Sentenza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 26418 Anno 2024
Civile Sent. Sez. 1 Num. 26418 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 10/10/2024
rinviato all’odierna trattazione in pubblica udienza.
Il Procuratore Generale ha insistito per l’accoglimento del ricorso limitatamente al terzo e quarto motivo, risultando infondato il primo ed inammissibile il secondo.
RAGIONI DELLA DECISIONE
2.1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia il difetto di giurisdizione del collegio arbitrale in ragione della riserva alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle controversie de quibus, dato che in relazione al preteso inadempimento ascritto alle amministrazioni ricorrenti sarebbe configurabile l’esercizio di poteri autoritativi, con la conseguenza che, per effetto dell’art. 133, comma 1, lett. c), cod. proc. amm., farebbe difetto la giurisdizione del giudice ordinario e di riflesso pure del giudice privato, il cui responso andrebbe per questo dichiarato nullo.
Il motivo -che può essere affrontato da questa sezione semplice, alla luce del principio secondo cui l’art. 374 cod. proc. civ., da interpretarsi nel senso che i ricorsi che pongono questioni di giurisdizione possono essere trattati dalle sezioni semplici allorché sulla regola finale di riparto della giurisdizione « si sono già pronunciate le sezioni unite », ovvero sussistono ragioni di inammissibilità inerenti alla modalità di formulazione del motivo e all’esistenza di un giudicato sulla giurisdizione ( Cass., Sez. U, 11/02/2022, n. 1599) -come bene sintetizzato dal P.G., non ha pregio e va pertanto rigettato.
2.2. Vanno qui ribadite le ragioni a questo fine già rappresentate dalle SS.UU. di questa Corte con la sentenza 23418/2020 che ha enunciato, come si è ricordato ancora di recente (Cass., Sez. I, 8/04/2024, n. 9298; Cass., Sez. I, 8/04/2024, n. 9207; Cass., Sez. I, 8/04/2024, n. 9202), il seguente principio di diritto, secondo cui, in tema di concessioni per l’esercizio di scommesse ippiche, la controversia introdotta per ottenere la condanna della P.A. concedente al risarcimento del danno derivato ai concessionari dal sopravvenuto mutamento delle condizioni economiche poste a base della convenzione (per il venir meno di fatto della riserva esclusiva pubblica della relativa gestione a seguito dell’ingresso illegale nel mercato di operatori esteri), nonché dalla mancata attivazione di sistemi di accettazione di scommesse a quota fissa e per via telefonica e telematica, è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, vertendo la stessa sulla fase di attuazione del rapporto concessorio e venendo in considerazione profili che attengono, non già all’esercizio di poteri autoritativi incidenti sul momento funzionale dello stesso rapporto, ma all’accertamento dell’inadempimento, da parte della PRAGIONE_SOCIALE. concedente, alle obbligazioni sostanzianti il rapporto giuridico convenzionale a carattere paritetico, sicché la predetta controversia può essere compromessa in arbitrato rituale.
Pertanto, la controversia introdotta per ottenere la condanna della P.A. concedente al risarcimento del danno derivato ai concessionari (esercenti il servizio di raccolta delle scommesse ippiche) dal sopravvenuto mutamento delle condizioni economiche poste a base della convenzione (per il venir meno di fatto della riserva esclusiva pubblica della relativa gestione a seguito dell’ingresso illegale nel mercato di operatori esteri), nonché dalla mancata o ritardata attivazione di sistemi di accettazione di scommesse a quota fissa e per via telefonica e telematica, è devoluta alla giurisdizione del
giudice ordinario, vertendo la stessa sulla fase di attuazione del rapporto concessorio e venendo in considerazione profili che attengono, non già all’esercizio di poteri autoritativi incidenti sul momento funzionale dello stesso rapporto, ma all’accertamento dell’inadempimento, da parte della P.A. concedente, alle obbligazioni sostanzianti il rapporto giuridico convenzionale a carattere paritetico, sicché la predetta controversia può essere compromessa in arbitrato rituale.
2.3. Né questo enunciato si presta a rimeditazione in guisa dell’argomento particolare fatto valere dalle impugnanti nell’odierna impugnazione (essere espressione dell’esercizio di poteri autoritativi l’attivazione delle modalità alternative di raccolta delle scommesse), giacché in replica allo stesso le SS.UU. hanno già osservato che le «argomentazioni che precedono si prestano, infine, in modo ancor più evidente, ad annettere nello stesso ambito di giurisdizione quella porzione di controversia relativa, segnatamente, alle pretese risarcitorie avanzate dalle agenzie ippiche in ragione del dedotto inadempimento dei ministeri concedenti circa la mancata attivazione delle possibilità, per i concessionari, di accettare scommesse ippiche a quota fissa, nonché scommesse “per telefono o per via telematica”, in quanto integranti obbligazioni a carico delle stesse amministrazioni (contemplate dalla convenzione in base alla normativa regolamentare di riferimento), che, come tali, andavano a definire il complessivo perimetro dei reciproci diritti e obblighi del rapporto concessorio, rilevante nella fase attuativa del rapporto medesimo».
3.1. Con il secondo motivo di ricorso si deduce l’incompetenza del collegio arbitrale in ragione dell’operata declinatoria a cui avevano proceduto le amministrazioni ricorrenti, censurandosi perciò l’impugnata decisione nella parte in cui, condividendo l’assunto
arbitrale, aveva ritenuto di interpretare la norma convenzionale in punto di arbitrato nel senso che la scelta se adire il giudice privato o quello statuale fosse consentita solo al concessionario, così ravvisando nella specie la sussistenza di un arbitrato obbligatorio per le amministrazioni ricorrenti, le quali, in spregio ad ogni contrario dettame costituzionale, come già sancito da Corte Cost. 152/1996, si sarebbero per questo viste costrette ad accettare irrevocabilmente il giudizio arbitrale previsto dal disciplinare di convenzione una volta intervenuta l’approvazione con decreto ministeriale.
3.2. Il motivo, anche a non volersi condividere il giudizio di inammissibilità declinato dal P.G., è in ogni caso infondato.
Valgono al riguardo in chiave definitivamente assorbente le considerazioni -a cui restano estranee le obiezioni rappresentate dalle impugnanti nella memoria, inutilmente insistenti su un profilo, quello afferente alla pretesa contrarietà dell’interpretazione all’art. 1370 cod. civ., che non incarna la ratio decidendi espressa nell’occasione -già spese al riguardo da Cass. 8863/24, dell’avviso, maturato sul filo della riproduzione testuale di essa e del principio ” in claris non fit interpretatio “, che «la clausola compromissoria nel suo contenuto letterale (art.15, comma 2, ultimo periodo: “Resta salva la facoltà della declinatoria della competenza arbitrale, da parte del concessionario”) è del tutto inequivocabile nell’attribuire la facoltà di declinare la procedura arbitrale solo in capo alla RAGIONE_SOCIALE». Nei termini enunciati si è creduto di dover replicare all’argomento opposto dalle amministrazioni ricorrenti, che si dolgono tuttora che l’interpretazione contestata condurrebbe a dar vita ad un arbitrato obbligatorio, che poiché la clausola in parole nel testo risultante dal disciplinare di concessione è stata predisposta, con atto normativo generale (D.M. MIPAAF del 20.4.1999), in adempimento di una previsione regolamentare delegata dalla l. 23
dicembre 1996, n. 662, non può parlarsi di arbitrato obbligatorio, dato che la volontà di assoggettarsi al giudizio arbitrale è stata manifestata preventivamente dalle Amministrazioni che hanno predisposto e imposto alla controparte la clausola compromissoria. Si è osservato al riguardo che, sebbene sia certamente vero che la giurisprudenza costituzionale, sin dalla pronuncia 127/1997, abbia affermato che, garantendo la Costituzione il diritto ad ogni individuo di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi, il fondamento di qualsiasi arbitrato sia da rinvenirsi nella libera scelta delle parti -sicché la fonte dell’arbitrato non può ricercarsi e porsi in una legge ordinaria o, più generalmente, in una volontà autoritativa, con l’effetto di precludere alla radice ogni forma di arbitrato obbligatorio, come peraltro pure esplicitamente sancito da Corte Cost. 152/1996 dichiarando l’incostituzionalità dell’art. 16 l. 10 dicembre 1981, n. 741 -, nondimeno è decisivo, nel senso di escludere la ravvisabilità nella specie di un arbitrato obbligatorio in danno della PRAGIONE_SOCIALE., la considerazione -cui non pone rimedio la problematica gestazione della norma su cui si dilunga il motivo -che la volontà delle amministrazioni ricorrenti di assoggettarsi all’arbitrato è stata dalle stesse liberamente manifestata a monte, sia predisponendo sia imponendo la clausola in questione alla controparte contrattuale, di guisa che mancano i requisiti per ritenere l’arbitrato obbligatorio e quindi il presupposto perché le Amministrazioni potessero delineare la competenza arbitrale, posto infatti che la diversa lettura suggerita dalle ricorrenti poggia su un’artificiosa, innaturale ed illogica scissione di ruoli non potendo vedersi nel soggetto predisponente una parte vincolata da un’autorità esterna.
4.1. Con il terzo ed il quarto motivo di ricorso si deducono e si addebitano al lodo già oggetto di impugnativa e, di seguito, alla
sentenza in gravame che quella impugnativa ebbe a rigettare, la violazione rispettivamente degli artt. 1322, 1467, 1468 e 1375 cod. civ., oltre che dell’art. 17 r.d. 18 novembre 1923, n. 2440, posto che gli effetti sperequativi denunciati dalla RAGIONE_SOCIALE in conseguenza dell’ingresso nel mercato degli allibratori clandestini, non possono dirsi estranei al rischio di impresa liberamente assunto aderendo alla convenzione, avrebbero potuto semmai trovare rimedio nella risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, opzione viceversa non coltivata dall’interessata che, al pari di altre concessionarie, aveva continuato ad esercitare l’attività licenziata quantunque ne fosse stata denunciata l’antieconomicità, ed in ogni caso era escluso, per i vincoli formali cui va soggetta l’attività negoziale della PRAGIONE_SOCIALE. che, riguardo ai fenomeni denunciati, fosse ravvisabile l’assunzione in capo alle amministrazioni concedenti di un obbligo di garanzia implicito volto alla tutela delle attività licenziate (terzo motivo); e la violazione degli artt. 1175, 1337 e 1375 cod. civ., posto che a fronte della chiamata in responsabilità delle amministrazioni concedenti, sanzionata dapprima con il lodo e quindi condivisa dalla sentenza impugnata e alla ivi rilevata inosservanza dei precetti di correttezza e buona fede nell’adempimento dei rapporti contrattuali, erano opponibili le considerazioni a suo tempo rassegnate, all’esito di minuziose indagini, dal CTU nominato nel giudizio arbitrale, evidenzianti, da un lato, la ridotta incidenza dei fenomeni denunciati con riguardo al settore delle scommesse ippiche e, dall’altro, l’assenza di un ritardo imputabile riguardo all’attivazione di alcune modalità di giocata, atteso che nessun termine era stato convenzionalmente previsto in proposito e che l’attivazione in questione obbediva ad un criterio di progressività riconducibile alla necessità di adottare i necessari provvedimenti amministrativi implicanti l’esercizio di poteri discrezionali (quarto motivo).
4.2. Entrambi i motivi, scrutinabili congiuntamente in quanto strettamente connessi, sono fondati e vanno pertanto accolti.
4.3. Giova previamente sgombrare il terreno dal facile equivoco che ha portato il giudice del gravame a stigmatizzare la condotta delle amministrazioni concedenti in ragione del fatto che esse si trovino in regime sostanzialmente monopolistico in guisa del quale, stante la loro posizione dominante sul mercato, sarebbero perciò depositarie di obblighi di protezione e di salvaguardia in favore della generalità dei consociati, tali che la loro inosservanza ne comporterebbe la responsabilità da farsi valere appunto nelle qui azionata via risarcitoria.
E’ vero al contrario, come si è dato cura di sottolineare anche il P.G., che la giurisprudenza unionale in materia di libertà di concorrenza si è invece sempre orientata nel senso di sostenere che la condizione di monopolista, siccome quella riconducibile ad una posizione dominante, non è di per sé abusiva (si osserva in Corte Giust. UE 19/01/2023, in causa C-680/20, RAGIONE_SOCIALE che «l’articolo 102 TFUE non ha lo scopo di impedire ad un’impresa di conquistare, grazie ai suoi meriti, e in particolare grazie alle sue competenze e capacità, una posizione dominante su un mercato, né di garantire che concorrenti meno efficienti di un’impresa che detiene una posizione siffatta restino sul mercato. Invero, non tutti gli effetti preclusivi pregiudicano necessariamente la concorrenza poiché, per definizione, la concorrenza basata sui meriti può portare alla scomparsa dal mercato o all’emarginazione dei concorrenti meno efficienti e quindi meno interessanti per i consumatori, segnatamente dal punto di vista dei prezzi, della scelta, della qualità o dell’innovazione»), ma postula l’adozione di misure in grado di evitare che la posizione acquisita sul mercato si esplichi in pratiche anticoncorrenziali in danno di altri operatori (e al riguardo Corte
Giust. UE, 6/09/2017, in causa C-413/14, RAGIONE_SOCIALE, ammonisce che «l’articolo 102 TFUE vieta, in particolare, che un’impresa detentrice di una posizione dominante attui pratiche che hanno l’effetto di escludere i suoi concorrenti considerati altrettanto efficienti quanto l’impresa stessa, rafforzando la propria posizione dominante mediante il ricorso a mezzi diversi da quelli che sono propri di una concorrenza fondata sui merito»), considerando, poi, segnatamente, che «il benessere dei consumatori, sia intermedi sia finali, deve essere considerato l’obiettivo ultimo che giustifica l’intervento del diritto della concorrenza per reprimere lo sfruttamento abusivo di una posizione dominante sul mercato interno o su una parte sostanziale del medesimo. Per tale ragione, come già dichiarato dalla Corte, un’impresa che detiene una simile posizione può provare che una pratica escludente non incorre nel divieto di cui all’articolo 102 TFUE, segnatamente dimostrando che gli effetti che tale pratica può produrre sono controbilanciati, se non superati, da vantaggi in termini di efficienza che vanno a beneficio anche dei consumatori, in particolare in termini di prezzi, di scelta, di qualità o di innovazione» (Corte Giust. UE, 19/01/2023, in causa C680/20, RAGIONE_SOCIALE).
Dunque, nella chiave di lettura messa a punto dalla giurisprudenza unionale l’acquisizione di una posizione dominante sul mercato non è foriera, per definizione, di speciali obblighi di protezione, tanto più che, come ha ricordato ancora il P.G., essa, per poter essere considerata fonte di un abuso sanzionabile, deve estrinsecarsi in fattispecie di natura commissiva, come la Corte CE ha già avuto modo di esplicitare fin dalla sentenza RAGIONE_SOCIALE allorchè si è ritenuto che fosse contraria all’allora vigente art. 86 del Trattato CEE la prassi negoziale adottata da un’impresa farmaceutica, avente una posizione dominante sul mercato, di vincolare gli acquirenti a rifornirsi per
tutto o gran parte del loro fabbisogno esclusivamente presso di sé (Corte Giust. CE, 13/02/1979, in causa C-85-76, RAGIONE_SOCIALE); concetto poi rinnovato sempre in relazione alla RAGIONE_SOCIALE anche in occasione della disamina dell’intesa intercorsa tra questa e RAGIONE_SOCIALE volta a limitare la pressione concorrenziale sul mercato di un medicinale concesso in licenza, intesa appunto giudicata ricadente nel divieto di ricorrere a pratiche limitative della libertà di concorrenza di cui all’art. 101 TFUE (Corte Giust. UE, 23/01/1918, in causa C-179/16, COGNOME).
4.4. Questo chiaro quadro di indirizzo non è smentito da quanto la Corte d’Appello crede di dover affermare alla luce delle clausole generali da essa richiamate; anzi, a vedere bene, è in qualche misura propedeutico a dare conforto ad una prospettiva di lettura che denota maggior coerenza nel richiamare i principi della correttezza e della buona fede nell’esecuzione del contratto.
La Corte d’Appello, si è visto, facendosi latrice di un’interpretazione quanto mai ampia delle norme in parola ha rimproverato alle amministrazioni concedenti di non aver fatto uso dei poteri autoritativi per arginare i fenomeni involutivi in atto sul mercato tali da risultarne alterate le iniziali condizioni di equilibrio contrattuale. Ora, come osserva ancora il P.G., questa posizione con il corollario che se ne ritrae in punto di obblighi di protezione e di salvaguardia a carico delle amministrazioni concedenti, riflette indubbiamente la convinzione largamente dominante che vede nelle regole della correttezza e della buona fede altrettanti criteri di valutazione dell’agire contrattuale della parti da farsi valere in funzione integrativa del regolamento da esse adottato. E tuttavia, come si apprende dalla lezione giurisprudenziale -ne riferisce ancora il P.G. -, questa funzione non è invocabile in astratto, quale si renderebbe ipotizzabile laddove fosse consentito denunciare la violazione delle
regole in questione in modo generico, ma sottintende, al contrario, che essa si sostanzi nella contestazione di una responsabilità di tipo omissivo, esplicitandosi più precisamente quale contegno si sarebbe dovuto esigere dalla controparte nel proprio interesse negoziale, aspetto, questo, che è rimasto completamente negletto nel ragionamento decisorio della corte giudicante. Né può tacersi che il rispetto dovuto a questi principi non può risolversi nel reclamare un “eccesso” di correttezza o di buona fede in capo alla controparte chiamandola a sopportare nell’interesse altrui un sacrificio eccedente il limite della ragionevolezza, tanto più considerando che il rapporto negoziale di che trattasi si articola in un contesto a cui non è estraneo il rischio di impresa che, se non vale, di certo, a giustificare la catalogazione di esso nel quadro dei rapporti aleatori, rende controvertibile l’argomento basato sulla pretesa debolezza degli operatori interessati e porta poi ad assecondare un approccio applicativo più attento alla ciclicità propria delle dinamiche imprenditoriali, si ché le regole di cui si è qui ravvisata la violazione non funzionano sempre tutte allo stesso modo.
4.5. Ciò detto -che vale a sconfessare gli assunti decisori fatti propri dal giudice d’appello, imponendone perciò la doverosa rivisitazione -non rende, da ultimo, superfluo ricordare al giudice del rinvio le posizioni espresse ancora dal giudice unionale in ordine alla pretesa invasione del mercato posta in atto dagli allibratori clandestini, come emergenti dalla nota sentenza Cofone del 2012, laddove la Corte UE ha sanzionato la condotta del Governo italiano dei limiti all’ingresso nel mercato domestico degli operatori stranieri per aver posto in violazione degli artt. 43 e 47 del Trattato, aspetto anche questo nella sua indubbia incidenza in una valutazione d’assieme della vicenda, rimasto inspiegabilmente taciuto nel ragionamento decisorio.
Vanno dunque accolti il terzo ed il quarto motivo di ricorso e la causa, cassata perciò nei limiti dei motivi accolti l’impugnata decisione, va rimessa al giudice a quo per la rinnovazione del giudizio.
P.Q.M.
Rigetta il primo ed il secondo motivo di ricorso; accoglie il terzo ed il quarto motivo di ricorso , cassa l’impugnata sentenza nei limiti dei motivi accolti e rinvia la causa avanti alla Corte d’Appello di Roma,