Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 34418 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3 Num. 34418 Anno 2024
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 24/12/2024
Oggetto Responsabilità civile generale
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 6444/2022 R.G. proposto da COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME, rappresentati e difesi dall’Avv. Prof. NOME COGNOME (p.e.c. indicata: EMAIL;
-ricorrenti –
contro
RAGIONE_SOCIALE rappresentata e difesa dall’Avv. NOME COGNOME (p.e.c.: EMAIL), con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, INDIRIZZO
-controricorrente e ricorrente incidentale –
nonché contro
COGNOME rappresentato e difeso dall’Avv. NOME COGNOME (p.e.c. indicata: EMAIL), con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, INDIRIZZO
-controricorrente e ricorrente incidentale –
e nei confronti di
RAGIONE_SOCIALE COGNOME RAGIONE_SOCIALE e NOME COGNOME RAGIONE_SOCIALE. Società in accomandita semplice e NOME COGNOME
-intimati – avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 5640/2021 depositata in data 3 agosto 2021.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 21 novembre 2024 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con sentenza n. 25720 del 2014 il Tribunale di Roma dichiarò il difetto di legittimazione ad agire dei germani NOME COGNOME e NOME COGNOME in relazione alla domanda risarcitoria da essi proposta contro l’Ina Assitalia S.p.a., l’Agenzia Generale di Genova, la sub-agenzia RAGIONE_SOCIALE e NOME COGNOME RAGIONE_SOCIALE e NOME COGNOME per i danni, patrimoniali e non patrimoniali, subiti a causa della ingiustificata mancata emissione da parte di Ina Assitalia S.p.a. ─ nonostante il ragionevole affidamento in precedenza ingenerato ─ della polizza fideiussoria necessaria affinché la RAGIONE_SOCIALE, della quale i predetti erano soci e fideiussori, ottenesse dal Medio Credito del Sud S.p.a. un finanziamento destinato a far fronte alle passività contratte nei confronti del sistema bancario.
Rilevò, infatti, in sintesi che:
─ l a condotta dei convenuti, così come prospettata a fondamento
della domanda, andava inquadrata, sotto il profilo giuridico, nell’ambito della responsabilità precontrattuale per interruzione delle trattative, ex art. 1337 c.c.;
─ la qualità di controparte contrattuale nelle trattative intercorse con la compagnia, i suoi agenti e i subagenti, ai fini dell’emissione della polizza fideiussoria in questione, andava però riconosciuta soltanto alla RAGIONE_SOCIALE.aRAGIONE_SOCIALE, indipendentemente dal ruolo, neppure chiarito in atti, ricoperto e svolto dal COGNOME;
─ soltanto alla RAGIONE_SOCIALE e, dopo il suo fallimento, al curatore fallimentare, poteva essere riconosciuta la titolarità dell’azione di risarcimento dei danni fondata sulla responsabilità precontrattuale degli odierni convenuti per non aver stipulato con la medesima società la polizza fideiussoria per cui è causa;
─ g li attori, dunque, pur avendo dedotto di aver subito danni personali a seguito del descritto comportamento di RAGIONE_SOCIALE.p.aRAGIONE_SOCIALE, del suo agente generale di Genova centro e del subagente direttamente contattato per addivenire alla stipula della polizza fideiussoria, non avevano alcuna legittimazione ad agire in giudizio per far valere in proprio un diritto sostanziale di cui prospettano essere titolare esclusivamente la società contraente RAGIONE_SOCIALE;
─ i n ogni caso, sarebbe stata fondata anche l’eccezione di prescrizione dell’azione sollevata dai convenuti;
─ la decorrenza del relativo termine quinquennale andava, infatti, nella specie collocata il 9 gennaio 1997, data in cui Medio Credito del Sud, non essendo stata emessa la polizza fideiussoria, comunicò alla Beker Mediterranea la revoca dell’affidamento.
Con sentenza n. 5640/2021, resa pubblica in data 3 agosto 2021 , la Corte d’appello ha rigettato l’appello proposto da NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME (gli ultimi due quali eredi di NOME COGNOME) ed ha condannato gli appellanti alla rifusione in favore degli appellati delle spese del grado, liquidate per
ciascuno in « Euro 3.777,00 per compensi, oltre rimborso spese generali (15%), iva e cpa come per legge ».
2.1. In motivazione la Corte capitolina, premesso che con il primo motivo gli appellanti avevano denunciato il vizio di « eccesso di pronuncia avendo il tribunale dichiarato il difetto di legittimazione ad agire degli attori nonostante che non avesse formato oggetto di contestazione dalle controparti, neppure in astratto, la carenza di titolarità della posizione sostanziale dedotta in giudizio e dunque il giudice non avrebbe dovuto/potuto decidere in merito alla suddetta circostanza in quanto l’eccezione di legitimatio ad processum è un’eccezione in senso stretto non rilevabile d’ufficio ma affidata alla disponibilità delle parti che nel caso di specie non l’hanno mai eccepita », ha rilevato che:
─ « a fronte dell’eccezione di carenza di legittimazione attiva» opposta sia da RAGIONE_SOCIALE.aRAGIONE_SOCIALE che dal COGNOME, «gli attori non avevano fornito alcun elemento probatorio idoneo a dimostrare l’effettiva titolarità della posizione giuridica dedotta in giudizio, risultata di esclusiva spettanza della RAGIONE_SOCIALE e dopo il suo fallimento del curatore fallimentare della stessa »;
─ « conseguentemente, la domanda non poteva che essere rigettata per difetto di prova … del fatto costitutivo posto a base della domanda »;
─ « ciò detto , non è riscontrabile il denunciato vulnus della sentenza per violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato sancito dall’art. 112 c.p.c. avendo il giudice di prime cure puntualmente esaminato ed accolto proprio ‘avuto riguardo alla stessa prospettazione della domanda a ttrice’ e con argomentazione motivazionale … corretta, pienamente conforme alle evidenze documentali ed esaustiva, l’eccezione preliminare di carenza di legittimazione attiva »;
─ « difatti, una delle due rationes decidendi dell’impugnata sentenza
era costituita dall’accertata sussistenza della qualità di controparte contrattuale nella fase delle trattative intercorse (con) RAGIONE_SOCIALE … unicamente in capo alla RAGIONE_SOCIALE.aRAGIONE_SOCIALE »;
─ « gli appellanti al di là della generica doglianza non hanno in concreto spiegato per quale ragione sarebbe errato l’apprezzamento del tribunale e neanche prospettato alla Corte argomentazioni idonee a contrastare ed incrinare la suddetta ratio decidendi del Tribunale, fondata sull’attento esame valutativo della documentazione pertinente all’oggetto del presente giudizio e rilevante al decidere essendo stata confusamente prodotta in copia documentazione informe, relativa a precedenti rapporti di fideiussioni intercorsi tra i COGNOME, soci della RAGIONE_SOCIALE con diversi istituti bancari nelle annualità ’91 -’92 dunque, fuorviante e non pertinente all’oggetto del presente giudizio ».
2.2. Ha inoltre rilevato l’infondatezza del secondo e terzo motivo, con i quali si lamentava, rispettivamente, il « travisamento » del fondamento della svolta azione risarcitoria ( in thesi di tipo extracontrattuale e non precontrattuale) e l’erronea individuazione del dies a quo della prescrizione, osservando che:
─ la responsabilità precontrattuale, per violazione della regola di condotta stabilita dall’art. 1337 cod. civ., costituisce una forma di responsabilità extracontrattuale, con la conseguenza che la prova dell’esistenza e dell’ammontare del danno è a carico del danneggiato (artt. 2043 e 2059 cod. civ.) e si applica la prescrizione quinquennale di cui all’art. 2947 cod. civ.;
─ correttamente la decorrenza del termine è stata individuata nel momento della effettiva percepibilità, dalla contraente RAGIONE_SOCIALE.aRAGIONE_SOCIALE, del danno ex art. 1337 cod. civ. dalla revoca dell’affidamento comunicato da Medio Credito a Beker s.p.a. il 9 gennaio 1997.
Avverso tale sentenza NOME COGNOME, NOME
COGNOME e NOME COGNOME propongono ricorso per cassazione affidato a tre motivi.
Vi resistono RAGIONE_SOCIALE e NOME COGNOME (agente RAGIONE_SOCIALE per la Provincia di Genova) con separati controricorsi, con i quali ciascuno di essi propone anche ricorso incidentale affidato ad un solo motivo.
Gli altri intimati non svolgono difese nella presente sede.
È stata fissata per la trattazione l’odierna adunanza camerale ai sensi dell’art. 380 -bis.1 cod. proc. civ., con decreto del quale è stata data rituale comunicazione alle parti.
Non sono state depositate conclusioni dal Pubblico Ministero.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Va preliminarmente rilevata l’irritualità del conferimento dell’incarico di difesa, da parte del controricorrente NOME COGNOME ad altro difensore, in sostituzione di quello officiato per il controricorso, poiché avvenuto attraverso il rilascio di procura speciale (non già nelle forme dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata, ma) unitamente a « memoria di costituzione ».
Trattandosi di giudizio nella specie iniziato in primo grado in data anteriore a quella di entrata in vigore della legge 18 giugno 2009, n. 69 (v. art. 58, comma 1), non può trovare applicazione il nuovo disposto dell’art. 83, comma terzo, cod. proc. civ. ( come modificato dall’art. 45, comma 9, l. cit.), che ora ammette (integrando, sul punto, il precedente testo della norma codicistica) la costituzione in giudizio della parte anche mediante il conferimento della procura speciale con apposizione in calce o a margine « della memoria di nomina del nuovo difensore, in aggiunta o in sostituzione del difensore originariamente designato ».
Pertanto, nel caso in esame, ricadente sotto la previgente disciplina del citato art. 83, comma terzo, cod. proc. civ., per la nomina del nuovo difensore sarebbe stato necessario osservare, in via esclusiva, le forme
prescritte dal comma secondo dello stesso art. 83 del codice di rito, non essendo ammesse altre modalità (v. ex aliis Cass. n. 34553 dell’11/12/2023; n. 2914 del 31/01/2023; n. 2461 del 4/02/2020; n. 16828 del 26/06/2018; n. 955 del 20/01/2016; n. 24632 del 21/11/2011; n. 3187 del 9/02/2011).
Con il primo motivo i ricorrenti denunciano, con riferimento all’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2697 e 2395 c.c., per avere la Corte d’appello erroneamente ricostruito l’intera fattispecie legale del diritto controverso ed aver pretermesso un fatto rilevante ovvero la risarcibilità dei danni diretti subiti dai Sigg.ri COGNOME soci e fideiussori di RAGIONE_SOCIALE, ossia dei danni prodotti immediatamente nella sfera giuridico-patrimoniale dei medesimi e di cui essi soltanto, in qualità di soci, sono legittimati a dolersi.
Rilevano che la Corte d’appello, pur avendo correttamente individuato il criterio di riparto dell’onere probatorio in caso di contestazione della titolarità della posizione soggettiva, attiva o passiva, vantata in giudizio, richiamando gli arresti di Cass. Sez. U. 16/02/2016, n. 2951 e di Cass. 26/10/2017, n. 25471, li ha tuttavia erroneamente applicati alla fattispecie, avendo « totalmente obliterato le difese svolte dai Sigg.ri COGNOME i quali hanno dedotto e dimostrato negli atti versati in giudizio che i danni dai medesimi fatti valere in giudizio costituiscono danni arrecati alla propria sfera personale quali soci e fideiussori di RAGIONE_SOCIALE, e non affatto danni di esclusiva spettanza della società », trattandosi non di « un mero riflesso del danno arrecato al patrimonio sociale » ma di danni diretti dei soci, inerenti a lesioni di situazioni giuridiche soggettive di cui il socio, anche in qualità di fideiussore, è titolare in via autonoma e distinta rispetto a quelle facenti capo alla società.
Richiamano a sostegno i principi affermati dalla giurisprudenza in tema responsabilità dell’amministratore di società di capitali per danni
arrecati ai soci (art. 2395 cod. civ.) nonché l’arresto di Cass. 20/06/2019, n. 16581, secondo la cui massima « Qualora terzi arrechino danno ad una società di capitali, il socio è legittimato a domandare il ristoro del pregiudizio da lui subito ove non risarcibile alla società perché riguardante la sfera personale (diritto all’onore od alla reputazione) o la perdita di opportunità personali, economiche e lavorative dello stesso socio o la riduzione del cd. merito creditizio di quest’ultimo. (Nella specie, l’attore aveva dedotto che il fallimento di due società, delle quali egli era socio accomandatario e garante, era da imputare all’avvenuta escussione di una fideiussione dovuta all’illegittima revoca di un finanziamento pubblico e all’inadempimento di alcune obbligazioni) ».
Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano, con riferimento all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, cod. proc. civ., violazione e/o falsa applicazione degli artt. 24 e 111 Cost. e degli artt. 115, 116, 187, 188, 189 e 244 c.p.c. in riferimento alla mancata ammissione delle prove testimoniali richieste nonché omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.
Lamentano che erroneamente la Corte d’appello ha affermato che gli appellanti non avevano fornito la prova delle proprie allegazioni omettendo di considerare che nei propri scritti difensivi essi avevano richiesto l’ammissione di prova orale in relazione ad esse.
Con il terzo motivo i ricorrenti, infine, denunciano violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2043, 2935 e 2947 c.c. con riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. per avere la Corte d’appello erroneamente attribuito all’azione promossa natura precontrattuale, anziché natura extracontrattuale, e per avere individuato quale data da considerare ai fini del computo per il decorso dei termini di prescrizione il giorno in cui è pervenuta a RAGIONE_SOCIALE (e non ai Sigg.ri COGNOME) la revoca dell’affidamento da parte di Medio Credito del Sud S.p.a. anziché il giorno in cui è stato dichiarato il fallimento di RAGIONE_SOCIALE
RAGIONE_SOCIALE
Con l’unico motivo posto a fondamento di entrambi i ricorsi incidentali, sia RAGIONE_SOCIALE che NOME COGNOME denunciano violazione e falsa applicazione degli art. 91 co. 1 cod. proc. civ. e dell’art. 5 D.M. 55/2014, come modificato dal D.M. 37/2018, con riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., per avere la Corte d’appello liquidato le spese processuali poste a carico degli appellanti in misura inferiore all’importo minimo previsto dalla tariffa professionale secondo lo scaglione di riferimento, avuto riguardo all’elevato valore della causa.
Il primo motivo del ricorso principale è inammissibile, ai sensi dell’art. 366 n. 4 cod. proc. civ., poiché non coglie l’effettiva ratio decidendi posta a fondamento della sentenza impugnata e non si misura con essa.
6.1. La questione esaminata dalla Corte territoriale, nello scrutinio del primo motivo di appello, era di natura strettamente processuale, perché tale essa ha ritenuto fosse la questione posta con il detto motivo, vale a dire l’esistenza di un vizio di extrapetizione.
Ed anche l’esito di tale scrutinio è stato di tipo processuale, avendo la Corte territoriale implicitamente ma chiaramente espresso un giudizio di inammissibilità del motivo di appello per difetto di specificità ex art. 342 cod. proc. civ., avendo rilevato che « gli appellanti aldilà della generica doglianza non hanno in concreto spiegato per quale ragione sarebbe errato l’apprezzamento del tribunale e neanche prospettato alla Corte argomentazioni idonee a contrastare ed incrinare la suddetta ratio decidendi del Tribunale ».
6.2. Rispetto a tale ragione giustificativa le considerazioni svolte con il primo motivo del ricorso in esame si appalesano eccentriche, volgendo esse a sostenere nel merito la titolarità del credito risarcitorio azionato in giudizio ma nulla argomentando in chiave censoria sulla valutazione di aspecificità del motivo di gravame.
6.3. Ancor prima non viene nemmeno censurata la qualificazione operata dalla Corte capitolina del motivo di gravame come diretto a prospettare solo un vizio di extrapetizione per avere il primo giudice escluso la legittimazione ad agire ( recte : titolarità del diritto azionato) senza che questa fosse stata contestata, con il che rimane incontestato che era questo l’unico tema prospettato in appello, non anche la correttezza nel merito del convincimento espresso dal primo giudice in ordine al difetto di tale titolarità. Tema di merito che, dunque, non essendo stato posto con l’appello, non può essere recuperato nel presente giudizio di legittimità.
Può soggiungersi che, ove potesse ritenersi che dalla esposta motivazione debba in realtà trarsi anche l’esame e la valutazione, da parte della Corte d’appello, della questione di merito rappresentata dalla sussistenza o meno della titolarità del credito risarcitorio azionato, il motivo dovrebbe comunque dirsi infondato alla stregua delle seguenti considerazioni.
La domanda proposta dagli attori poneva una questione non di legittimazione ad agire, ma di titolarità (vale a dire di sussistenza) del credito risarcitorio azionato.
Il Tribunale (pur erroneamente parlando di legittimazione ad agire invece che di titolarità del diritto) e poi la Corte d’appello (che alla detta confusione concettuale ha rimediato citando Cass. Sez. U. n. 2951 del 2016) hanno escluso il fondamento di tale domanda, rilevando che quel che si prospettava era un illecito precontrattuale, come tale idoneo a legittimare una pretesa risarcitoria solo in capo alla parte che aveva condotto le trattative, non anche in capo a terzi, quali sono i soci (della RAGIONE_SOCIALE) e i fideiussori.
Tale valutazione è certamente corretta.
Il tipo di pregiudizio dedotto e la sua riconducibilità causale alla condotta o alla omissione del convenuto non sono i soli elementi da considerare ai fini della valutazione in ordine alla titolarità del credito
risarcitorio dedotto, questa richiedendo anche la valutazione della sussistenza di una ragione giuridica che tali danni consentano di attribuire a responsabilità del convenuto.
Tale fondamento giuridico è stato correttamente escluso dal momento che quel che si prospettava era la violazione dell’obbligo della compagnia d’assicurazione e dei suoi agenti di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative contrattuali (art. 1337 cod. civ.), obbligo che però riguardava dal lato attivo solo la controparte di tale trattativa (e dunque la società, soggetto distinto) non anche i soci e fideiussori, che sono terzi.
È inconferente il richiamo ai precedenti in tema di responsabilità dell’amministratore (art. 2395 cod. civ.) o dei terzi per i danni arrecati ai soci postulando essi la possibilità di qualificare la condotta degli autori del danno in termini di illecito aquiliano e, dunque, un fondamento diverso da quello che i giudici di merito hanno ritenuto potersi desumere dai fatti dedotti.
I germani COGNOME, dunque, sebbene tra i danni avessero elencato effettivamente anche pregiudizi ricadenti direttamente sul proprio patrimonio (l’escussione delle garanzie personali prestate in favore della S.r.l.), e non solo danni riflessi derivanti da quelli cagionati al patrimonio della società, non potevano effettivamente tali danni ascrivere a responsabilità risarcitoria dei convenuti, difettando il fondamento giuridico di tale dedotta responsabilità.
Si sarebbe peraltro potuto aggiungere -e sarebbe stato anche questo rilievo dirimente rispetto alle pretese dei germani Saponaroche il danno risarcibile ex art. 1337 cod. civ. riguarda, comunque, le perdite che sono derivate dall’aver fatto affidamento nella conclusione del contratto e nei mancati guadagni verificatisi in conseguenza delle altre occasioni contrattuali perdute (cosiddetto “interesse negativo”), non anche le perdite o il lucro cessante conseguenti alla mancata conclusione del contratto in relazione a quanto sarebbe stato possibile
ottenere se fosse stata emessa la polizza fideiussoria (v. ex aliis Cass. n. 23289 del 27/10/2006; n. 3746 del 23/02/2005; n. 19883 del 13/10/2005).
Il secondo motivo è inammissibile per diverse ragioni.
8.1. Anzitutto, e in via assorbente, perché attiene alla questione di merito che, come detto, deve considerarsi preclusa dal rilievo di natura processuale nella quale consiste la prima ratio decidendi esposta in sentenza.
8.2. Nella prospettiva subordinata di cui s’è detto sopra (par. 7) in ordine alla interpretazione di tale ratio , ne andrebbe ugualmente predicata l’inammissibilità.
La mancata ammissione di richiesta istruttoria non può integrare vizio di violazione di legge sostanziale, atteso che a potersi valutare in rapporto alla sua correttezza in iure è la decisione resa sulla domanda giudiziale, non già quella meramente strumentale riguardante le richieste istruttorie, finalizzate solo all’accertamento dei fatti rilevanti.
Il provvedimento reso sulle richieste istruttorie è piuttosto, in astratto, censurabile o per inosservanza di norme processuali o per vizio di motivazione, ma in tale secondo caso solo nei ristretti limiti nei quali è oggi deducibile secondo il ristretto paradigma di cui all’art. 360, comma primo, num. 5, cod. proc. civ..
Non può, in via di principio, essere posto in dubbio il rilievo che il diritto alla prova assume quale strumento di un effettivo esercizio del diritto di agire e difendersi in giudizio attraverso un giusto processo (artt. 24 e 111 Cost.; art. 6, § 1, CEDU) di guisa che la sua violazione, ove per l’appunto si risolva in violazione anche di tali diritti-fine, è certamente censurabile in cassazione ai sensi dell’art. 360, comma primo, num. 4, cod. proc. civ..
Una tale violazione è, però, configurabile allorquando il giudice del merito rilevi decadenze o preclusioni insussistenti (cfr. Cass. 5/03/1977, n. 910) ovvero affermi tout court l’inammissibilità del
mezzo di prova richiesto per motivi che prescindano da una valutazione, di merito, della sua rilevanza in rapporto al tema controverso ed al compendio delle altre prove richieste o già acquisite.
Ove invece ci si muova in tale seconda prospettiva, ancorché la decisione del giudice di merito si risolva pur sempre nel rifiuto di ammettere il mezzo di prova richiesto, non viene in rilievo una regola processuale rigorosamente prescritta dal legislatore ma piuttosto come è stato rilevato – «il potere (del giudice) di operare nel processo scelte discrezionali, che, pur non essendo certamente libere nel fine, lasciano tuttavia al giudice stesso ampio margine nel valutare se e quale attività possa o debba essere svolta» (Cass. Sez. U. 22/05/2012, n. 8077).
In tal caso, «la decisione si riferisce, certo, ad un’attività processuale, ma è intrinsecamente ed inscindibilmente intrecciata con una valutazione complessiva dei dati già acquisiti in causa e, in definitiva, della sostanza stessa della lite. Il che spiega perché siffatte scelte siano riservate in via esclusiva al giudice di merito e perché, quindi, pur traducendosi anch’esse in un’attività processuale, esse siano suscettibili di essere portate all’attenzione della Corte di cassazione solo per eventuali vizi della motivazione che le ha giustificate, senza che a detta Corte sia consentito sostituirsi al giudice di merito nel compierle» (Cass. Sez. U. n. 8077 del 2012, cit.).
La mancata ammissione della prova pone, dunque, in tale ipotesi, solo un problema di coerenza e completezza della ricostruzione del fatto in rapporto agli elementi probatori offerti dalle parti e può pertanto essere denunciata in sede di legittimità (solo) per vizio di motivazione in ordine all’attitudine dimostrativa di circostanze rilevanti ai fini della decisione (Cass. n. 20693 del 2015; n. 66 del 2015; n. 5377 del 2011; n. 4369 del 1999).
Nel caso di specie si verte, evidentemente, in questa seconda ipotesi.
Sotto tale profilo la censura è, però, inammissibile per la preclusione che deriva – ai sensi dell’art. 348ter , ultimo comma, cod. proc. civ. – dall’avere la Corte d’appello deciso in modo conforme alla sentenza di primo grado (c.d. doppia conforme), non avendo i ricorrenti assolto l’onere in tal caso su di essi gravante di indicare le ragioni di fatto della decisione di primo grado ed in cosa queste si differenziavano da quelle poste a fondamento della decisione di appello (v. Cass. 28/02/2023, n. 5947; 15/03/2022, n. 8320; 6/08/2019, n. 20994; n. 22/12/2016, n. 26774)
In ogni caso i fatti dedotti ad oggetto della prova difettavano di decisività, alla luce di quanto sopra esposto circa il fondamento dell’azione risarcitoria. Essi, infatti, tendevano tutti a dimostrare l’esistenza di pregiudizi direttamente ricadenti sul patrimonio dei soci e fideiussori in conseguenza del mancato rilascio della fideiussione, ma come tali non erano effettivamente idonei a dare fondamento alla pretesa risarcitoria in mancanza di allegazione e prova della illiceità della condotta causativa del danno (questa potendo in astratto ipotizzarsi solo ex art. 1337 cod. civ. nei confronti della società, non anche dei soci e fideiussori non coinvolti direttamente nell’accordo cui si riferivano le trattative).
Il terzo motivo è in parte inammissibile, in parte assorbito.
9.1. L’inammissibilità riguarda la prima censura (erronea qualificazione della domanda).
Secondo principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, il giudice di merito, nell’esercizio del potere di interpretazione e qualificazione della domanda, non è condizionato dalle espressioni adoperate dalla parte ma deve accertare e valutare il contenuto sostanziale della pretesa, quale desumibile non esclusivamente dal tenore letterale degli atti ma anche dalla natura delle vicende
rappresentate dalla medesima parte e dalle precisazioni da essa fornite nel corso del giudizio, nonché dal provvedimento concreto richiesto, con i soli limiti della corrispondenza tra chiesto e pronunciato e del divieto di sostituire d’ufficio un’azione diversa da quella proposta. Il relativo giudizio, estrinsecandosi in valutazioni discrezionali sul merito della controversia, è sindacabile in sede di legittimità unicamente se sono stati travalicati i detti limiti o per vizio della motivazione (v. Cass. n. 8225 del 29/04/2004; n. 27428 del 13/12/2005; n. 13602 del 21/05/2019).
Nella specie detti limiti non possono considerarsi superati.
Come detto, quel che si prospettava a fondamento della domanda era la violazione dell’obbligo della compagnia e dei suoi agenti di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative contrattuali, dunque una responsabilità precontrattuale (art. 1337 cod. civ.).
Può soggiungersi che, comunque, anche a ritenere che la prospettazione degli attori evocasse un illecito extracontrattuale, non ne sarebbe potuta conseguire una valutazione diversa, trattandosi di prospettazione comunque infondata. La condotta della parte che interrompa le trattative per la conclusione di un contratto può, infatti, se del caso, integrare violazione del dovere di comportarsi secondo buona fede nei confronti dell’altra parte ma non certo considerarsi lesiva di alcun interesse tutelato dall’ordinamento in capo a terzi estranei a dette trattative.
9.2. A doversi considerare assorbita è invece la restante censura, relativa alla individuazione del dies a quo del termine di prescrizione.
Si tratta, invero, di ratio decidendi meramente aggiuntiva, con la conseguenza che la sua eliminazione, in accoglimento del motivo, dal supporto motivazionale non varrebbe a privare la decisione della giustificazione ad essa pienamente fornita dalla prima ratio .
L’unico motivo posto a fondamento di entrambi i ricorsi
incidentali è fondato.
In tema di liquidazione delle spese processuali successiva al d.m. n. 55 del 2014, è consolidato nella giurisprudenza di questa Corte il principio secondo cui non trova fondamento normativo un vincolo alla determinazione secondo i valori medi ivi indicati, dovendo il giudice solo quantificare il compenso tra il minimo ed il massimo delle tariffe, a loro volta derogabili con apposita motivazione, discendendone che « l’esercizio del potere discrezionale del giudice contenuto tra i valori minimi e massimi non è soggetto a sindacato in sede di legittimità, attenendo pur sempre a parametri fissati dalla tabella, mentre la motivazione è doverosa allorquando il giudice medesimo decida di aumentare o diminuire ulteriormente gli importi da riconoscere, essendo necessario, in tal caso, che siano controllabili sia le ragioni dello scostamento dalla “forcella” di tariffa, sia le ragioni che ne giustifichino la misura » (Cass. n. 28325 del 29/09/2022; n. 89 del 7/01/2021; n. 12537 del 10/05/2019, Rv. 653760 – 01; n. 2386 del 31/01/2017, Rv. 642544 – 01; conf. Cass. n. 26608 del 9/11/2017, Rv. 646828 – 01; n. 22991 del 2/10/2017, Rv. 645613 – 01; n. 29606 del l’ 11/12/2017, Rv. 647183 -01).
Nella specie il valore della causa , da commisurare all’importo richiesto a titolo di risarcimento del danno era pari, secondo espressa indicazione ribadita anche in ricorso, a complessivi Euro 26.986.277,87.
In relazione al valore indicato, l’importo minimo liquidabile in base ai parametri corrispondenti allo scaglione era pari ad Euro 51.648,00 (comprendendo la fase istruttoria) ovvero ad Euro 32.727,00 (escludendola), anche in tale secondo caso comunque risultando il compenso minimo previsto superiore a quello di fatto liquidato di € 3.777,00.
Al riguardo occorre peraltro rilevare che dalla sentenza non emerge alcuna indicazione che possa giustificare l’esclusione degli importi
previsti per la fase istruttoria, dovendosi peraltro considerare che il parametro è riferito alla « fase istruttoria e/o di trattazione », discendendone che l’eventuale mancato svolgimento della fase istruttoria in sé e per sé considerata (ossia di alcuna delle attività che in tale fase sono da intendersi comprese secondo l’indicazione esemplificativa contenuta nel comma 5, lett. c, del medesimo art. 4) non vale ad escludere il computo, ai fini della liquidazione giudiziale dei compensi, dell’importo spettant e per la fase così come complessivamente considerata nelle tabelle, restando questo comunque riferibile anche solo alla diversa fase della trattazione (come dimostra l’uso, nella descrizione in tabelle della corrispondente voce, della congiunzione disgiunt iva ‘o’, sia pure in alternativa alla congiunzione copulativa ‘e’: ‘e/o’), la quale nel giudizio di appello deve considerarsi fisiologica ex art. 350 cod. proc. civ. (cfr. Cass. n. 15182 del 12/05/2022).
In accoglimento di entrambi i ricorsi incidentali, la sentenza impugnata va pertanto cassata in parte qua .
Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384, comma secondo, cod. proc. civ., nei termini di cui in dispositivo.
Alla soccombenza segue la condanna dei ricorrenti al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate, per ciascuno, come da dispositivo.
Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, al competente ufficio di merito, ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1bis dello stesso art. 13.
accoglie entrambi i ricorsi incidentali; dichiara inammissibile il ricorso principale; cassa la sentenza in relazione ai motivi accolti; decidendo nel merito liquida i compensi dovuti per il giudizio di appello in favore di ciascuno degli appellati, RAGIONE_SOCIALE S.p.aRAGIONE_SOCIALE e NOME COGNOME nell’importo di Euro 51.648,00 per compensi, oltre rimborso spese generali (15%), iva e cpa come per legge; ferma ogni altra statuizione.
Condanna i ricorrenti principali alla rifusione, in favore dei controricorrenti, delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano, per ciascuno, nella somma di Euro 20.000 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1quater del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, al competente ufficio di merito, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza