponde, nell’ambito del rapporto contrattuale con i committenti, dell’esatto adempimento di dette obbligazioni, e non anche della conformità del progetto alla normativa applicabile. Inoltre, e a tutto voler concedere, anche laddove si volesse ipotizzare una responsabilità concorrente del direttore dei lavori, quest’ultima non potrebbe avere alcuna concreta rilevanza nella fattispecie, posto che il predetto non è parte del presente giudizio.
Con il sesto motivo, erroneamente contraddistinto con il n. 5 e sviluppato a pag. 19 del ricorso, la COGNOME lamenta invece la violazione o falsa applicazione degli artt. 112 e 345 c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente qualificato come domanda nuova, e ritenuto quindi inammissibile, la censura che l’odierna ricorrente aveva proposto in relazione alla liquidazione del danno riconosciuta dal Tribunale.
La censura è fondata.
La Corte di Appello, dopo aver ravvisato, erroneamente, la novità della doglianza relativa al quantum -la quale oggettivamente avrebbe invece dovuto essere logicamente inclusa nella negazione dell’ an della responsabilità professionale, costituendo una mera specificazione della difesa già svolta dalla professionista per resistere alla domanda spiegata nei suoi riguardi- ha poi affermato che ‘… non vi è spazio per addivenire in questa sede ad una diversa delibazione dei risvolti fattuali della vicenda, inammissibilmente sollecitata dalle censure in esame anche mediante riproposizione del materiale probatorio già vagliato’ (cfr. pag. 10 della sentenza impugnata). Con tale passaggio della motivazione, il giudice di seconda istanza è venuto meno alla sua funzione precipua, che si sostanzia, in presenza di un motivo di doglianza rivolto avverso la valutazione delle prove condotta dal giudice di prime cure, nel potere-dovere di verificare se detto precedente esame sia suscettibile di ricevere conferma o meno. Il giudice del gravame, quindi, avrebbe dovuto rivalutare le risultanze istruttorie, dando atto delle ragioni sulla base delle quali egli perviene alla propria decisione. Tale onere motivazionale ben può essere assolto anche mediante il rinvio alla valutazione del Tribunale, ma non può essere, di fatto, evitato attraverso il semplice rilievo che le censure mosse dall’appellante si limitano a sollecitare un rivalutazione delle prove,
poiché questo -cioè la rivalutazione delle prove- è esattamente il compito demandato al giudice dell’impugnazione, a meno che si tratti di impugnazione a critica vincolata, il che non è nel caso dell’appello.
In relazione, poi, alla ritenuta novità della contestazione del quantum , operata dalla Sciabà solo in seconde cure, deve osservarsi, in primo luogo, che solo in tale fase detta contestazione avrebbe potuto, in concreto, essere sollevata, posto che essa presuppone una condanna, che nella specie è contenuta nella sentenza di primo grado; la professionista, infatti, aveva contestato in radice la propria responsabilità in prime cure, e soltanto una volta quantificata la somma corrispondente al danno lamentato dagli Staiti ha potuto, evidentemente, muovere specifiche doglianze anche al criterio in base al quale essa è stata in concreto determinata.
In secondo luogo, la modificazione della domanda, in termini quantitativi, è ritenuta ammissibile dalla giurisprudenza di questa Corte, non trattandosi di domanda nuova, bensì di mera specificazione della medesima pretesa, che si colloca ‘… nell’ambito della medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizi o …” (cfr. Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 4410 del 19/02/2025, Rv. 673768, che ha ammesso la deducibilità, in appello, di danni ulteriori, prodottisi dopo la sentenza di prime cure). Negli stessi termini, cfr. anche Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 2533 del 26/01/2024, Rv. 670022, che ha affermato che ‘… il principio generale della immodificabilità della domanda originariamente proposta è derogabile soltanto nel caso di riduzione della domanda, nel caso di danni incrementali (quando il danno originariamente dedotto in giudizio si sia ulteriormente incrementato nel corso dello stesso, ferma l’identità del fatto generatore) e nel caso di fatti sopravvenuti, quando l’attore deduca che, dopo il maturare delle preclusioni, si siano verificati ulteriori danni, anche di natura diversa da quelli descritti con l’atto
introduttivo’ . Nonché Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 2038 del 24/01/2019, Rv. 652251, secondo la quale non costituisce domanda nuova ‘… la modificazione quantitativa del risarcimento del danno in origine richiesto, intesa non esclusivamente come modifica della valutazione economica del danno costituito dalla perdita o dalla diminuzione di valore di una cosa determinata, ma anche come richiesta dei danni, provocati dallo stesso fatto che ha dato origine alla causa, che si manifestano solo nel corso del giudizio’.
Tale interpretazione si colloca nell’alveo del principio secondo cui è ammessa, nel rispetto del regime delle preclusioni previsto dalla scansione temporale interna degli atti del processo civile, la modificazione della domanda che interessi i profili del petitum e/o della causa petendi , purché si rimanga nell’ambito della medesima vicenda sostanziale e si tenda al riconoscimento dello stesso bene della vita. In base a tale criterio di massima, questa Corte ha ravvisato, ad esempio, la modificabilità dell’originaria domanda formulata ex art. 2932 c.c. con quella di accertamento dell’avvenuto effetto traslativo (cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 12310 del 15/06/2015, Rv. 635536), la possibilità di proporre la domanda subordinata di indennizzo per arricchimento senza causa in aggiunta all’originaria domanda principale di adempimento contrattuale (cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 22404 del 13/09/2018, Rv. 650451), nonché la trasformazione della domanda originaria, da inadempimento contrattuale per mancanza di qualità a vendita di aliud pro alio (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 5884 del 05/03/2024, Rv. 670491).
Se si ammette la modificabilità della domanda, in termini quantitativi o anche qualitativi, nei sensi suindicati, non v’è ragione di ritenere preclusa la possibilità, a fronte di una tempestiva
contestazione dell’ an della pretesa, di contestarne anche il quantum , in un momento successivo del giudizio di merito.
A quanto precede si deve aggiungere che, nel caso specifico, la censura formulata dalla COGNOME non rimane confinata nell’ambito della mera contestazione di merito, come tale inammissibile in sede di legittimità, ma ha ad oggetto il duplice errore di diritto commesso dalla Corte distrettuale, la quale, come detto, da una parte ha omesso di considerare che la contestazione del quantum della pretesa risarcitoria era già compresa in quella dell’ an e dunque era pienamente ammissibile, e dall’altra si è sottratta alla sua naturale funzione, rappresentata dal riesame, nel merito, della vicenda dedotta in giudizio, nei rispetto e nei limiti del devolutum . Sotto quest’ultimo profilo, la motivazione resa dalla Corte messinese, nella sua estrema stringatezza, non è idonea ad integrare il cd. minimo costituzionale e a dar atto dell’iter logico-argomentativo seguito dal giudice di merito per pervenire alla sua decisione, onde la stessa non corrisponde al paradigma di cui all’art. 132 c.p.c. (cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830, nonché, in motivazione, Cass. Sez. U, Ordinanza n. 2767 del 30/01/2023, Rv. 666639).
Con il settimo motivo, la ricorrente denunzia la violazione o falsa applicazione dell’art. 2233 c.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente rigettato la sua domanda di condanna dei committenti al saldo dell’opera professionale svolta. Ad avviso della COGNOME, il giudice del gravame avrebbe errato nel confermare la decisione del Tribunale, che aveva rigettato la richiesta di saldo del compenso professionale, ritenendo che l’acconto già versato dai committenti fosse sufficiente a compensare l’impegno lavorativo da lei profuso nella vicenda.
La censura è infondata.
La Corte di Appello, nel confermare anche su questo profilo la decisione del Tribunale, ha espressamente richiamato il principio ‘inadimplenti non est adimplendum’ e ravvisato il diritto dei committenti di rifiutare il pagamento del compenso al professionista che abbia fornito un progetto di un’opera non realizzabile (cfr. pag. 10 della sentenza impugnata). La statuizione della Corte distrettuale è corretta e coerente con l’insegnamento di questa Corte, posto che ‘L’accertamento dell’inattuabilità del progetto di costruzione per errori e difformità imputabili al professionista progettista e derivanti dalla inosservanza della diligenza professionale può comportare la perdita del diritto al compenso in applicazione del principio inadimplenti non est adimplendum’ (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 4159 del 10/12/1974, Rv. 372806). Di recente, in termini ancor più specifici, si è affermato che ‘Il professionista, nell’espletamento della prestazione promessa, è obbligato ai sensi dell’art. 1176 c.c. ad usare la diligenza del buon padre di famiglia; la violazione di tale dovere comporta inadempimento contrattuale di cui lo stesso risponde anche per colpa lieve, perdendo il diritto al compenso’ (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 9063 del 31/03/2023, Rv. 667517, che ha cassato con rinvio la sentenza di appello che, pur avendo ravvisato l’irrealizzabilità dell’opera, aveva comunque riconosciuto il diritto dei professionisti a ricevere parte del compenso previsto). Di conseguenza, la ravvisata sussistenza di una responsabilità professionale del progettista avrebbe potuto condurre il giudice di merito non soltanto a ritenere non dovuto il saldo, come è accaduto nel caso specifico, ma addirittura ad escludere in radice il diritto al compenso. La ricorrente, di conseguenza, non vanta alcun interesse concreto ad impugnare una statuizione che, alla luce delle premesse in fatto accertate dalla Corte distrettuale, si presenta per lei oggettivamente favorevole.
Con l’ottavo ed ultimo motivo, erroneamente contraddistinto con il n. 6 e sviluppato a pag. 23 del ricorso, la COGNOME si suole infine della violazione o falsa applicazione del D.M. n. 55 del 2014 e degli artt. 1 e 16 della legge n. 247 del 2012, perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente quantificato le spese di lite dovute dagli Staiti alla COGNOME, delle quali la COGNOME era stata ritenuta obbligata a rispondere in via di garanzia, in € 15.676 in luogo di quella di € 9.215, risultante dall’applicazione della tariffa prevista dal D.M. n. 55 del 2014 per le cause di valore sino ad € 25.000.
La censura è assorbita dall’accoglimento del sesto motivo, poiché il giudice del rinvio dovrà operare un nuovo governo delle spese, incluse quelle del presente giudizio di legittimità, tenendo conto dell’esito complessivo della controversia.
In definitiva, va accolto il sesto motivo del ricorso, rigettati gli altri, e dichiarato assorbito l’ottavo. La sentenza impugnata va di conseguenza cassata, in relazione alla censura accolta, e la causa rinviata alla Corte di Appello di Messina, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
la Corte accoglie il sesto motivo del ricorso, dichiara assorbito l’ottavo e rigetta gli altri motivi. Cassa la sentenza impugnata, in relazione alla censura accolta, e rinvia la causa alla Corte di Appello di Messina, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda