Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 25437 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 25437 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 16/09/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 2033/2019 R.G. proposto da:
NOME COGNOME, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME;
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO COGNOME INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati COGNOME NOME COGNOME (CODICE_FISCALE, COGNOME (CODICE_FISCALE);
-controricorrente-
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO VENEZIA n. 85/2018 depositata il 06/06/2018.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 13/02/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
NOME COGNOME ha proposto opposizione avverso la delibera numero 19.9933 del 30 marzo 2017 con cui la Consob ha irrogato, con contestuale ingiunzione di pagamento, sanzione amministrativa pecuniaria nei confronti di più esponenti aziendali o dipendenti della Banca Popolare di Vicenza.
Con particolare riferimento ai fatti che hanno dato luogo al procedimento che si è concluso con la detta delibera n. 19933, oggetto della sentenza gravata, si rappresenta sinteticamente quanto segue. Nel corso del 2014 e 2015, la Banca Popolare di Vicenza ha sottoposto all’approvazione della Consob e poi pubblicato i seguenti Documenti di Registrazione:
Documento di Registrazione pubblicato il 9 maggio 2014;
-Documento di Registrazione pubblicato l’8 maggio 2015.
I due documenti di registrazione sono ambedue confluiti nell’offerta pubblicata l’8 maggio 2015.
Nei confronti di NOME COGNOME quale direttore generale della Banca, è stata applicata, ex art. 191 del TUF, una sanzione complessiva di € 80.000,00 per la violazione dell’art. 94, comma 2, tu incorsa nella pubblicazione di due prospetti informativi di base relativamente ad emissione obbligazionarie, rispettivamente pubblicati il 7 febbraio 2014 ed il 5 febbraio 2015 (sanzione così determinata in applicazione del cumulo giuridico ex art. 8, comma 1, della legge n. 689 del 1981, ritenuta la violazione più grave quella pubblicata l’8 maggio 2015.
Dallo svolgimento delle verifiche ispettive condotte dalla Consob presso Banca Popolare di Vicenza nel periodo 22 aprile 2015 – 24 febbraio 2016 è emerso che la banca ha posto in essere decisione e iniziative di varia natura, rivolta in gran parte a favorire il sostegno
alla domanda del proprio titolo azionario anche in vista dell’indagine effettuata nel corso del 2014 dalla Bce sui bilanci delle principali 128 banche europee in vista dell’inizio della Vigilanza unica, fissato per il 4 novembre, la quale, essendo diretta a valutare la quantità e la qualità del patrimonio di vigilanza, ha condotto la banca medesima a ricercare forme di rafforzamento dei requisiti patrimoniali e a creare l’apparenza di una maggiore solidità patrimoniale. Tali obiettivi sono stati tuttavia perseguiti attuando condotte illecite frutto anche di scelte aziendali riconducibili, secondo i rispettivi ruoli e responsabilità, ai principali livelli decisionali della Banca (anche quelle deputate al contatto con la clientela al dettaglio) senza che tali criticità siamo stati efficacemente contrastata dagli organi di vertice e dalle funzioni di controllo. Nel contesto in esame hanno assunto una rilevanza centrale sia le operazioni straordinarie sul mercato primario della banca (aumento di capitale e mini-aumento di capitale del 2013 e 2014, emissioni obbligazionarie) sia l’operazione di vendita di azioni proprie realizzate sul mercato secondario mediante operazioni in contropartita diretta tramite il Fondo Acquisto Azioni. Particolare rilevanza anche per dimensioni e diffusività, ha assunto in tale ambito il fenomeno dei cosiddetti finanziamenti correlati, ossia dei finanziamenti concessi alla clientela per l’acquisto di azioni banca popolare di Vicenza. I suddetti finanziamenti hanno consentito per lungo tempo ingenti acquisti azionari mediante i quali sarebbe stata creata l’apparenza di una maggiore solidità patrimoniale della banca anche in violazione dei presidi posti a tutela degli investitori.
In relazione ai fatti sopra è stato avviato dalla Divisione RAGIONE_SOCIALE, Ufficio Prospetti Non -Equity con lettera del 4 aprile
2016 procedimento sanzionatorio per la violazione del predetto articolo 94, comma 2, del TUF, per la mancata rappresentazione, nella relativa documentazione di offerta delle obbligazioni della Banca, di informazioni concernenti la sussistenza, l’entità e gli effetti del ‘Capitale finanziato’, inteso come fattispecie in relazione alla quale i clienti della BPVi hanno impiegato -per la sottoscrizione degli aumenti di capitale nonché per l’acquisto di azioni della Banca, nel periodo 1° gennaio 2012 -28 febbraio 2015 -somme rivenienti da finanziamenti erogati da quest’ultima correlati alla sottoscrizione o all’acquisto delle relative azioni. La contestazione è stata notificata a tutti i membri del Consiglio di amministrazione e del collegio sindacale della Banca, oltre che al Direttore Generale, al Vicedirettore Generale e alla stessa Banca, in qualità di responsabile in solido con gli autori della violazione.
La Commissione, sulla base delle risultanze istruttorie e valutate le deduzioni presentate, ha ritenuto accertata la violazione contestata e sopra descritta, adottando la menzionata delibera n. 19933 del 30 marzo 2017 con la quale ha applicato Sorato -in qualità di membro del collegio sindacale della Banca dal 14 maggio 2005 – la sanzione pecuniaria di € 80.000.
Avverso la detta delibera NOME COGNOME ha proposto opposizione alla Corte d’Appello di Venezia con atto notificato alla Consob il 26 maggio 2017; all’esito della discussione orale, la Corte di merito, definitivamente pronunciando, ha respinto l’opposizione, con la sentenza n. 85 del 6 giugno 2018.
In data 3 gennaio 2019, NOME COGNOME ha notificato alla Consob un ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza, chiedendone l’annullamento sulla base di tre motivi.
La Consob resiste con controricorso.
Le parti hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
a) Il primo motivo denunzia la violazione e/o la falsa applicazione, ex art. 360, comma 1, n.3 c.p.c., dell’art. 4 c. 10 TUF, degli artt. 22 c.3 e 24 c. 1,3 e 7 della legge n. 241/90 e dell’art. 53, par.1 della Direttiva 2013/36 UE.
L’attuale ricorrente aveva lamentato la lesione del proprio diritto di difesa, derivante dal fatto che la Consob, nella mole dei documenti acquisiti in sede ispettiva, aveva consentito l’accesso a quei soli documenti allegati alla relazione conclusiva.
La Corte d’appello ha ingiustamente disatteso tale ragione di censura in base al rilievo che i documenti, a cui si riferiva la censura, non furono posti a fondamento dell’addebito.
Il ricorrente sostiene che la corretta applicazione delle norme e dei principi in materia, come intesi dalla giurisprudenza costituzionale, imporrebbero che siano messi a disposizione dell’interessati la totalità dei documenti acquisiti dalla pubblica amministrazione, senza che abbia alcuna rilevanza la distinzione fra quelli in concreto utilizzati e quella ritenuti irrilevanti. Si imporrebbe, in altre parole, la esibizione integrale dei documenti, «considerato che dall’esame della documentazione acquisita in sede ispettiva, il ricorrente avrebbe potuto trarre elementi utili a supportare l’insussistenza dei presupposti per la sanzione amministrativa».
Il ricorrente, con il motivo in esame, censura inoltre l’ulteriore affermazione proposto al riguardo alla Corte d’appello, secondo cui l’accesso agli atti in funzione difensiva è destinato a prevalere sulle contrapposte istanze di segretezza e riservatezza, nei limiti dell’indispensabilità rispetto all’esercizio del diritto di difesa, il che esclude la possibilità di dare seguito a «una istanza generica –
quale quella avanzata dal ricorrente -di accesso generalizzato a tutta la documentazione in possesso dell’amministrazione, che non abbia concorso a fondare l’adozione del provvedimento finale impugnato». Secondo il ricorrente, la corte di merito, nel proporre tale considerazione, ha richiamato precedenti della giurisprudenza costituzionale e amministrativa, che non sono stati intesi nel loro esatto significato, come in definitiva chiarito dalla Corte di giustizia, secondo la quale si impone sempre un equilibrato contemperamento dei contrapposti interessi. In altre parole, le esigenze di riservatezza non sono automaticamente idonee a ostacolare la conoscenza di dati e documenti, quando tale conoscenza sia funzionale al pieno esercizio del diritto di difesa. In quanto alla rilevata genericità dell’istanza, si fa presente che non fu chiesto ‘l’accesso generalizzato a tutta la documentazione in possesso dell’amministrazione’ bensì «dei soli documenti indicati nei verbali allegati alla relazione ispettiva».
a)1. ─ Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato. In primo luogo, risulta del tutto generica l’allegazione circa la lesione del principio del contraddittorio, avendo questa Corte ribadito che per validamente allegare la violazione del contraddittorio occorre allegare e dimostrare una concreta ed effettiva lesione del diritto di difesa (Cass., Sez. Un., n. 20935 del 2009). Trattasi di una ricaduta del principio secondo cui (Cass. n. 8046/2019) le garanzie del contraddittorio previste per il procedimento sanzionatorio davanti alla CONSOB prima delle modifiche introdotte dalla delibera n. 29158 del 29 maggio 2015 della medesima CONSOB sono da ricondurre al livello proprio del contraddittorio procedimentale, di solito di tipo verticale, svolgendosi esso tra l’amministrazione e l’interessato su un piano non di eguaglianza, ma in funzione
collaborativa, partecipativa e non difensiva, non già di quello di matrice processuale, di tipo orizzontale, che riguarda due parti in posizione paritaria rispetto ad un decidente terzo e imparziale (nella specie, la S.C., dissentendo dall’interpretazione offerta dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 1596 del 2015, ha ritenuto che le menzionate garanzie fossero soddisfatte dalla previa contestazione dell’addebito e dalla valutazione, prima dell’adozione della sanzione, delle eventuali controdeduzioni dell’interessato, non essendo necessarie né la trasmissione a quest’ultimo delle conclusioni dell’Ufficio sanzioni amministrative della CONSOB né la sua personale audizione; conf. Cass. n. 20689/2018). Infatti, è opinione consolidata quella secondo, cui, soprattutto in caso di sanzioni non penali dal punto di vista sostanziale, il procedimento sanzionatorio della Banca d’Italia, ai sensi dell’art. 195 TUF, non viola l’art. 6, par. 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, perché questo esige solo che, ove il procedimento amministrativo sanzionatorio non offra garanzie equiparabili a quelle del processo giurisdizionale, l’incolpato possa sottoporre la questione della fondatezza dell'”accusa penale” a un organo indipendente e imparziale, dotato di piena giurisdizione, come la disciplina nazionale gli consente di fare tramite l’opposizione alla corte d’appello (Cass. n. 25141 del 2015, che richiama anche Corte europea dei diritti dell’uomo, 4 marzo 2014, COGNOME e altri c. Italia; Cass. n. 9371 del 2020; Cass. n. 16517 del 2020, per la quale è esclusa la diretta applicabilità, in tale ambito, dei precetti costituzionali degli artt. 24 e 111 Cost., invocabili solo con riferimento al processo che si svolge davanti al giudice), innanzi al quale l’incolpato può impugnare il provvedimento sanzionatorio con piena garanzia del diritto di difesa e del contraddittorio. La
doglianza appare priva di fondamento quanto alla violazione che si assume verificatasi nella fase procedimentale, mentre quanto all’analogo diniego ricevuto in sede giurisdizionale, come detto, la censura risulta del tutto generica ed inammissibile, in quanto priva dell’indicazione dei documenti (il cui oggetto specifico era evincibile dai processi verbali allegati alla relazione ispettiva), la cui mancata ostensione avrebbe pregiudicato il diritto di difesa, ed in tal senso il tenore della motivazione del giudice di appello ha correttamente ribadito e sottolineato come al ricorrente fossero stati messi a disposizione proprio quei documenti su cui si fondava l’impianto accusatorio della delibera impugnata. In modo pertinente la pronuncia ha richiamato i principi espressi dalla Corte costituzionale (sentenza n. 460 del 2000), laddove, nell’escludere l’incondizionata valenza del segreto d’ufficio nei confronti dell’interessato destinatario di un provvedimento sanzionatorio, il giudice delle leggi ha posto in rilievo che la sfera di applicazione dell’art. 4, comma 10, TUF, quale che ne sia l’effettiva estensione, certamente non comprende gli atti, le notizie e i dati in possesso della Consob “posti a fondamento di un procedimento disciplinare, sicché questi, nei confronti dell’interessato, non sono affatto segreti e sono invece pienamente accessibili: non soltanto nel giudizio di opposizione alla sanzione disciplinare, ma anche nello speciale procedimento di accesso regolato dall’art. 25 L. 7 agosto 1990 n. 241 (nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), strumento esperibile anche dall’incolpato nei procedimenti disciplinari, per orientare preventivamente l’azione amministrativa onde impedirne eventuali deviazioni” (cfr. Corte cost. n. 460 in motivazione). In via di fatto, poi, i documenti di cui trattasi erano stati acquisiti in date
diverse (come era emerso dai verbali allegati alla relazione ispettiva, nei quali è indicato l’oggetto specifico di ciascuno dei 2.801 documenti acquisiti dalla Consob) e riguardo ad essi non risultava introdotto alcuna domanda di accesso, limitata – invece agli ulteriori atti utilizzati ai fini della contestazione. In presenza di un giudizio di irrilevanza della richiesta di esibizione, la censura appare – anche nel merito – destituita di fondamento. A tal fine rileva poi proprio quanto ribadito dalla CEDU nella sentenza del 30/6/2011 C. 25041/07, richiamata dalla difesa del ricorrente, che ha escluso la violazione delle norme della Convenzione, osservando (cfr. punto 61) che il richiedente non aveva indicato quali elementi non fossero stati versati nel fascicolo e che avrebbero potuto contribuire alla sua difesa, il che escludeva (cfr. punto 63) che fosse stata validamente allegata l’offesa al contradditorio ed alla giustizia della procedura. Né la sentenza della Corte di Giustizia invocata da parte ricorrente (13 settembre 2018 pronunciata nel procedimento rubricato C594/2016 “RAGIONE_SOCIALE Banca d’Italia”) va di contrario avviso laddove al punto 37 nel richiamare la giurisprudenza consolidata, secondo cui “si deve adottare un’interpretazione restrittiva delle eccezioni, previste dalla direttiva 2013/36, al divieto generale di divulgare informazioni riservate (v., in tal senso, sentenza del 22 aprile 2010, Commissione/Regno Unito, C-346/08, FU :C:2010:213, punto 39 e giurisprudenza ivi citata), al punto 38 specifica che per escludere l’obbligo del segreto professionale, ai sensi dell’articolo 53, paragrafo 1, terzo comma, di detta direttiva, richiede che la domanda di divulgazione verta su informazioni in merito alle quali il richiedente fornisca indizi precisi e concordanti che lascino plausibilmente supporre che esse risultino pertinenti ai fini di un procedimento civile o commerciale in corso o
da avviare, il cui oggetto dev’essere concretamente individuato dal richiedente e al di fuori del quale le informazioni di cui trattasi non possono essere utilizzate. In altri termini, la domanda di divulgazione deve riguardare informazioni in merito alle quali il richiedente fornisca indizi precisi e concordanti che lascino plausibilmente supporre che esse risultino pertinenti ai fini di un procedimento civile o commerciale, il cui oggetto dev’essere concretamente individuato dal richiedente e al di fuori del quale le informazioni di cui trattasi non possono essere utilizzate”. Tutto ciò che è stato escluso in concreto nella specie, proprio sulla base di un bilanciamento effettuato dal giudice di merito tra l’interesse del richiedente a disporre delle informazioni di cui trattasi e gli interessi legati al mantenimento della riservatezza delle informazioni coperte dall’obbligo del segreto professionale.
b) Con il secondo motivo, proposto ex art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., si lamenta la violazione e/o la falsa applicazione dell’art. 3 degli artt. 2 c.1, lett. L), 6, 8 e 9 del Regolamento congiunto Consob/Banca d’Italia del 29 ottobre 2017 e degli artt. 2381 e 2396 c.c.
La corte d’appello ha fondato il giudizio di responsabilità del direttore generale sulla base delle norme del Regolamento congiunto Consob/Banca d’Italia, secondo cui il direttore generale partecipa alla funzione di gestione.
Al contrario l’esatta interpretazione delle norme indicate nella rubrica imponeva di fare riferimento alle disposizioni di vigilanza emanate dalla Banca d’Italia con le circolari n. 285 del 17.12.2013 e n. 263 del 27.12.2006, le quali attribuiscono esclusivamente all’organo di controllo e all’organo con funzione di supervisione strategica i compiti che il regolamento congiunto attribuisce al
direttore generale: il che vuol dire che il giudizio di responsabilità, confermato dalla Corte d’appello, è fondato su presupposti normativi identificati in modo non corretto. La decisione impugnata, inoltre, è incorsa nella violazione degli artt. 2381 e 2396 c.c. laddove ha ritenuto circostanza rilevante che sino al febbraio del 2015 la banca «sia stata priva di un amministratore delegato». La Corte d’appello non ha tenuto conto che le due funzioni non sono assimilabili, perché compito del direttore generale rimane comunque quello di dare esecuzione alla volontà dell’organo amministrativo, alla cui formazione non concorre.
Con il terzo e ultimo motivo si denunzia, ex art. 360, comma 1, n.3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 42, 43 c.p., art. 3 della legge n. 689/81.
La sentenza è oggetto di censura per avere riconosciuto la responsabilità dell’attuale ricorrente a titolo di dolo, in assenza dei presupposti. Si sostiene che negli illeciti omissivi il dolo non suppone solo la semplice violazione dell’obbligo, ma occorre che l’omissione «risulti psicologicamente cagionata dalla prospettiva mentale di dar luogo a un risultato offensivo». Al contrario, la sentenza impugnata, nel riconoscere il carattere doloso della violazione, ha omesso ogni verifica sul punto, accontentandosi del semplice riscontro dal mancato inserimento nel prospetto delle informazioni richieste, sul semplice presupposto soggettivo della conoscenza del fenomeno dei finanziamenti correlati.
b-c)1. ─ I motivi, da esaminare congiuntamente, sono infondati.
Essendo l’illecito ascritto al ricorrente assimilabile non ai reati di evento ma a quelli di pericolo, ai fini della sussistenza del dolo, è sufficiente che la volontà dolosa caratterizzi la sola condotta, che di per sé costituisce l’illecito (Cass. pen. n. 11566/2014).
La Corte d’appello ha riconosciuto la responsabilità del ricorrente a titolo di dolo, in quanto ha ritenuto, con accertamento in fatto qui non ripetibile, che egli era «ben a conoscenza, per il ruolo assunto, tanto del fenomeno del capitale finanziato, quanto del fatto che le operazioni di finanziamento correlato alla sottoscrizione/acquisto azione proprie sono espressamente vietato dall’ordinamento se non poste in essere secondo le condizioni stabilite dall’art. 2358 c.c. Ciò nonostante, omise informazioni rilevanti nella documentazione d’offerta, comportando una falsa rappresentazione in capo alla clientela, della situazione patrimoniale dell’emittente e dei relativi indicatori, nonché sullo strumento finanziario offerto al pubblico». La Corte d’appello ha proseguito nella propria analisi richiamando la delega conferita a Sorato RAGIONE_SOCIALE per la predisposizione dei prospetti e l’ampiezza della medesima, che rimetteva ai delegati anche la determinazione del contenuto dei medesimi. Ha quindi disatteso la considerazione dell’attuale ricorrente, fondata sulla circostanza che egli aveva sottoscritto solo una delle dichiarazioni di responsabilità, con cui si attestava che le informazioni contenute nei documenti di registrazione erano conformi ai fatti e non contenevano omissioni; secondo la corte di merito ciò non attenuava la responsabilità del ricorrente, «per avere omesso di inserire le doverose informazioni di cui di discute, essendo il medesimo tenuto a conoscere ogni atto del procedimento a formazione progressiva, che a quelle dichiarazioni portava». La corte di merito ha quindi esaminato e disatteso, con ricostruzione in fatto, l’assunto dell’attuale ricorrente, secondo il quale egli non aveva conoscenza del fenomeno dei finanziamenti correlati, richiamando analiticamente una pluralità di elementi che fornivano la prova di tale conoscenza. In esito a tale minuziosa ricostruzione
la corte di merito ha concluso nel senso che «i molteplici riscontri probatori evidenziano l’agire cosciente e volontario del Sorato, co -ideatore delle diverse modalità operative con le quali la banca ha dato luogo al fenomeno del capitale finanziato , nell’omettere nei DR 2014 e 2015 quella informazione indubbiamente necessaria alla formazione di un fondato giudizio di investimento da parte dei risparmiatori, in ragione delle significative ricadute che il fenomeno del ‘capitale finanziato’ ha sull’effettiva situazione patrimoniale e finanziaria dell’emittente, sui risultati economici, sulle prospettive della stessa e sui prodotti offerti. Va conclusivamente affermata la piena responsabilità dell’opponente, a titolo di dolo, per le violazioni ascrittegli».
Il complesso di tali considerazioni, da un lato, fa emergere il riferimento a una nozione di dolo in linea con la nozione ricavabile dal Codice penale e dagli insegnamenti della dottrina e della giurisprudenza, dall’altro, rendono palese l’irrilevanza delle considerazioni ‘in diritto’ proposte con il secondo motivo. È vero che la corte di merito ha richiamato il regolamento congiunto Consob/Banca d’Italia; nondimeno la considerazione della Corte veneta, nella parte in cui ha affermato che, nella specie, il ruolo del direttore generale andava verificato secondo il regolamento citato, non ha avuto effettiva incidenza sulla affermazione di responsabilità, giustificata, in via diretta e immediata, in forza dell’accertata violazione dell’art. 94, comma 2, TUF, operata dal Sorato nella sua veste di Direttore generale. Questa Corte ha chiarito che «in tema di responsabilità dei consiglieri non esecutivi di società autorizzate alla prestazione di servizi di investimento, è richiesto a tutti gli amministratori, che vengono nominati in ragione della loro specifica competenza anche nell’interesse dei
risparmiatori, di svolgere i compiti loro affidati dalla legge con particolare diligenza e, quindi, anche in presenza di eventuali organi delegati, sussiste il dovere dei singoli consiglieri di valutare l’adeguatezza dell’assetto organizzativo e contabile, nonché il generale andamento della gestione della società, e l’obbligo, in ipotesi di conoscenza o conoscibilità di irregolarità commesse nella prestazione dei servizi di investimento, di assumere ogni opportuna iniziativa per assicurare che la società si uniformi ad un comportamento diligente, corretto e trasparente» (Cass. n. 2620/2021). Or bene, se il dovere di agire informati è imposto agli amministratori non esecutivi, a maggior ragione il medesimo dovere è imposto al direttore generale, in quanto parificato agli amministratori esecutivi (Cass. n. 12108/2020).
d) In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, con addebito di spese.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello richiesto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore della controricorrente, liquidate in € 8.300,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in € 200,00 e agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo
unificato, pari a quello richiesto, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione civile della Corte suprema di cassazione il 13/02/2025.
Il Presidente NOME COGNOME