Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 31514 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 31514 Anno 2024
Presidente: NOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 08/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 15887/2019 R.G. proposto da NOME COGNOME elettivamente domiciliato in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell ‘ avv. NOME COGNOME rappresentato e difeso dall ‘ avv. NOME COGNOME ricorrente – contro
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1/2019 della Corte d’Appello di Venezia, depositata l’11 .3.2019;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 23.10.2024 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
L ‘ attuale ricorrente, medico di medicina legale in regime di convenzione con l’ allora ULSS 20 (ora Azienda ULSS 9
.
La sentenza del Tribunale venne impugnata dal medico, ma la Corte d’Appello di Venezia respinse il gravame, confermando la decisione di primo grado.
Contro la sentenza della Corte territoriale il medico ha quindi proposto ricorso per cassazione, articolato in sette motivi.
L ‘Azienda sanitaria si è difesa con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa dei rispettivi ricorsi e controricorsi nel termine di legge anteriore alla data fissata per la trattazione in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380 -bis .1 c.p.c.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Preliminarmente si precisa che il Collegio è delegato a trattare la questione di giurisdizione proposta con il primo motivo del presente ricorso in virtù del Decreto del Primo Presidente in data 10 settembre 2018 in quanto essa rientra, nell’ambito delle materie di competenza della sezione lavoro, tra le questioni indicate nel richiamato Decreto sulle quali si è consolidata la giurisprudenza delle Sezioni Unite di questa Corte.
Il primo motivo è rubricato dal ricorrente «Sulla giurisdizione e sulla qualificazione dell’azione proposta dall’Azienda ULSS 20 di Verona : erronea qualificazione della giurisdizione ordinaria, errore di diritto omesso esame di un fatto decisivo (art. 360, comma 1, nn. 1, 3, 5, c.p.c.)».
Il ricorrente concentra in un unico motivo tre pretesi vizi della sentenza impugnata, tutti desunti dalla qualificazione della domanda iniziale dell’Azienda Sanitaria in termini di azione di responsabilità per danno erariale ai sensi della legge n. 20 del 1994. Da ciò deriverebbe innanzitutto il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, essendo la giurisdizione riservata alla Corte dei Conti. Inoltre, si contesta ai giudici del merito di avere deciso su una domanda di risarcimento danni da inadempimento contrattuale, «ontologicamente» diversa rispetto a quella inizialmente proposta, ammettendo una inammissibile mutatio libelli .
1.1. Al netto dei profili di inammissibilità (in particolare per la indistinta commistione di diversi tipi di vizi denunciati nella sentenza impugnata), il motivo è infondato, perché la Corte d’Appello ha dato atto che « l’azienda sanitaria nell’agire in primo grado aveva allegato che il COGNOME era medico convenzionato con la ULSS 20, che tra gli obblighi della convenzione rientrava la prescrizione di farmaci rimborsabili dal servizio sanitario nazionale che fosse conforme alle condizioni e limitazioni previste dalla Commissione unica del farmaco (art. 1, comma 4, legge n. 323/96), e che a seguito di controlli avviati era stata accertata la eccessività prescrittoria realizzata dal COGNOME ».
In ciò i giudici del merito hanno correttamente ravvisato tutti gli elementi costitutivi necessari per qualificare la domanda in termini di azione risarcitoria da inadempimento contrattuale, senza alcuna violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, né del diritto al contraddittorio del convenuto, messo in condizione di conoscere fin dall’atto introduttivo tutti gli aspetti di fatto e di diritto sui quali difendersi (Cass. nn. 13920/2023; 10049/2022; 19186/2020; 7322/2019).
Quanto poi alla sovrapposizione rispetto all’azione di responsabilità erariale riservata alla cognizione della Corte dei Conti, deve essere qui ribadito il principio secondo cui « L’azione di responsabilità per danno erariale e quella di responsabilità civile promossa dalle singole amministrazioni interessate davanti al giudice ordinario restano reciprocamente indipendenti, anche quando investano i medesimi fatti materiali, essendo la prima volta alla tutela dell’interesse pubblico generale, al buon andamento della P.A. e al corretto impiego delle risorse, con funzione prevalentemente sanzionatoria, e la seconda, invece, al pieno ristoro del danno, con funzione riparatoria ed integralmente compensativa, a protezione dell’interesse particolare della amministrazione attrice » (Cass. S.U. n. 5978/2022, che riprende il principio già espresso da Cass. S.U. n. 4883/2019).
Il secondo motivo di ricorso è incentrato «Sulla legittimazione ad agire: violazione di legge (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.), violazione dell’ art. 81 c.p.c., vizio di ultrapetizione per violazione dell’art. 112 c.p.c. ».
Il ricorrente sostiene che nella sentenza impugnata sarebbe stato riconosciuto un ruolo di sostituto processuale del Servizio Sanitario Nazionale all’Azienda sanitaria, la quale non avrebbe mai prospettato di avere subito un danno e di agire a tutela di un proprio diritto.
2.1. Il motivo è inammissibile, perché prospetta la violazione dell’art. 112 c.p.c. ( vizio di extrapetizione) in modo generico, senza adeguatamente riportare e descrivere il contenuto del l’atto di controparte, come sarebbe stato necessario al fine di sostenere la tesi che «Mai … la ULSS 20, nel ricorso introduttivo, aveva affermato di aver subito un danno, né di aver effettuato esborsi alle farmacie convenzionate per effetto dell’attività del dott. COGNOME» .
Del resto, pare evidente dall’illustrazione del motivo che la tesi del ricorrente è basata sulla propria interpretazione dell’art. 1, comma 4, del decreto legge n. 323 del 1996, piuttosto che sull’esegesi dell’atto di controparte. Infatti si attribuisce all’Azienda sanitaria l’intenzione di agire quale sostituto processuale del Servizio Sanitario Nazionale, solo perché questo è indicato nella disposizione di legge quale soggetto cui deve essere rimborsato il costo dei farmaci indebitamente prescritti. Ma, volendo scendere sul (diverso) piano della interpretazione della legge, è facile il rilievo che il Servizio Sanitario Nazionale non è un soggetto di diritto e che, quindi, l’Azienda non può avere agito in s ua sostituzione.
Il terzo motivo è così rubricato: «Sulla fonte negoziale dell’obbligo del medico convenzionato: violazione di legge, violazione degli artt. 414 e 437 c.p.c. (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.)».
Il ricorrente si lamenta che i giudici del merito abbiano posto a fondamento della decisione l’Accordo Collettivo Nazionale 20.1.2005 e il d.P.R. n. 270 del 2000, senza tenere conto che tali atti «non venivano citati dalla ricorrente quali fonti regolatrici del rapporto di convenzionamento, ma quali fonti negoziali della pretesa, la cui corretta individuazione non costituisce ‘mera difesa’ , ma rappresenta un elemento essenziale della domanda».
3.1. Il motivo è inammissibile, in quanto non si comprende il significato che si intende dare alla distinzione tra l’indicazione degli accordi collettivi (uno dei quali recepito in d.P.R.) «quali fonti regolatrici del rapporto di convenzionamento» rispetto all’indicazione dei medesimi accordi « quali fonti negoziali della pretesa».
Dalla sentenza impugnata risulta che l’Azienda sanitaria agì in giudizio in forza del contratto di convenzione, il cui contenuto è integrato dalla legge (art. 1374 c.c.) e dalla contrattazione collettiva applicabile al rapporto; contrattazione collettiva che -sul punto che qui interessa -richiama e specifica l’obbligo di legge gravante sul medico di prescrivere i farmaci in modo «conforme alle condizioni e alle limitazioni previste dai provvedimenti della Commissione unica del farmaco» (art. 1, comma 4, d.l. n. 323 del 1996, convertito in legge n. 425 del 1996).
In tale contesto, non vi è alcuno spazio per la violazione delle norme processuali indicate nella rubrica del motivo, peraltro senza un preciso sviluppo nella successiva illustrazione.
Il quarto motivo si concentra sulla «individuazione del termine di prescrizione e sulla sua decorrenza», denunciando «violazione di legge (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.)».
La Corte d’Appello h a respinto l’eccezione di prescrizione , tempestivamente sollevata dall’attuale ricorrente , ritenendo applicabile il termine ordinario decennale ed individuando il dies a quo per la sua decorrenza nelle date in cui l ‘ apposita commissione costituita presso l’Azienda sanitaria aveva reso il proprio parere sulle irregolarità riscontrate.
Il ricorrente ribadisce l’opinione che si sarebbe dovuto applicare il termine di prescrizione quinquennale previsto, per la responsabilità erariale, dall’art. 1, comma 2, della legge n. 20 del 1994. Quanto alla decorrenza del termine, il ricorrente nega che essa possa essere differita al momento in cui l’apposita commissione espresse il suo giudizio finale, ben potendo l’Azienda avere conoscenza degli eventuali illeciti mediante i controlli trimestrali imposti dalla legge.
4.1. Il motivo è infondato.
4.1.1. Sulla durata del termine, basti ribadire che l’azione esperita dall’Azienda sanitaria è un’azione di inadempimento contrattuale, distinta e autonoma rispetto all’azione di danno erariale riservata alla cognizione della Corte dei Conti.
4.1.2. Quanto alla decorrenza del termine, la Corte d’Appello ha correttamente osservato che l’Azienda sanitaria non avrebbe potuto far valere il diritto (art. 2935 c.c.) prima del responso dei soggetti incaricati di contestare l’addebito al medico e di valutare le sue controdeduzioni. Tale preventiva procedura di garanzia per il medico accusato delle irregolarità era prescritta dall’art. 15 -bis dell’accordo collettivo allegato al d.P.R. n. 270 del 2000 ed era, quindi, vincolante per l’Azienda sanitaria.
Nella sentenza impugnata si dà atto che, nell’ambito di tale procedura, venne effettuata la prescritta «contestazione di data 19.10.2005». Anche solo considerando tale contestazione
quale atto interruttivo della prescrizione , quest’ultima non sarebbe comunque maturata, essendo intervenuta in data 7.1.2015 una richiesta stragiudiziale e, quindi, un ulteriore atto interruttivo. Ma va senz’altro condivisa l’affermazione della Corte territoriale secondo cui la prescrizione iniziò a decorrere soltanto dopo i provvedimenti finali della commissione per l’accertamento delle irregolarità, ovverosia dal 19.1.2006 (per le irregolarità commesse dal 2002 al 2003) e dall’11.9.2007 (per le irregolarità commesse nel 2005).
Il quinto motivo, focalizzato sull’«ammontare del danno», denuncia «violazione di legge (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.) in relazione agli artt. 115 e 116 c.p.c.; omesso esame di un fatto decisivo (art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.)».
Il ricorrente si duole che la Corte territoriale non abbia considerato il ritardo con cui le irregolarità furono contestate e la mancata istituzione di adeguati corsi di aggiornamento professionale quali concause delle irregolarità commesse, idonee a d incidere sull’entità del danno provocato.
Il sesto motivo è rubricato «Sulla carenza probatoria; violazione di legge (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.) in relazione agli artt. 115, 116 e 414 c.p.c., art. 2697 c.c.».
Il ricorrente contesta al giudice d’appello di avere deciso la causa in favore dell’Azienda sanitaria nonostante la mancata produzione in giudizio del contratto individuale stipulato tra le parti e dell’Accordo Collettivo Nazionale del 2005.
Anche il settimo motivo pone l’accento «Sulla carenza probatoria», denunciando «violazione di legge (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.) in relazione agli artt. 115, 116, omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio».
Il motivo è volto a contestare alla Corte d’Appello di avere liquidato il danno nella misura indicata da ll’Azienda, pur in assenza una prova effettiva della sua consistenza.
Questi ultimi tre motivi possono essere esaminati congiuntamente, per la stretta connessione logica tra di loro, che deriva dalla comune inammissibilità connessa all’evidente intenzione -al di là delle norme e dei vizi indicati in rubrica -di sottoporre a un nuovo vaglio l’accertamento dei fatti e di denunciare una insufficiente motivazione su alcuni aspetti della decisione impugnata.
È allora sufficiente ribadire i seguenti, consolidati principi di diritto:
« a) La riformulazione dell’art. 360, n. 5), cod. proc. civ., disposta con l’art. 54, d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, secondo cui è deducibile esclusivamente l ” omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ‘ , deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall ‘ art. 12 disp. prel. cod. civ., come riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità, per cui l ‘ anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all ‘ esistenza della motivazione in sé, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di ‘ sufficienza ‘ , nella ‘ mancanza assoluta di motivi sotto l ‘ aspetto materiale e grafico ‘ , nella ‘ motivazione apparente ‘ , nel ‘ contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili ‘ , nella ‘ motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile ‘ .
Il nuovo testo del n. 5) dell ‘ art. 360 cod. proc. civ. introduce nell ‘ ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia).
L ‘ omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.
La parte ricorrente dovrà indicare -nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui agli artt. 366, primo comma, n. 6), cod. proc. civ. e 369, secondo comma, n. 4), cod. proc. civ. -il ‘ fatto storico ‘ , il cui esame sia stato omesso, il ‘ dato ‘ , testuale o extratestuale, da cui ne risulti l ‘ esistenza, il ‘ come ‘ e il ‘ quando ‘ (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la ‘ decisività ‘ del fatto stesso » (Cass. S.U. n. 8053/2014).
I motivi in esame non superano la soglia della generica critica all’apprezzamento delle prove , che compete al giudice del merito, e alla (ritenuta) incompletezza della motivazione della sentenza, senza nemmeno prospettarne in modo specifico l’inesistenza o, comunque, l’inadeguatezza rispetto al «minimo costituzionale».
Le spese legali del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
Si dà atto che, in base all’esito del ricorso, sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002.
P.Q.M.
La Corte:
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore della controricorrente , liquidate in € 7.000, per compensi, oltre alle spese generali al 15%, a € 200 per esborsi e agli accessori;
ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, a carico del ricorrente , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1 -bis , dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della