Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 7673 Anno 2019
Civile Sent. Sez. 2 Num. 7673 Anno 2019
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 19/03/2019
SENTENZA
sul ricorso 7863-2016 proposto da:
COMUNE NAPOLI, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME, rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
COGNOME elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME, rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME
– controricorrente –
GLYPH
e
avverso la sentenza n.4627/2015 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 02/12/2015; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13/11/2018 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME udito il P.G. nella persona del Sostituto Dott. NOME
COGNOME che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;
FATTI DI CAUSA
Con ricorso ex art.702bis c.p.c. l’avv. COGNOME NOME evocava in giudizio il Comune di Napoli, esponendo di esser stato incaricato da RAGIONE_SOCIALE, appaltatrice del servizio pubblico di gestione del patrimonio immobiliare del predetto Comune, di seguire alcuni contenziosi riferibili al predetto patrimonio; chiedeva pertanto la condanna dell’ente locale al pagamento dei compensi.
Si costituiva il Comune resistendo alla domanda e lamentando il proprio difetto di legittimazione passiva, poiché i mandati erano stati conferiti all’avvocato da RAGIONE_SOCIALE
Il Tribunale accoglieva la domanda e condannava il Comune al pagamento di C 155.473,55. Avverso detta decisione interponeva appello l’ente locale proponendo quattro motivi, ed in particolare: (1) lamentava che il primo giudice avesse fatto riferimento ad altro provvedimento reso in diverso giudizio, adottando una motivazione per relationem non consentita; (2) contestava il ricorso al rito speciale previsto dall’art.702-bis c.p.c., sul presupposto che tale procedura sia ammissibile solo nel caso in cui si discute di semplice determinazione del compenso; (3) allegava che RAGIONE_SOCIALE non aveva facoltà di impegnare il Comune nei rapporti con i terzi; (4) sosteneva che erroneamente il Tribunale aveva ritenuto che non vi fosse contestazione sul quantum della pretesa.
Con la sentenza appellata n.4627/2015 la Corte di Appello di Napoli dichiarava inammissibile il gravame condannando il Comune alle spese del grado. Propone ricorso per la cassazione di detta decisione il Comune affidandosi a due motivi. Resiste con controricorso COGNOME Luigi.
Il controricorrente ha depositato memoria, sollevando eccezione di inammissibilità del ricorso per mancanza agli atti della delibera della Giunta municipale che autorizza il Sindaco alla proposizione del ricorso per Cassazione.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Preliminarmente va affrontata l’eccezione proposta dal controricorrente con la memoria ex art.378 c.p.c.
Al riguardo, va innanzitutto osservato che in atti non si rinviene copia della deliberazione della Giunta municipale del Comune di Napoli contenente l’autorizzazione al Sindaco di proporre ricorso per Cassazione avverso la decisione della Corte di Appello di Napoli n.4627/2015. Né vi è menzione di detta deliberazione nell’epigrafe del ricorso ovvero nella procura speciale apposta in calce allo stesso.
Va altresì dato atto che nei gradi precedenti, il Comune si era costituito in giudizio, tanto in prima che in seconda istanza, in base ad una procura generale alle liti conferita per atto del notaio COGNOME in Napoli, rep.55842 racc.14987 in data 11.11.2013. In base a detto atto, il Sindaco del Comune di Napoli aveva conferito ad una serie di avvocati, tra cui anche l’avv. NOME COGNOME COGNOME sottoscrittore del ricorso in Cassazione, il potere di rappresentare l’Ente locale “nelle liti attive e passive, promosse e/o da promuovere contro qualsiasi persona fisica e/o giuridica e/o ente e per qualsiasi titolo avanti a tutti gli Uffici giudiziari”.
,
Ciò posto, deve rilevarsi che a partire dal 2005 la giurisprudenza di questa Corte in materia di autorizzazione degli enti locali a stare in giudizio si è orientata nel senso della non necessarietà del deposito della deliberazione della Giunta municipale. Per effetto dell’avvio del processo di riforma delle autonomie locali conseguente alla Legge n.142/1990, proseguito poi con la adozione del T.U. di cui al D.Lgs. n.267/2000, con la modifica del Titolo V della Costituzione e con la Legge n.131/2003 di adeguamento al nuovo assetto costituzionale, si è infatti affermato che “Nel nuovo quadro delle autonomie locali, ai fini della rappresentanza in giudizio del Comune, l’autorizzazione alla lite da parte della giunta comunale non costituisce più, in linea generale, atto necessario ai fini della proposizione o della resistenza all’azione, salva restando la possibilità per lo statuto comunale -competente a stabilire i modi di esercizio della rappresentanza legale dell’ente, anche in giudizio (ex art.6 secondo comma del testo unico delle leggi sull’ordinamento delle autonomie locali, approvato con il D.Lgs. 18 agosto 2000 n.267)- di prevedere l’autorizzazione della giunta, ovvero di richiedere una preventiva determinazione del competente dirigente (ovvero, ancora, di postulare l’uno o l’altro intervento in relazione alla natura o all’oggetto della controversia). Ove l’autonomia statutaria si sia così indirizzata, l’autorizzazione giuntale o la determinazione dirigenziale devono essere considerati atti necessari, per espressa scelta statutaria, ai fini della legittimazione processuale dell’organo titolare della rappresentanza” (Cass. Sez.U, Sentenza n.12868 del 16/06/2005, Rv.581176; conf. Cass. Sez.U, Sentenza n.12869 del 16/06/2005, Rv.581179; Cass. Sez.U, Sentenza n.12871 del 16/06/2005, Rv.581182; Cass. Sez.3, Sentenza n.26047
del 29/11/2005, Rv.584839; Cass. Sez.1, Sentenza n.7879 del 05/04/2006, Rv.591259; Cass. Sez.3, Sentenza n.13656 del 13/06/2006, Rv.591123; Cass. Sez.5, Sentenza n.21330 del 03/10/2006, Rv.593262; Cass. Sez.3, Sentenza n.8067 del 31/03/2007, Rv.598624; Cass, Sez.1, Sentenza n.24433 del 21/11/2011, Rv.620577; Cass. Sez.L, Sentenza n.20428 del 11/10/2016, Rv.641457).
Vanno quindi valorizzati lo statuto ed i regolamenti dell’ente locale, espressione della sua autonomia organizzativa, onde soltanto quando essi prevedano una esplicita riserva in capo alla Giunta municipale del potere di affidare la rappresentanza in giudizio del Comune occorre che la procura sia corredata da una apposita deliberazione. In tutti gli altri casi, il potere suddetto spetta innanzitutto al Sindaco e, qualora lo statuto lo preveda, ai dirigenti preposti ai singoli settori tecnicoamministrativi (cfr. ancora Cass. Sez.U, Sentenza n.12868 del 15/06/2005, Rv.581174; conf. Cass. Sez.1, Sentenza n.4556 del 22/03/2012, Rv. 622070 e Cass. Sez.1, Sentenza n.7402 del 28/03/2014, Rv.630141).
Nel caso di specie lo Statuto del Comune di Napoli prevede che “Spettano alla Giunta tutte le attribuzioni che, secondo la legge ed alla stregua delle previsioni di cui al vigente statuto ed ai regolamenti, non rientrano esplicitamente nelle competenze del Consiglio, del Sindaco, del Segretario, dei Dirigenti e degli organi di decentramento comunale” (art.40) ma non contempla un’esplicita riserva relativa al potere di affidare la rappresentanza in giudizio dell’ente locale.
Va inoltre tenuto conto che il Comune di Napoli è dotato di avvocatura comunale; di conseguenza non si pone il problema di individuare, in concreto, il soggetto cui affidare la difesa dell’ente locale, onde la delibera non è necessaria neppure a
,«
questo limitato fine. Al riguardo va infatti tenuto conto che la delibera autorizzativa alla costituzione in giudizio svolge la duplice funzione di esprimere la volontà dell’ente e di individuare il professionista in concreto incaricato della difesa giudiziale. Quando l’ente locale sia dotato di avvocatura interna e non intenda affidare la sua difesa ad professionista esterno, non è evidentemente richiesto alcun atto deliberativo specifico per il conferimento del mandato rappresentativo all’avvocatura comunale, in vista dell’inquadramento organico dell’ufficio -e quindi dei singoli professionisti che ne fanno partenell’organizzazione dell’ente locale.
Infine, occorre considerare che anche prima della sentenza delle S.U. n.12868 del 2005 questa Corte aveva affermato che “Quando il competente organo dell’ente pubblico sia stato debitamente autorizzato a resistere in giudizio per opporsi, senza limitazione alcuna, ad una domanda proposta contro l’ente medesimo, non è necessaria un’ulteriore autorizzazione per proporre i consentiti gravami contro le decisioni di primo grado ad esso sfavorevoli, dovendosi ritenere l’originaria autorizzazione sufficiente per tutti i gradi del giudizio” (Cass. Sez.L, Sentenza n.6062 del 16/06/1990, Rv.467774; conf. Cass. Sez.1, Sentenza n.4323 del 29/04/1999, Rv.525901).
Tale principio di ultrattività del mandato può essere utilmente richiamato, ad abundantiam, nel caso di specie, con la precisazione che non sussiste inammissibilità alcuna, considerato che il ricorso è corredato da procura speciale conferita al medesimo difensore che aveva assistito l’ente locale nei precedenti gradi di merito.
Alla luce degli orientamenti giurisprudenziali sopra richiamati, pertanto, l’eccezione sollevata dal controricorrente con la memoria ex art.378 c.p.c. va rigettata.
Passando ai motivi di ricorso, con il primo di essi il Comune di Napoli lamenta la violazione ed erronea interpretazione degli artt.118 e 132 c.p.c. in relazione all’art.360 n.3 c.p.c. perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente ritenuto corretto il richiamo, operato dal giudice di prima istanza, ad un proprio precedente, senza valorizzare le differenze tra la fattispecie oggetto di quel giudizio e quella oggetto della presente controversia. In particolare, ad avviso del ricorrente la Corte territoriale avrebbe dovuto rilevare che tra i due casi non vi era analogia, posto che nel primo contesto era stata evocata in giudizio anche RAGIONE_SOCIALE -non evocata, invece, nel presente giudizio- e considerato che ivi si discuteva anche di interessi moratori ex lege n.231/02 e di parcellizzazione del credito: entrambi profili non dedotti, invece, nel presente giudizio.
La censura è infondata. La Corte territoriale ha ampiamente motivato sul punto, dando atto di quanto affermato dal primo giudice, enumerando i motivi di appello ed illustrando le ragioni per cui ha ritenuto di confutarli specificamente. In particolare, ha chiarito che la ratio del rinvio per relationem operato dal Tribunale era da individuare nel fatto che sia in questo, che in quel giudizio, si discuteva dell’ampiezza della procura conferita dal Comune a RAGIONE_SOCIALE.aRAGIONE_SOCIALE e che “… ai fini del decisum e della corretta interpretazione del contenuto, per relationem, della decisione, le differenze segnalate dall’appellante … non assumevano alcuna rilevanza, posto che il nucleo centrale interessato dalla relatio col giudizio in esame non veniva intaccato dalle ulteriori questioni esaminate nell’atto” (cfr. pag.3 della sentenza impugnata).
Tale motivazione, autonoma e sostitutiva rispetto a quella resa dal Tribunale, non viene neanche adeguatamente attinta dal
motivo. Né appaiono pertinenti i richiami giurisprudenziali contenuti nella censura in esame, posto che essi confermano la censurabilità della motivazione per relationem nel solo caso di mera adesione, che non lasci individuare un percorso logicogiuridico autonomo a partire dalla disamina della fondatezza dei motivi di appello. Nel caso di specie, come già detto, la Corte territoriale ha dato atto del motivo per cui ha ritenuto condivisibile il richiamo al proprio precedente operato dal primo giudice, onde non si configura una mera adesione, bensì un percorso motivazionale autonomo, sufficiente a sostenere la decisione impugnata.
Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta la violazione e falsa interpretazione degli artt.1362, 1363, 1388, 1704, 1705, 1719 e 2697 c.c. in relazione all’art.360 n.3 c.p.c. perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente ritenuto che RAGIONE_SOCIALE potesse spendere il nome del Comune. Ad avviso del ricorrente, nel caso di specie si configurerebbe un mandato senza rappresentanza e quindi il controricorrente avrebbe dovuto indirizzare le proprie richieste economiche esclusivamente nei confronti di RAGIONE_SOCIALE, che gli aveva conferito il mandato ex art.77 c.p.c. Nella procura speciale conferita dal Comune a RAGIONE_SOCIALE in base al contratto di appalto vigente inter partes, infatti, non era prevista la spendita del nome dell’ente locale nella gestione dei rapporti professionali con i legali affidatari dei singoli contenziosi inerenti il patrimonio comunale.
Il motivo è inammissibile per difetto di specificità, posto che il ricorrente non riporta il contenuto della procura speciale di cui anzidetto, né delle procure conferite in concreto da RAGIONE_SOCIALEaRAGIONE_SOCIALE all’avv. COGNOME COGNOME né indica in quale momento del giudizio di merito detti documenti sarebbero stati acquisiti
agli atti. In proposito, occorre ribadire che “In tema di ricorso per cassazione, ai fini del rituale adempimento dell’onere, imposto al ricorrente dall’art. 366, primo comma, n. 6, cod. proc. civ., di indicare specificamente nel ricorso anche gli atti processuali su cui si fonda e di trascriverli nella loro completezza con riferimento alle parti oggetto di doglianza, è necessario che, in ossequio al principio di autosufficienza, si provveda anche alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame” (Cass. Sez. 3, Sentenza n.8569 del 09/04/2013, Rv. 625839; conf. Cass. Sez. 5, Sentenza n.14784 del 15/07/2015 Rv.636120; Cass. Sez. 6-1, Ordinanza n.18679 del 27/07/2017 Rv.645334; Cass. Sez. L, Sentenza n.4980 del 04/03/2014 Rv. 630291).
Inoltre, il motivo non attacca adeguatamente la specifica ratio contenuta a pag.6 della decisione, laddove si afferma che “non pare certo essere stato dedotto che il comune, nel tempo intercorrente fino alla cessazione del contratto di appalto, abbia mai messo in dubbio la legittimità dell’operato della RAGIONE_SOCIALE ad esso direttamente riferibile (art.1362 comma 2 c.c.)”. Il ricorrente infatti contesta tale argomento, limitandosi però ad affermare che la Corte territoriale avrebbe confuso tra il comportamento della parte posteriore al contratto e l’onere di contestazione del convenuto.
In realtà, il giudice di appello ha rilevato che l’ente locale non aveva mai dedotto di aver contestato l’operato di RAGIONE_SOCIALE -affermazione, questa, che il motivo in esame non attinge specificamente- e ha ravvisato in questo un comportamento successivo al contratto rilevante per
determinare la comune intenzione delle parti ai fini di quanto previsto dall’art.1362 secondo comma c.c.
L’operazione logica condotta dalla Corte territoriale è corretta e si risolve in un apprezzamento insindacabile in questa sede. Infatti “In tema di interpretazione del contratto, il procedimento di qualificazione giuridica consta di due fasi, delle quali la prima -consistente nella ricerca e nella individuazione della comune volontà dei contraenti- è un tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito, sindacabile in sede di legittimità solo per vizi di motivazione in relazione ai canoni di ermeneutica contrattuale di cui agli artt.1362 e ss. c.c., mentre la seconda -concernente l’inquadramento della comune volontà nello schema legale corrispondente- risolvendosi nell’applicazione di norme giuridiche può formare oggetto di verifica e riscontro in sede di legittimità sia per quanto attiene alla descrizione del modello tipico della fattispecie legale, sia per quanto riguarda la rilevanza qualificante degli elementi di fatto così come accertati, sia infine con riferimento alla individuazione delle implicazioni effettuali conseguenti alla sussistenza della fattispecie concreta nel paradigma normativo” (Cass. Sez. 1, Ordinanza n.29111 del 05/12/2017, Rv.646340; conf. Cass. Sez. 3, Sentenza n.420 del 12/01/2006, Rv.586972).
La censura contenuta nel motivo in esame si arresta alla prima fase del processo valutativo del giudice di merito e si confronta con il principio affermato da questa Corte, secondo cui la violazione dei canoni ermeneutici sussiste soltanto quando l’interpretazione del contratto fatta propria dal giudice di merito sia il frutto di un procedimento logico lato GLYPH artico nell’attribuzione agli elementi di giudizio di un significato estraneo al senso comune o in una successione incoerente di
argomenti. Infatti “In ogni caso, per sottrarsi al sindacato di legittimità, non è necessario che quella data dal giudice sia l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, sicchè, quando di una clausola siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte, che aveva proposto l’interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che ne sia stata privilegiata un’altra” (Cass.
Sez. 1, Sentenza n.4178 del 22/02/2007, Rv.595003; con?. Cass. Sez. 1, Sentenza n.5273 del 07/03/2007, Rv.595445; Cass. Sez. 3, Sentenza n.15604 del 12/07/2007, Rv.598587). Di conseguenza, è inammissibile la critica alla ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca in una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto da questi esaminati (Cass. Sez. 3, Sentenza n.2465 del 10/02/2015, Rv.634161; conf. Cass. Sez. 3, Sentenza n.10891 del 26/05/2016, Rv.640122).
In definitiva, il ricorso va rigettato e le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
Poiché il ricorso per cassazione è stato proposto dopo il 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi dell’art.1 comma 17 della Legge n.228 del 2012, che ha aggiunto il comma 1 -quater all’art.13 del Testo Unico di cui al D.P.R. n.115 del 2002, dell’obbligo di versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
PQM
la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in C 7.200, di cui C 200 per esborsi, oltre rimborso delle spese generali nella misura del 15°/0, iva e cassa avvocati come per legge.
Ai sensi dell’art.13 comma 1 -quater del D.P.R. n.115/2002, inserito dall’art.1 comma 17 della Legge n.228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art.1-bis dello stesso art.13.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione civile in data 13 novembre 2018.
Il Presidente
(NOME COGNOME)
Il Consigliere estensore
(S. Oliva)
DEPOSITATO !N CANCELLERIA
Roma, GLYPH 1 9 PA!?. 2019