Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 16662 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 16662 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 14/06/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 15748 R.G. anno 2019 proposto da:
COGNOME NOME , in giudizio di persona ex art. 86 c.p.c., oltre che rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME, domiciliat o presso quest’ultimo ;
ricorrente
contro
RAGIONE_SOCIALE , rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, domiciliata presso il primo;
contro
ricorrente
nonché contro
COGNOME NOME , rappresentato e difeso dall’AVV_NOTAIO NOME COGNOME, domiciliato presso l’AVV_NOTAIO NOME COGNOME ;
contro
ricorrente e ricorrente incidentale nonché contro
COGNOME NOME ;
intimato
avverso la sentenza n. 1094/2018 depositata il 2 aprile 2019, della Corte di appello di Bologna.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 20 marzo 2024 dal consigliere relatore NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
La vicenda dedotta in causa dall’odierno ricorrente con l’atto introduttivo del giudizio avanti al Tribunale di Forlì può riassumersi come segue.
NOME COGNOME e NOME COGNOME avevano indotto NOME COGNOME a un’ iniziativa finanziaria descritta come di «blocco fondi», con «totale securizzazione del capitale», implicante la «possibilità di ottenere interessi di rilievo attraverso un conto vincolato e con operazioni da compiersi sotto l’egida di una banca». Il detto COGNOME aveva quindi investito la somma di due milioni di dollari statunitensi creando un trust con sede all’estero di cui era beneficiario egli stesso, mentre la qualità di trsustee era stata assunta da NOME COGNOME presso il cui studio in Ginevra era stato stipulato un «contratto fiduciario per la costituzione e gestione di un programma di investimento»; il negozio era stato concluso il 3 giugno 1998 con la partecipazione di COGNOME e di un altro soggetto, a nome COGNOME, quali mandatari di COGNOME, che peraltro era presente alla stipula ; l’incarico fid uciario era stato affidato a RAGIONE_SOCIALE, il cui amministratore, COGNOME, avrebbe dovuto seguire le successive attività da compiersi. Secondo COGNOME l’integrità del capitale sarebbe stata preservata da una clausola per la quale lo sblocco dei fondi era possibile solo immettendo nel conto, in sostituzione del denaro in ipotesi movimentato, una garanzia.
Il 3 giugno 1998 i fondi erano stati trasferiti a un conto fiduciario
presso LGT RAGIONE_SOCIALE AG e il successivo 5 giugno era stato concluso un ulteriore contratto per l’investimento del capitale con l’operatore RAGIONE_SOCIALE del Liechtenstein.
Il denaro era stato successivamente distratto, con un ordine di accreditamento impartito da COGNOME, su altro conto; tale conto risultava essere aperto a nome dello stesso COGNOME presso VP RAGIONE_SOCIALE.
Secondo COGNOME, RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE dovevano ritenersi coinvolte nel trust quali, co-trusteees , o trustees anomali o impliciti; comunque esse avevano concorso negli illeciti e negli inadempimenti posti in essere, essendo a conoscenza che i fondi non appartenevano a COGNOME.
NOME COGNOME ha dunque evocato in giudizio RAGIONE_SOCIALE per sentirla condannare al risarcimento dei danni in proprio favore. Domanda risarcitoria è stata altresì proposta nei confronti di COGNOME e COGNOME.
Nel giudizio, proposto avanti al Tribunale di Forlì, RAGIONE_SOCIALE ha eccepito che il conto movimentato risultava essere stato aperto a nome di NOME COGNOME e che questi aveva esplicitamente dichiarato per iscritto che i fondi appartenevano al suo patrimonio; ha rilevato, inoltre, che il capitale era stato riaccreditato presso VP RAGIONE_SOCIALE e reinvestito a seguito di un ulteriore contratto intercorso tra RAGIONE_SOCIALE e COGNOME e un diverso mandato fiduciario di COGNOME nei confronti di quest’ultimo .
Hanno rassegnato difese, costituendosi, anche COGNOME e COGNOME: il secondo, in particolare, ha eccepito la prescrizione del diritto al risarcimento del danno invocato dall’attore.
Con sentenza del 14 aprile 2015 il Tribunale romagnolo ha escluso la responsabilità della banca; è pervenuto ad opposta conclusione con riguardo a COGNOME, riconoscendo che questi non aveva validamente contrastato l’esistenza del mandato a concludere la specifica operazione finanziaria, oltre che la sua esecuzione, e rilevando, inoltre, che al detto convenuto doveva imputarsi un’omessa vigil anza; quanto a COGNOME, ha accertato che lo stesso aveva assunto la veste di fideiussore, onde
doveva ritenersi vincolato all’obbligo del pagamento delle somme portate da una scrittura recante la data del 9 luglio 1999 (scrittura in cui aveva riconosciuto la propria responsabilità e si era impegnato a restituire ratealmente quanto preteso). Nei confronti di questi due convenuti è stata resa pronuncia di condanna per gli importi, rispettivamente, di euro 2.057.306,21 e di euro 2.324.056,05, oltre interessi.
– La pronuncia è stata impugnata da COGNOME e da COGNOME.
Con sentenza del 2 aprile 2019 la Corte di appello di Bologna ha in parte riformato la sentenza di primo grado; fermo il rigetto delle domande proposte nei confronti di RAGIONE_SOCIALE, ha disposto che le somme cui erano tenuti COGNOME e COGNOME fossero maggiorate, oltre che degli interessi, della rivalutazione, a far data dalla domanda e fino al 23 gennaio 2015; ha poi condannato i predetti COGNOME e COGNOME a rivalere COGNOME delle spese del giudizio di primo grado e di quelle di appello e ha condannato COGNOME alla refusione delle spese processuali in favore di RAGIONE_SOCIALE
– Ricorre per cassazione COGNOME. Resistono con controricorso RAGIONE_SOCIALE e COGNOME; questi è autore di una impugnazione incidentale.
Sono state depositate memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
-Il ricorrente ha dedotto, in memoria, che l’impugnazione proposta andrebbe trattata in pubblica udienza.
Reputa invece il Collegio che il giudizio vada definito in sede camerale, dal momento che non pone questioni di diritto di particolare rilevanza, a norma dell’art. 375 c.p.c..
Ciò premesso, il ricorso principale consta di cinquantanove motivi.
I «primi» quarantotto investono le statuizioni adottate con riguardo al rapporto tra RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE.
1.1. Col primo motivo si deduce «nullità della sentenza in relazione all’art. 345 c.p.c».
La censura si dirige contro l’affermata tardività della produzione dell’odierno ricorrente avente ad oggetto oltre 1.200 documenti. La Corte di appello ha osservato: che doveva ritenersi intempestiva la produzione dei documenti che avevano come mittente o destinatario il ricorrente e per i quali lo stesso «non aveva specificamente allegato o dimostrato di non averli effettivamente inviati o ricevuti»; che non era stato dimostrato che lo stesso istante non avesse potuto produrre atti del procedimento penale francese mutuati da quello del Liechtenstein la cui conclusione era già oggetto di discussione in primo grado; che lo stesso valeva per i documenti apparentemente anteriori del procedimento francese; che in ogni caso non avrebbero potuto essere presi in considerazione elementi documentali che non fossero stati evidenziati in modo specifico, indicandone la rilevanza.
Secondo il ricorrente la sentenza avrebbe mancato di motivare quanto al fatto che egli non avrebbe potuto accedere agli atti del processo penale suddetto prima della costituzione di parte civile, allorquando il processo di appello era stato introdotto.
Il motivo è inammissibile.
Si fa questione di un vizio processuale: ebbene, in tema di errores in procedendo non è consentito alla parte interessata di formulare, in sede di legittimità, la censura di omessa motivazione (tra le tante: Cass. 2 settembre 2019, n. 21944; Cass. 10 novembre 2015, n. 22952; Cass. 16 dicembre 2005, n. 27728; 24 novembre 2004, n. 22130). Peraltro, la sentenza, nella parte in cui si è occupata della tardività della produzione, è munita di un suo corredo argomentativo e l’istante non ha nemmeno spiegato, nel rispetto del principio di autosufficienza, come abbia sottoposto la questione oggetto del motivo al Giudice di appello: anche a prescindere dal profilo di inammissibilità sopra indicato, dunque, non vi sarebbe modo di assumere che il Giudice del gravame abbia mancato di motivare su di una questione a lui realmente sottoposta.
1.2. Col secondo motivo si deduce «violazione e/o falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c. ».
Col terzo motivo si deduce «manifesto errore operato nella valutazione degli elementi temporali della documentazione risultante per tabulas in relazione all’art. 345 c.p.c.».
Sempre con riguardo ai documenti prodotti in appello si deduce che la parte istante aveva potuto ottenerne la disponibilità solo dopo la costituzione di parte civile.
I due motivi sono inammissibili.
Essi sono carenti di autosufficienza, in quanto non riproducono il contenuto degli atti che possano fornire a questa Corte elementi di giudizio sul tema oggetto della censura (e ciò avendo particolare riguardo alla costituzione di parte civile nel processo francese, alla datazione di essa e alla specifica inerenza dei documenti tardivamente prodotti a quel giudizio). La deduzione di errores in procedendo implica che la parte ricorrente indichi gli elementi individuanti e caratterizzanti il «fatto processuale» (Cass. Sez. U. 25 luglio 2019, n. 20181): la deduzione con il ricorso per cassazione di errores in procedendo , in relazione ai quali la Corte è anche giudice del fatto, potendo accedere direttamente all’esame degli atti processuali del fascicolo di merito, non esclude, infatti, che preliminare ad ogni altro esame sia quello concernente l’ammissibilità del motivo in relazione ai termini in cui è stato esposto, con la conseguenza che, solo quando ne sia stata positivamente accertata l’ammissibilità diventa possibile valutare la fondatezza del motivo medesimo e, dunque, esclusivamente nell’ambito di quest’ultima valutazione, la Corte di cassazione può e deve procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali (così Cass. 13 marzo 2018, n. 6014: cfr. pure: Cass. 25 settembre 2019, n. 23834; Cass. 29 settembre 2017, n. 22880; Cass. 8 giugno 2016, n. 11738; Cass. 30 settembre 2015, n. 19410).
I due mezzi di censura sono pure carenti di concludenza: e ciò in
quanto la parte istante comunque non spiega perché quei documenti sarebbero rilevanti, cosa che era già stata stigmatizzata dalla Corte di appello (a pag. 18 della sentenza impugnata) (cfr. infra , § 1.5)
1.3. Col quarto motivo si deduce «nullità della sentenza per non aver ritenuto sussistente un giudicato esterno».
Il ricorrente richiama un proprio atto difensivo in cui aveva fatto questione di un «giudicato esterno francese» quanto al fatto che esso COGNOME era da considerarsi vittima della frode internazionale, avendo risentito la perdita della somma investita «per effetto di attività truffaldina e criminale di banda internazionale volta anche al riciclaggio».
Il motivo è inammissibile.
Anch ‘ esso è carente di autosufficienza, in quanto la parte ricorrente manca di riprodurre la pronuncia del Giudice francese per la parte necessaria a rendere comprensibile il motivo e a dar conto della sua decisività (sull’autosufficienza, con riguardo al giudicato esterno, cfr. Cass. 19 agosto 2020, n. 17310, la quale si è occupata del caso, speculare rispetto a quello che qui viene in esame, della deduzione, in sede di legittimità, dell’inesistenza del giudicato esterno invece affermato dal giudice del merito). La genericità della censura assume rilievo non solo con riguardo al contenuto oggettivo del giudicato, ma, altresì, in relazione alla sua dimensione soggettiva, non essendo stata fornita alcuna indicazione quanto alle parti del presente giudizio che sarebbero state coinvolte in quello francese (profilo, questo, del resto evidenziato dalla Corte di appello, a pag. 19 della sentenza impugnata).
4. – Co l quinto motivo si deduce «nullità della sentenza per omessa motivazione in ordine al perché non si è proceduto ad acquisizione delle sentenze francesi».
La ricorrente si duole del mancato esercizio del potere di acquisire per rogatoria internazionale le pronunce che erano state prodotte, della cui originalità la Corte di appello avesse dubitato. Più precisamente,
secondo l’istante , RAGIONE_SOCIALE «sollevò questioni inesistenti ma sarebbe stato doveroso da parte della Corte d’Appello acquisire ex art. 213 c.p.c. le decisioni francesi attraverso una rogatoria internazionale qualora avesse nutrito dubbi sull’originalità delle copie depositate ».
La censura è inammissibile.
Come si vedrà (§ 1.11) la Corte di merito non ha ritenuto tardiva la produzione delle sentenze francesi. Ciò detto, la ricorrente fa questione della spendita del potere di acquisizione processuale di cui all’art. 213 c.p.c. basandosi su una mera illazione quanto all’autenticità dei documenti; ma l’esercizio di tale potere « costituisce una facoltà rimessa alla discrezionalità del giudice, il mancato ricorso alla quale non è censurabile in sede di legittimità » (Cass. 20 dicembre 2019, n. 34158; Cass. 15 febbraio 2011, n. 3720).
1.5. Col sesto motivo si deduce «violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c . in relazione all’art. 99 c.p.c. e agli oneri di allegazione delle parti in sede di produzione di documentazione».
La ricorrente dissente dall’affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, per cui non potevano «essere presi in considerazione elementi delle produzioni» che non erano stati «evidenziati in modo specifico, attraverso l’indicazione della rilevanza»: si duole, in particolare, che la sentenza impugnata non indichi «i documenti che sarebbero affetti da tale vizio e da siffatta problematica»
Anche tale motivo è inammissibile.
La richiamata asserzione del Giudice di appello integra una risposta della Corte di merito alla questione vertente sull’ammissibilità della produzione documentale.
Orbene, parte ricorrente non contesta la conformità al diritto dell’ affermazione del Giudice di appello circa l’inam missibilità di «produzioni non indicate in maniera specifica, come rilevanza e pertinenza» (cfr. pag. 35 del ricorso): lamenta che la decisione della Corte di merito abbia, in sintesi, contenuto generico. In tal modo
l ‘ stante tenta vanamente di svincolarsi dall’onere, che su di lui incombe, di conferire specificità al motivo di ricorso: onere che andava assolto spiegando a questa Corte quali fossero i documenti non ammessi con riferimento a quali si era dato conto della «rilevanza e pertinenza». Infatti, per valutare e decidere se una statuizione del giudice del merito è corretta, il giudice di legittimità deve prima apprezzare se il motivo di ricorso abbia l’attributo della specificità: e nel caso in esame tale specificità difetta, dal momento che la contestazione dell’enunciato non è corredata de ll’indicazione di precisi elementi, tratti dallo svolgimento del processo, che in concreto lo smentiscano. In conclusione, il ricorrente rovescia i termini della questione, giacché imputa alla Corte di appello di aver formulato una valutazione che egli stesso avrebbe dovuto confutare in questa sede attraverso deduzioni adeguatamente circostanziate.
1.6. Col settimo motivo si deduce «violazione e/o falsa applicazione dell’art. 204 c.p.c. ».
La censura investe la sentenza impugnata laddove ha ritenuto che con riferimento alle rogatorie richieste non era stato individuato in modo chiaro e preciso l’atto istruttorio specifico cui l’istanza era riferita, l’autorità competente cui richiederne l’esecuzione e la rilevanza specifica del mezzo istruttorio (tenuto conto del principio dispositivo che anima il processo civile, il quale non consente investigazioni esplorative o richieste generiche quali «l’acquisizione di tutti i documenti inerenti all’indagine», ovvero l’approfondimento di posizioni di soggetti o di movimentazioni contabili di cui non sia allegato un nesso preciso coi fatti di causa).
Il motivo è inammissibile.
Oggetto della rogatoria di cui all’art. 204 c.p.c. è l’esecuzione di un provvedimento istruttorio, non essendo certamente delegabile all’autorità estera l’ammissione della prova, che compete al giudice italiano: ciò implica che chi la richieda indichi a quest’ultimo anzitutto
l’atto da compiersi , rendendo con ciò possibile il preventivo vaglio quanto all’ammissibilità e rilevanza del mezzo istruttorio da esperirsi. In tal senso, è sicuramente corretta la sentenza impugnata laddove ha negato l’accesso alla rogatoria evidenziando come l ‘ istanza svolta risultasse essere carente dell’indicazione all’atto istruttorio da porre in essere, e della specifica rilevanza dell’acquisizione probatoria (oltre che dell’individuazione dell’ autorità richiesta). Ora, il ricorrente opera la riproduzione, in sei pagine, di una propria istanza di rogatoria depositata il 18 settembre 2018, ma non si raffronta in modo critico con la decisione impugnata: ciò che egli avrebbe dovuto fare enucleando gli elementi atti a sconfessare quanto asserito, sul punto, dalla Corte distrettuale. L’istante si limita ad assumere, nel corpo del motivo, che il Giudice del gravame avrebbe dovuto richiedere alla Corte di cassazione francese, al Tribunale e alla Corte di appello di Bordeaux copia di alcune sentenze e «alla Procura locale il supporto informatico»: deduzione, questa, che nel complesso è gravemente generica, nell’assenza di precisi riferimenti atti a circostanziare il tema del decidere, inidonea a dar conto della specificità della richiesta a suo tempo formulata alla Corte di Bologna e comunque mancante, per quanto concerne le sentenze, delle necessarie indicazioni atte a far comprendere che le stesse farebbero stato nel presente giudizio, per la coincidenza delle parti coinvolte in esso e nei giudizi francesi.
1.7. Con l’ottavo motivo si deduce «violazione di legge in relazione alla conferenza e pertinenza delle prove in relazione agli artt. 6 e 13 della Convenzione di Roma e 47 della Carta di Nizza».
L’ista nte su duole che non siano state ammesse, in appello, alcune prove per interrogatorio formale e per testimoni: prove che la Corte di appello ha ritenuto nuove e mancanti di alcun collegamento «a un qualche preciso ‘nuovo’ documento di cui chiara l’impossibilità di produrlo prima ».
Il motivo è inammissibile.
Esso suppone, infatti, l’ammissibilità della produzione documentale di cui si è parlato in precedenza: ammissibilità che la Corte di appello, con decisione non efficacemente censurata sul punto, ha invece escluso.
Peraltro, il motivo prospetta la violazione di norme contenute nel Trattato di Roma e nella Convenzione di Nizza; ma se una norma comunitaria è priva, come quelle invocate, di efficacia diretta, il rimedio da esperire non è il ricorso per cassazione, prospettandosi, semmai, la necessità di sollevare questione di legittimità costituzionale con riguardo alla norma nazionale che collida con essa (Cass. Sez. U. 6 aprile 2022, n. 11167, in motivazione).
1.8. Col nono motivo si deduce «violazione di legge per non aver disposto una consulenza tecnica d’ufficio al fine di dimostrare che i fondi erano in banca».
Oggetto del mezzo di censura è il diniego, opposto dalla Corte territoriale, all’amm issione di un esperimento giudiziale «volto a dimostrare la facilità di occultamento informatico di fondi presso un istituto di credito». Il ricorrente assume che sul punto avrebbe dovuto farsi luogo a consulenza tecnica d’ufficio onde comprendere «che i fondi in minima parte uscirono dalle casse ed in larga misura NOMEero spostati in server off balance ».
Anche tale motivo è inammissibile.
Il ricorrente denuncia per cassazione la violazione di legge ex art. 360, n. 3, c.p.c., avendo riguardo a non meglio precisate norme di diritto: ma l’onere di specificità dei motivi, sancito dall’art. 366, n. 4, c.p.c., impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all’art. 360, n. 3, c.p.c., a pena d’inammissibilità della censura, di indicare le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo,
non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare – con una ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzioni – la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa (Cass. Sez. U. 28 ottobre 2020, n. 23745; Cass. 6 luglio 2021, n. 18998). Si rileva, del resto, che la consulenza tecnica d’ufficio è mezzo istruttorio diverso dalla prova vera e propria, sottratto alla disponibilità delle parti e affidato al prudente apprezzamento del giudice di merito, rientrando nel suo potere discrezionale la valutazione di disporre la nomina dell’ausiliario (Cass. 13 gennaio 2020, n. 326; Cass. 21 aprile 2010, n. 9461; Cass. 5 luglio 2007, n. 15219): sicché è escluso, almeno di regola, che il giudizio circa la necessità o l’opp ortunità di ricorrervi sia sindacabile in sede di legittimità (Cass. 23 marzo 2017, n. 7472).
1.9. Col decimo motivo si deduce «omesso esame in relazione alla condotta processuale della banca ed argomenti di prova a favore dell ‘ impugnante».
Il motivo è inammissibile.
Il fatto di cui si denuncia l’omesso esame, a norma dell’art. 360, n. 5, c.p.c. è indicato dal ricorrente (pag. 50 del ricorso) in un’ «argomentazione di dolo o quam minus colpa provata»; l’istante riassume la censura osservando che la banca era tenuta a «rendere impossibile la frode prima e il riciclaggio poi che invece non impedirà, né interdirà». Non viene conseguentemente dedotto l’ omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8054): ci si limita ad affermare che la banca avrebbe dovuto ritenersi responsabile, stante il dovere, su di essa incombente, di fare in modo che la condotta distrattiva non venisse posta in atto.
1.10. Con l’undicesimo motivo si deduce «violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2043 c.c. in relazione agli artt. 2729 c.c. e agli
artt. 115 nonché 116 c.p.c.».
La Corte di appello ha respinto l’ottavo motivo di appello, vertente sulla prova del dolo di NOME, rilevando, anzitutto, essere pacifico che quest’ultima chiese ed ottenne da COGNOME la dichiarazione che i fondi appartenevano al suo patrimonio personale: dichiarazione, questa, che NOMEe espressa il 5 giugno 1998, contestualmente all’ordine di bonificare la somma di due milioni di dollari sul conto di VP RAGIONE_SOCIALE; il Giudice distrettuale, dopo aver inoltre rilevato che le sentenze straniere prodotte sembravano ritenere che COGNOME avesse assunto nell’intera vicenda la veste di parte lesa, e non di concorrente nella distrazione, ha evidenziato essere stato dimostrato che il conto acceso presso la stessa LGT era intestato al detto soggetto come persona fisica (e non quale rappresentante della fiduciaria RAGIONE_SOCIALE): evenienza, questa, che ridimensionava l’assunto di COGNOME secondo cui la banca svizzera «sapeva con certezza ab initio -se non del contratto tra lui e i suoi mandatari e ATC , rappresentata da COGNOME almeno della gestione fiduciaria che necessariamente ineriva la somma, e avrebbe acquisito la dichiarazione solo per precostituirsi una prova a discarico». Ha concluso che gli ulteriori indizi allegati da COGNOME non apparivano significativi ove si fossero considerate le contrarie evidenze sopraindicate: in particolare, la conoscenza dell’attività professionale di COGNOME non bastava da sola per affermare che RAGIONE_SOCIALE fosse a conoscenza del fatto che il denaro apparteneva al ricorrente, anche dopo che questi l’aveva accreditato su un conto personale dello stesso COGNOME senza causale alcuna, e che fosse vieppiù al corrente della presunta volontà di quest’ultimo di sottrarre il denaro trasferendolo a VP RAGIONE_SOCIALE.
A fronte di tali rilievi il mezzo di censura si risolve, nel suo insieme, in una sollecitazione alla revisione del giudizio di fatto, preclusa in questa sede. D’altro canto , la deduzione della violazione o falsa applicazione dell’art. 2043 c.c. appare non pertinente posto che il ricorrente prospetta un’erronea ricognizione della fattispecie concreta
mediante le risultanze di causa: profilo, questo, che inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito (Cass. 5 febbraio 2019, n. 3340; Cass. 13 ottobre 2017, n. 24155; Cass. 11 gennaio 2016, n. 195). In termini generali, infatti, la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involge apprezzamenti di fatto riservati al detto giudice il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (Cass. 4 luglio 2017, n. 16467) e dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass. 31 luglio 2017, n. 19011; Cass. 2 agosto 2016, n. 16056): col ricorso per cassazione, dunque, la parte non può rimettere in discussione, proponendo una propria diversa interpretazione, la valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie operate dai giudici del merito (Cass. 7 dicembre 2017, n. 29404; Cass. 7 aprile 2017, n. 9097).
Né è concludente la censura che investe l’uso del mezzo indiziario , visto che « e presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice » ex art. 2729, comma 1, c.c. e questa Corte ha avuto conseguentemente modo di evidenziare che spetta al giudice di merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni semplici, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità (Cass. 5 agosto 2021, n. 22366, la quale precisa, poi, che la censura per vizio di motivazione in ordine all’utilizzo o meno del ragionamento presuntivo non può limitarsi a prospettare l’ipotesi di un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve fare emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio; cfr. pure: Cass. 26 febbraio 2020, n. 5279; Cass. 27 ottobre 2010, n. 21961;
sempre sulle prerogative del giudice di merito con riferimento alla prova per presunzioni, cfr., di recente, non massimate in CED sul punto: Cass. 5 febbraio 2024, n. 3205; Cass. 29 gennaio 2024, n. 2620; Cass. 24 gennaio 2024, n. 2370; Cass. 17 gennaio 2024, n. 1793).
Parimenti inammissibile è la deduzione della violazione o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c.. Infatti, per dedurre in cassazione la violazione dell’art. 115 c.p.c. occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c.; la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è poi ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo «prudente apprezzamento», pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (Cass. Sez. U. 30 settembre 2020, n. 20867; Cass. 9 giugno 2021, n. 16016).
1.11. Col dodicesimo motivo si deduce «nullità della sentenza per manifesta contraddizione della motivazione in relazione all’art. 132
c.p.c.»
Col tredicesimo motivo si deduce – ancora «violazione di legge per manifesta contraddizione della motivazione in relazione all’art. 132 c.p.c.».
Rileva parte ricorrente che la Corte di appello non avrebbe potuto ritenere tardive le produzioni di documenti per poi fare uso degli argomenti ricavati dai detti scritti. La censura ha ad oggetto il brano della sentenza impugnata riassunto al paragrafo che precede, e relativo al ruolo che, secondo le sentenze straniere, sarebbe stato assunto da COGNOME, nella vicenda oggetto del giudizio.
I due motivi sono inammissibili.
Non è affatto vero che la Corte di merito abbia dichiarato inammissibile la produzione delle sentenze. Il Giudice distrettuale non risulta aver mai affermato che la produzione delle dette pronunce risulterebbe essere tardiva . D’altro canto, come si legge a pagg. 17 e 18 della sentenza impugnata, la declaratoria di inammissibilità per tardività della produzione si riferisce ai documenti anteriori al maturare delle preclusioni istruttorie in primo grado, per i quali l’appellante non aveva dimo strato l’impossib ilità di produrli prima, e dunque non anche le sentenze francesi, tutte pronunciate, secondo quanto riferisce lo stesso ricorso (cfr. pag. 32, nonché pagg. 121 e ss.) a partire dal 18 novembre 2015 (dopo, quindi la pronuncia della sentenza del Tribunale di Forlì), allorché le decadenze istruttorie in primo grado erano maturate. E infatti, la Corte di appello, nel riferirsi ai documenti anteriori alla preclusione istruttoria, espressamente esclude le sentenze (cfr. pag. 18 della sentenza impugnata, ove il tema della carente dimostrazione dell’impossibilità della produzion e è riferito agli atti apparentemente anteriori del procedimento francese, ma «non le sentenze»).
1.12. Col quattordicesimo motivo si deduce «nullità della sentenza per non aver esaminato un capo oggetto di affermazione di
colpa della banca ex art. 1176, comma 2, c.c. nonché ex art. 2043 c.c. come soggetto che ha un ruolo di garanzia del sistema, dovendosi respingere dall’interno iniziative illegali, o omissione di un fatto assolutamente decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti».
Il mezzo di censura consta della trascrizione di venticinque pagine dell’atto di appello, per poi concludersi con queste parole: «la Corte di appello doveva pronunciarsi su questo punto e non lo ha fatto».
Il motivo è inammissibile.
Il principio di specificità di cui all’art. 366, n. 4 c.p.c. richiede per ogni motivo, oltre all’indicazione della rubrica, la puntuale esposizione delle ragioni per cui è proposto nonché l’illustrazione degli argomenti posti a sostegno della sentenza impugnata e l’analitica precisazione delle considerazioni che, in relazione al motivo, come espressamente indicato nella rubrica, giustificano la cassazione della pronuncia (Cass. 18 agosto 2020, n. 17224). Non soddisfa tali condizioni un motivo di cassazione che si concreta nella sostanziale reiterazione di una doglianza di appello su cui il giudice del gravame ha pronunciato e che manca della puntuale indicazione delle parti della sentenza impugnata che si intende sottoporre a critica, nonché delle ragioni della censura.
Si osserva, peraltro, che le questioni cui fa riferimento il ricorrente riproducendo l’atto di appello paiono poste con l’ottavo motivo di gravame, che la Corte di appello ha espressamente respinto, motivando.
1.13. Col quindicesimo motivo si deduce «omesso esame di un capo o oggetto di affermazione di colpa della banca ex art. 1176, comma 2, e 2043 c.c.».
Il ricorrente richiama la propria memoria di replica in cui aveva esposto che RAGIONE_SOCIALE era a conoscenza che il denaro proveniva da COGNOME, che ACT e COGNOME erano conosciuti dalla banca quali meri operatori professionali e che «cioè si trattava di un trust e non di un quisquis de
populo ».
Il motivo è inammissibile.
L’istante si intrattiene sul contratto di trust e sulla figura del trustee ma il mezzo pecca di astrattezza, in quanto, anche in questo caso, non indica le parti della decisione impugnata che sono sottoposte a critica. In più, l’istante denuncia l’omesso esame di fatto decisivo, senza considerare che chi fa valere il vizio di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c. deve indicare il «fatto storico», il cui esame sia stato omesso, il «dato», testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il «come» e il «quando» tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua «decisività», fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, nn. 8053 e 8054, citt.; Cass. 29 ottobre 2018, n. 27415, cit.).
1.14. Col sedicesimo motivo si deduce «violazione degli artt. 2697 e 2729 c.c. in relazione al dolo della banca».
Anche tale motivo è inammissibile.
Esso si risolve nella perorazione di una diversa lettura del materiale probatorio che è compendiata nell’affermazione per cui , secondo il ricorrente, «sussiste la violazione degli artt. 2697 e 2729 c.c.» in quanto dall’esame della documentazione richiamata nel motivo emergerebbe «come LGT RAGIONE_SOCIALE sapesse l’origine del denaro che in causa non conferma mentendo clamorosamente».
Già si è detto dei limiti che incontra il giudizio di legittimità a fronte della prova per presunzioni. Con riguardo al principio dell’onere della prova, che si deduce essere stato disatteso, è sufficiente ricordare che violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., è configurabile soltanto
nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. 31 agosto 2020, n. 18092; Cass. 29 maggio 2018, n. 13395; Cass. 17 giugno 2013, n. 15107).
1.15. Col diciassettesimo motivo si deduce «violazione e/o falsa applicazi one dell’art. 2043 c.c. in relazione all’art. 2697 c.c. con specifico riferimento all’identificazione del beneficiario dell’operazione economica ed al valore degli atti di formazione unilaterale».
Si oppone che il diritto italiano esclude che la dichiarazione resa da COGNOME -definita «dichiarazione solitaria autoreferenziale» e riferita all ‘essere la somma investita parte del patrimonio personale del predetto -potesse avere valore probatorio. Si assume che la stessa andava valutata secondo la legge italiana a mente dell’art. 62 l. n. 218/1995.
Il motivo è inammissibile.
Esso non si raccorda con la sentenza impugnata, nella quale non è affatto negato che il valore della richiamata dichiarazione andasse apprezzato sulla base del diritto italiano. Il ricorrente non spiega, poi, per quale ragione alla stregua del nostro ordinamento andrebbe esclusa l’efficacia probatoria della dichiarazione di un soggetto terzo, che non è parte del giudizio. In termini generali, difatti, nell’ordinamento processuale vigente manca una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova, sicché il giudice può legittimamente porre a base del proprio convincimento anche prove cd. atipiche, quali le dichiarazioni scritte provenienti da terzi (Cass. 18 maggio 2018. n. 12179; Cass. 1 settembre 2015, n. 17392).
1.16. Col diciottesimo motivo si deduce «violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1173 c.c. in relazione al potere di qualificazione
della fattispecie concessa al giudice di merito ex art. 112 c.p.c.».
Pure col diciannovesimo motivo si deduce «violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1173 c.c. in relazione al potere di qualificazione della fattispecie concessa al giudice di merito ex art. 112 c.p.c.».
Secondo il ricorrente la Corte di appello avrebbe dovuto o potuto «applicare, quantomeno in via alternativa, ove non avesse inteso riconoscere la responsabilità extracontrattuale dell’intermediario, la nozione di contatto sociale qualificato», oppure adottare «la tesi esposta dall’AVV_NOTAIO in concorrenza o in alternativa del c.d. contratto ad effetti protettivi».
I due motivi sono inammissibili.
Il ricorrente non spiega se e come il tema della qualificazione, nei termini indicati, della domanda attrice, di cui la sentenza impugnata non parla, fosse stato introdotto nel giudizio di appello. Ciò detto, ove con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso stesso, di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (Cass. 9 agosto 2018, n. 20694; Cass. 13 giugno 2018, n. 15430). D ‘ altro canto, in termini generali, il giudice non può procedere d’ufficio, in sede di gravame, a una qualificazione della domanda diversa da quella compiuta dal primo giudice e non impugnata, stante la preclusione del giudicato perfezionatosi sul punto (Cass. 22 maggio 2017, n. 12843; cfr. pure: Cass. 21 dicembre 2015, n. 25609; Cass. 3 luglio 2014, n. 15223).
Le censure sulla qualificazione della domanda appaiono, del resto, pure carenti di decisività, visto che, con specifico riguardo al tema
dell’imputabilità, la sentenza impugnata non si fonda sulla mancata prova della colpevolezza della condotta dannosa, ma sul positivo ri scontro dell’insussistenza di essa (pag. 26 , ove si osserva che gli indici negativi del dolo valevano ad escludere anche la colpa): e lo stesso argomentare del ricorrente appare, sul punto, connotato da genericità, visto che l’istante si limita ad affermare che la diversa qualificazione avrebbe implicato uno «schema probatorio ed allegatorio più favorevole all’impugnante».
1.17. Col ventesimo motivo si deduce, in via subordinata, violazione o falsa applicazione dell’art. 2043 c.c. .
Il ricorrente contesta quanto affermato dalla Corte di appello con riferimento al riciclaggio: si allude al passaggio della motivazione in cui il Giudice distrettuale ha ritenuto generico il riferimento operato dall’appellante oggi ricorrente alla normativa antiriciclaggio, osservando, inoltre, che al più il riciclaggio «si sarebbe verificato dopo il trasferimento distrattivo da LGT a VP RAGIONE_SOCIALE, che costituiva secondo l’appellante l’illecito presupposto».
Il motivo è inammissibile.
Esso non si misura con la sentenza impugnata. Il ricorrente reputa che secondo la Corte di appello LGT potesse «dirsi esente da qualsiasi profilassi antiriciclaggio» e imputa al Giudice distrettuale di non aver considerato le gravissime omissioni dell’istituto di credito il quale «aveva l’obbligo di impedire vuoi l’appropriazione indebita di J.C. COGNOME, vuoi la distrazione, vuoi il riciclaggio». Nella sentenza impugnata è però chiarito che nessuna attività illecita NOMEe compiuta prima che il denaro affluisse presso VP RAGIONE_SOCIALE e che, pertanto, il riciclaggio non poteva configurarsi prima di tale frangente.
Sotto altro riflesso il motivo è inammissibile in quanto la denuncia di violazione o falsa applicazione dell’art. 2043 c.c. implicava si deducesse che, in relazione al fatto accertato, la norma non fosse stata applicata quando doveva esserlo, ovvero che lo fosse stata quando non
si doveva applicarla, ovvero che fosse stata male applicata (Cass. 15 dicembre 2014, n. 26307; Cass. 24 ottobre 2007 n. 22348); conseguentemente, la censura avrebbe dovuto articolarsi secondo quanto chiarito al § 1.8, muovendo dal dato precettivo del cit. art. 2043 c.c.: ciò che è però mancato.
1.18. Col ventunesimo motivo si deduce «violazione o falsa applicazione dell’art. 2043 c.c. in relazione agli artt. 2733 e 2734 c.c.».
Col ventiduesimo motivo si deduce «violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2700 c.c. in relazione all’art. 123 c.p.c.».
Col ventitreesimo motivo si deduce «violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2734 c.c.».
Si legge nella sentenza impugnata che il legale rappresentante di RAGIONE_SOCIALE aveva dichiarato, in sede di interrogatorio formale: che «la banca non era a conoscenza che il denaro non appartenesse ad ATC»; che la banca sapeva che il denaro proveniva da COGNOME, il quale aveva effettuato un versamento, ma non sapeva a chi appartenesse il denaro; che l’istituto di credito ignorava l’esistenza di un trust tra COGNOME e ATC e che i fondi fossero bloccati. La Corte di appello ha rilevato che, lette nel loro insieme, tali affermazioni negavano la pretesa ammissione di conoscenza dell’appartenenza del denaro ad ATC e, per il tramite di essa, a COGNOME; ha ritenuto che fondatamente potesse ipotizzarsi un’errata trascrizione o traduzione delle dichiarazioni e ha rilevato che andava comunque applicato l’art. 2734 c.c., ultima parte , stante le contestazioni che erano state operate.
Il ricorrente assume, col ventunesimo motivo, che a norma dell’art. 5 di una legge del Liechtenstein (identificata a pag. 25 della sentenza), la banca avrebbe dovuto identificare il beneficiario e deduce che , d’altro canto, la Corte di appello aveva riconosciuto l’incertezza sull’origine del denaro : evenienza, questa, che confermava non essere state «adempiute correttamente tutte le procedure interne previste in simili casi dalla legge del Principato del Liechtenstein».
Ora, la Corte di merito ha esaminato il supposto valore confessorio delle dichiarazioni del legale rappresentante di RAGIONE_SOCIALE avendo riguardo al tema della consapevolezza, da parte della società, che i fondi movimentati da COGNOME appartenevano ad ATC: e ha negato che sul punto fosse stata resa confessione. Poiché sfugge al sindacato di legittimità l’accertamento circa la natura confessoria delle dichiarazioni delle parti compiuto dal giudice del merito (Cass. 24 gennaio 2019, n. 2048; Cass. 12 giugno 1985, n. 3524), ci si deve arrestare a una semplice presa d’atto : quella per cui l’interrogatorio formale non ha dato conferma della conoscenza, in capo a RAGIONE_SOCIALE, dell’intestazione fiduciaria della somma ad ATC, come invece (cfr. pag. 22 della sentenza impugnata) aveva sostenuto COGNOME in sede di appello. Quanto alle ulteriori considerazioni svolte dalla Corte distrettuale sul tema dell’applicazione dell’art. 2734 c.c., esse sono prive di decisività, in quanto nulla aggiungono e nulla tolgono al dato dell’accertata inesistenza della dichiarazione confessoria che qui interessa: in tal senso, il ventiduesimo e il ventitreesimo motivo difettano di concludenza.
Il ricorrente intenderebbe, in questa sede, valorizzare le dichiarazioni del legale rappresentante di RAGIONE_SOCIALE alla luce del richiamato obbligo, gravante sulla banca, di identificare il beneficiario dell’operazione. Non risulta, tuttavia, che la domanda risarcitoria si basasse sull’omessa identificazione del beneficiario reale dell’operazione, piuttosto che sulla mancata apposizione di vincoli (il «blocco fondi») alla disposizione della provvista: la pronuncia impugnata non reca traccia di una tale causa petendi della domanda attrice (cfr., in particolare, pagg. 2 s.), che avrebbe dovuto essere prosp ettata nell’atto introduttivo del giudizio, o, al più tardi, nel termine assegnato per la definizione del thema decidendum in primo grado; né il ricorrente fornisce indicazioni utili al riguardo. Del resto, la Corte di appello ha preso in esame, in altra parte della decisione, il profilo
relativo all’obbligo identificativo previsto dalla legge del Liechtenstein non in quanto si ritenesse a ciò tenuta in ragione della proposizione di una domanda basata sul mancato rispetto di tale normativa. Nella sentenza è spiegato che RAGIONE_SOCIALE richiese a COGNOME una dichiarazione circa la provenienza del denaro e che questi ebbe a dichiarare, in data 5 giugno 1998, che i fondi appartenevano al suo patrimonio personale (sentenza impugnata, pag. 20). L’acquisizione di tale informazione è stata tuttavia presa in considerazione non perché lo esigesse la domanda risarcitoria, quanto, piuttosto, per dar conto di come la richiesta e la dichiarazione non fossero «sintomo del dolo allegato, ma casomai cautela in ordine al contenuto della transazione» (pag. 25 della sentenza): l’argomento è speso, cioè, per replicare a quanto era stato dedotto dal ricorrente quanto alla malafede di RAGIONE_SOCIALE, la quale, secondo la prospettazione attorea, si sarebbe procurata la dichiarazione solo per precostituirsi una prova a favore (cfr. §1.10).
Anche il ventunesimo motivo va dunque disatteso.
1.19. Col ventiquattresimo motivo si deduce «nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c. c omportante error in procedendo ».
La censura investe la pronuncia della Corte di appello con riguardo alla trattazione del l’ottavo motivo di gravame, di cui al § 1.10. Mette conto di aggiungere, qui, che il Giudice distrettuale ha osservato come la condotta posta in essere da COGNOME, il quale, successivamente al trasferimento del capitale da RAGIONE_SOCIALE a VP RAGIONE_SOCIALE non vi si era opposto (limitandosi a richiedere la garanzia del «blocco», rifiutata dalla seconda banca), avesse il portato di una ratifica dell’operato di RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE con riguardo al nominato spostamento dei fondi.
Asserisce COGNOME che la questione relativa alla ratifica NOMEe rilevata d’ufficio.
Il motivo è inammissibile.
Vale quanto sopra osservato con riguardo all’operatività del
principio di autosufficienza nella materia dei vizi processuali (§ 1.2; per un’applicazione del principio con riguardo all’extrapetizione e all’ultrapetizione, cfr. Cass. 23 gennaio 2004, n. 1170). Peraltro, l’assunto del ricorrente è smentito dalla sentenza impugnata (pag. 23), in cui si legge che RAGIONE_SOCIALE ebbe a sollevare un’eccez ione incentrata sulla condotta, di sostanziale acquiescenza, posta in essere da COGNOME successivamente al trasferimento della somma.
1.20. Col venticinquesimo motivo si deduce «violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1399 c.c. d i cui, sulla scorta delle stesse indicazioni della Corte, non esistevano le condizioni».
Si sostiene che la ratifica avrebbe dovuto attuarsi per iscritto, che essa avrebbe dovuto basarsi su «espressioni assolutamente inequivocabili», che la stessa avrebbe dovuto coinvolgere VP RAGIONE_SOCIALE e che non esisteva «prova di conoscenza del contraente o della banca verso cui i fondi sarebbero stati trasferiti».
Il motivo è nel complesso infondato.
Sul piano del diritto nazionale, invocato dal ricorrente, la ratifica che viene in esame è quella contemplata dall’art. 1711 , comma 1, c.c.: questa è difatti diretta a sanare l’eccesso del mandato riconducendo l’atto eccedente all’interno dell’area del rapporto di gestione; a tale ratifica il terzo VP RAGIONE_SOCIALE doveva pertanto restare estraneo. Sotto il profilo formale, poi, la ratifica che qui viene in esame non risulta correlata alla spendita di un potere rappresentativo (potere di cui la sentenza non parla e che il ricorrente non si mostra in grado di argomentare attraverso la prospettazione dell’agire del mandatario in nome altrui): correlativamente la ratifica, al pari del mandato, non era soggetta a rigori di forma (infatti, nemmeno il mandato senza rappresentanza per l’acquisto di beni immobili necessita della forma scritta: per tutte, Cass. 28 ottobre 2016, n. 21805); la stessa ratifica d i cui all’art. 1399 c.c. è condizion ata all’ osservanza delle forme prescritte per la conclusione del negozio posto in essere dal falsus
procurator (comma 1 dell’articolo) e nella fattispecie si controverte di una semplice operazione di trasferimento di fondi, per il cui valido compimento non è contemplato alcun obbligo documentativo. Quanto al resto, le censure sollevate hanno ad oggetto questioni di fatto che sfuggono al sindacato di legittimità.
1.21. Col ventiseiesimo motivo si deduce «violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2043 e dell’art. 1711 c.c. ».
Il motivo ripropone la questione relativa all’accertamento della titolarità dei fondi, di cui si detto al § 1.18, e a cui deve perciò rinviarsi.
1.22. Col ventisettesimo motivo si deduce «violazione e/o falsa applicazione della Convenzione dell’Aja sul trust , artt. 11 e 13».
Con questo mezzo la sentenza impugnata è censurata per «non aver ritenuto il trust implicito come, per l’appunto, un trust non volontario»: il tema è quello dell’asserito coinvolgimento di LGT in un trust con COGNOME e COGNOME. Si sostiene, al riguardo, che «un trust può essere esistente anche se non ‘formalmente’ costituito perché sussiste voluntas evincibile dal testo del contratto». La doglianza è incentrata sull’asserito disconoscimento di alcune figure di trust , quali il trust implicito, ovvero il resulting trust , e sul conseguente diritto alla rivendicazione dei beni previst o dall’art. 11, lett. d) della Convenzione dell ‘A ja sul trust (approvata con l. n. 364 del 1989) per l’ipotesi in cui il trustee abbia confuso i beni del trust con i suoi.
Il motivo è inammissibile.
Esso non coglie la ratio decidendi : la Corte di appello ha osservato come il Tribunale, pur non negando figure collaterali di trust previste dal diritto del Principato del Liechtenstein, le avesse ritenute in concreto insussistenti e ha osservato, con particolare riguardo al resulting trust , essere risultata indimostrata l’affermazione dell’appellante circa il delinearsi di elementi di fatto atti a dar ragione di tale figura.
1.22. Col ventottesimo motivo si deduce «violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., in relazione a circostanze emergenti da
sentenze estere che, se non formanti un giudicato esterno avevano valore fortemente indiziario, trascurato ex art. 2729 c.c. perché dimostravano come, senza la complicità dell’istituto di credito, non si sarebbero potuti attivare i crimini ai danni dei risparmiatori, fra cui l’AVV_NOTAIO».
Il motivo si riassume in ciò: dagli atti dei processi svoltisi nel Liechtenstein e in Francia era emerso che il ricorrente era la persona offesa di fatti di reato qualificati dagli inquirenti come «truffa in banda organizzata». Tale attività non avrebbe potuto compiersi senza la complicità di RAGIONE_SOCIALE alla quale competeva «il dovere di impedire ogni attività di imprese inesistenti». In tal senso, la Corte di appello avrebbe violato l’art. 2729 c.c. omettendo di valutare circostanze rilevanti sul piano indiziario: il fatto che, secondo le sentenze francesi, COGNOME e RAGIONE_SOCIALE operassero attraverso società prive di esistenza reale; la circostanza per cui nei processi svoltisi all’estero COGNOME era stato ammesso come parte civile; il dato per cui «la questione fosse nota in un ambito ristrettissimo, qual è il Principato del Liechtenstein.
Il motivo è inammissibile.
Deve rinviarsi a quanto sopra osservato (§ 1.10) sui limiti del sindacato di legittimità quanto a ll’uso, o al mancato uso, del ragionamento presuntivo.
1.23. Col ventinovesimo motivo si deduce «nullità della sentenza per omessa motivazione specifica e non contraddittoria sulla posizione -secondo i giudici francesi – di NOME COGNOME ».
Il ricorrente lamenta che la Corte di appello non abbia tenuto conto di quanto da lui dedotto in comparsa conclusionale.
Il motivo è infondato.
Onde assolvere all’onere di adeguatezza della motivazione, il giudice di appello non è tenuto ad esaminare tutte le allegazioni delle parti, essendo necessario e sufficiente che egli esponga concisamente le ragioni della decisione, così da doversi ritenere implicitamente
rigettate le argomentazioni logicamente incompatibili con esse (Cass. 9 febbraio 2021, n. 3126; Cass. 2 dicembre 2014, n. 25509).
1.24. Col trentesimo motivo si deduce «nullità della sentenza in relazione alla perizia degli esperti che non è stata considerata».
Il motivo fa cenno a un documento (recante una consulenza redatta da esperti austriaci) da cui – a detta dell’istante sarebbe emerso che COGNOME era stato destinatario di attività corruttiva.
Il mezzo è inammissibile.
Ancor prima di osservare che anche il detto scritto rientra tra quelli che la Corte di appello non ha ammesso e che il motivo risulta comunque carente di autosufficienza (cfr. § 1.22), deve evidenziarsi che non è affatto chiaro quale sia il vizio (genericamente ricondotto all’ipotesi dell’art. 360, n. 4, c.p.c.) che il ricorrente abbia inteso denunciare. Manca, in altri termini, l’analitica precisazione delle considerazioni che, in relazione al motivo indicato nella rubrica, giustificano la cassazione della pronuncia (§ 1.12), giacché l’inadeguato apprezzamento di un elemento probatorio -ciò di cui, in sostanza, il ricorrente sembra dolersi -non integra l’ error in procedendo.
Merita solo aggiungere, per completezza, non essere vero che la Corte di merito abbia omesso di considerare il documento di cui al motivo di ricorso: infatti, a pag. 28 della sentenza impugnata il Giudice distrettuale, dopo aver rammentato che la perizia per rogatoria ad esperti austriaci nell’ambito del procedimento penale francese rientrava tra i documenti «nuovi» prodotti (tardivamente) nel 2018, ha osservato che le deduzioni svolte in comparsa conclusionale da COGNOME con riguardo a tale scritto nulla aggiungevano al quadro delle risultanze processuali.
1.25. Col trentunesimo motivo si deduce « error in iudicando nell’interpretazione delle sentenze francesi -che costituiscono giudicato esterno -che, anche ove fossero considerate prove atipiche, dovevano essere considerate positivamente ed in subordine omessa motivazione sul punto».
Il vizio di motivazione non si ravvisa in quanto la Corte di appello ha preso in esame le sentenze straniere, da cui ha desunto che COGNOME «assunse nell’intera vicenda la veste di parte lesa» (pag. 21 della sentenza: cfr. § 1.11). Il ricorrente non spiega, peraltro, da quale passaggio delle nominate pronunce dovrebbe ricavarsi l’affermazion e di una responsabilità di LGT per il danno da lui sofferto.
1.26. Col trentaduesimo motivo si deduce «nullità della sentenza per non aver ritenuto proposta la domanda di rivendica».
Col trentatreesimo motivo si deduce «violazione dell’art. 2729 c.c. e/o omessa motivazione circa un punto fondamentale della causa».
Col trentaquattresimo motivo si deduce «omessa motivazione circa un fatto decisivo che ha costituito oggetto di contestazione tra le parti in relazione alla tempestività dell’azione di rivendica».
I tre motivi vertono sulla domanda di rivendica (volta al recupero della somma trasferita) che la Corte di appello ha ritenuto tardivamente proposta.
Il Giudice distrettuale ha infatti reputato che tale domanda, menzionata nella citazione introduttiva, ma non nelle conclusioni ivi rassegnate, fosse stata spiegata solo con l’istanza di fissazio ne di udienza prevista dal rito societario (regolato, come è noto, dal d.lgs. n. 5/2003). Ha precisato la Corte di appello che, a seguito della proposizione di tale domanda, RAGIONE_SOCIALE aveva opposto di non accettare il contraddittorio su di essa.
Merita aggiungere che la Corte di appello, pur ritenendo assorbente, ai fini della decisione, il profilo processuale della tardività dell’azione di rivendica, ha poi osservato che tale azione presuppone che il bene si trovi presso il destinatario di tale azione e che il detto destinatario sia a conoscenza del conferimento fiduciario, mentre LGT aveva trasferito la somma a RAGIONE_SOCIALE e non era dimostrato che sapesse del trust.
I motivi in esame, con cui si assume che la domanda di rivendica
NOME e proposta fin dall’atto introduttivo del giudizio, vanno respinti.
In materia di ricorso per cassazione, l’individuazione e l’interpretazione del contenuto della domanda, attività riservate al giudice di merito, sono sindacabili, come vizio di nullità processuale ex art. 360, n. 4, c.p.c., qualora l’inesatta rilevazione del contenuto della domanda determini un vizio attinente all’individuazione del petitum , sotto il profilo della violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (Cass. 6 novembre 2023, n. 30770; cfr. pure Cass. 10 giugno 2020, n. 11103). Nel caso in esame il ricorrente si duole proprio del mancato scrutinio della domanda di rivendica.
Ora, è vero che il giudice di merito, nell’interpretare la domanda, non è condizionato dalle espressioni adoperate dalla parte ma deve accertare e valutare il contenuto sostanziale della pretesa (per tutte: Cass. 21 maggio 2019, n. 13602; Cass. 14 marzo 2019, n. 7322; Cass. 7 gennaio 2016, n. 118). Ciò non significa, tuttavia, che possa attribuirsi rilievo a una domanda che non abbia avuto idonea esteriorizzazione e non si presti perciò ad essere riconosciuta come tale dalla parte contro cui è diretta. Quel che rileva, in argomento, è, infatti il rispetto del principio del contraddittorio. Occorre considerare che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, ai fini dell’interpretazione delle domande giudiziali, non sono utilizzabili i criteri di interpretazione del contratto dettati dagli artt. 1362 ss. c.c. poiché, rispetto alle attività giudiziali, non si pone una questione di individuazione della comune intenzione delle parti e la stessa soggettiva intenzione dell’attore rileva solo nei limiti in cui sia stata esplicitata in modo tale da consentire al convenuto di cogliere l’effettivo contenuto dell’atto e di svolgere un’adeguata difesa (Cass. 4 novembre 2020, n. 24480; Cass. 9 dicembre 2014, n. 25853; Cass. 24 novembre 2011, n. 24847; Cass. 9 marzo 2004, n. 4754). Quale che sia, dunque, la soggettiva intenzione della parte, uno dei fondamenti della regola di corrispondenza tra chiesto e pronunciato posta dall’art. 112 c.p.c. deve essere individuato
nel rispetto del principio del contraddittorio, garantito solo dalla possibilità per il convenuto di cogliere l’effettivo contenuto della domanda formulata nei suoi confronti e di svolgere una effettiva difesa (Cass. 9 marzo 2004, n. 4754, in motivazione, ove il richiamo a Cass. 6 luglio 2001, n. 9208, non massimata in CED a tale riguardo). Tale esigenza di tutela dell’effettività del contraddittorio , centrale nell’economia di ogni giudizio , trova espressione ove si tratti di affrontare questioni afferenti la domanda giudiziale anche diverse da quella relativa all’interpretazione della medesima . E così, ad esempio, con riguardo alla nullità della citazione per assoluta incertezza del petitum , l’imposizione, all’at tore, dell’obbligo di specificare sin dall’atto introduttivo l’oggetto della sua domanda viene spiegato proprio con l’esigenza di porre immediatamente il convenuto nelle condizioni di apprestare adeguate e puntuali difese (Cass. 12 novembre 2003, n. 17023; in senso conforme: Cass. 29 gennaio 2015, n. 1681)..
Tornando al tema dell’interpretazione della domanda, va dunque ribadito che la valorizzazione del principio del contraddittorio implica che debba tenersi conto non già di cosa l’attore avesse inteso richiedere al giudice, ma di ciò che il convenuto dovesse desumere, secondo ragionevolezza, dal contenuto dell’atto avversario.
Nel caso di specie, l’odierno ricorrente , pur avendo trattato della rivendicazione in una parte della propria citazione, aveva poi rassegnato conclusioni, assai diffuse e articolate, in cui una correlativa domanda risultava essere del tutto assente : infatti l’attore aveva domandato la condanna in solido dei convenuti al risarcimento dei danni, a titolo di contrattuale che extracontrattuale, e anche per «quasi delitto», con specificazione dei vari profili di responsabilità, indicando, poi, la precisa misura della somma da liquidare per tali titoli. Tenuto anche conto del dettaglio delle conclusioni del l’attuale ricorrente -dettaglio che rendeva la convenuta evidentemente avvertita del grado di consapevolezza che l’ AVV_NOTAIO COGNOME mostrava di avere delle pretese da
lui azionate -va escluso che RAGIONE_SOCIALE dovesse supporre che con la citazione avversaria fosse stata proposta anche la domanda di rivendicazione: domanda del tutto distinta da quella risarcitoria (cfr. § successivo).
1.27. -Col trentacinquesimo motivo, proposto in via subordinata, si deduce «violazione dell’art. 112 c.p.c. per errato riconoscimento di una domanda implicita nelle domande proposte in prime cure».
Assume il ricorrente che la domanda di rivendica doveva ritenersi ricompresa in quella di condanna al risarcimento del danno.
Il motivo è infondato.
L’azione di rivendica differisce, sia nel petitum che nella causa petendi , da quella risarcitoria, avendo ad oggetto la restituzione di quanto conferito in trust ed essendo accordata in presenza di evenienze specifiche, quale la confusione, da parte del trustee , dei beni del trust con i suoi .
L a stessa condotta processuale dell’odierno istante, che ritenne necessario formulare una espressa domanda di rivendicazione nell’istanza di fissazione di udienza, sconfessa l’assunto per cui detta domanda dovesse credersi inclusa in quella di risarcimento del danno.
1.28. Col trentaseiesimo motivo si deduce «violazione di legge per mancata valutazione dell’onere della prova ex art. 2697 c.c.; in subordine mancata valutazione di documentazione decisiva e ritualmente prodotta».
Il motivo è inammissibile.
Esso è versato in fatto: è sufficiente rinviare, quanto ai limiti del sindacato di legittimità in materia di accertamenti probatori, ai §§ 1.10 e 1.14.
1.29. Col trentasettesimo motivo si denuncia «violazione e/o falsa applicazione dell’art. 83 c.p.c. in relazione a procura
asseritamente rilasciata all’estero».
Col trentottesimo motivo si deduce «violazione e/o falsa applicazione della Convenzione dell’Aja circa la c.d. apostille ».
Col trentanovesimo motivo si deduce «nullità della sentenza per non aver preso posizione sulla mancata prova della posizione dei soggetti firmatari e rappresentare la società ex art. 75 c.p.c.».
Col quarantesimo motivo si deduce «violazione e/o falsa applicazione dell’art. 75 c.p.c. i n relazione alla mancata prova della posizione dei soggetti firmatari e rappresentare la società».
I quattro motivi censurano la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto validamente conferita, da parte del LGT, la procura ad litem al difensore.
Il ricorrente oppone che la procura mancherebbe di autentica e di accertamento dell’identità del sottoscrittore e che l’ apostille sarebbe stata redatta da persona diversa dal soggetto che aveva dichiarato autentica la sottoscrizione dei presunti rappresentanti degli enti, in un momento successivo alla detta autenticazione; deduce, inoltre, che la detta apostille sarebbe priva di traduzione.
I motivi sono nel complesso infondati.
E’ da premettere che per il disposto dell’art. 12 l. n. 218 del 1995, la procura alle liti utilizzata in un giudizio che si svolge in Italia, anche se rilasciata all’estero, è disciplinata dalla legge processuale italiana, la quale, tuttavia, nella parte in cui consente l’utilizzazione di un atto pubblico o di una scrittura privata autenticata, rinvia al diritto sostanziale, sicché in tali evenienze la validità del mandato deve essere riscontrata, quanto alla forma, alla stregua della lex loci , occorrendo, però, che il diritto straniero conosca, quantomeno, i suddetti istituti e li disciplini in maniera non contrastante con le linee fondamentali che lo caratterizzano nell’ordinamento italiano e che consistono, per la scrittura privata autenticata, nella dichiarazione del pubblico ufficiale che il documento è stato firmato in sua presenza e nel preventivo
accertamento dell’identità del sottoscrittore (Cass. Sez. U. 13 febbraio 2008, n. 3410; in senso conforme: Cass. 19 luglio 2018, n. 19321; Cass. 15 novembre 2017, n. 26951).
Ora, la Corte di appello ha riconosciuto che era stato prodotto un atto, equivalente a ll’ estratto del nostro registro delle imprese, da cui risultava che i sottoscrittori della procura avevano la titolarità del potere rappresentativo dell’ente. Ha aggiunto che l’autentica doveva ritenersi valida rilevando, in proposito: «’autenticante ha riportato i nominativi e l’ascrizione delle persone a LGT, il che presuppone il previo accertamento dell’identità e delle funzioni (d’altronde riportate nella procura a tergo) e attestano che le firme sono state apposte ‘ di propria mano ‘ o ‘ di proprio pugno ‘ (‘ eigenhaendig ‘) sul retro del foglio (‘ firme retroscritte ‘, ‘ umseitigen Unterschriften ‘) , il che presuppone la sottoscrizione in presenza».
Come è evidente, le censure sollevate, con riguardo al tema dell’autentica della procura e dell’accertamento dell’identità de i sottoscrittori, non si confrontano con la sentenza impugnata; sul punto la Corte di merito ha svolto precisi accertamenti che il ricorrente non ha nemmeno contestato.
Per quel che concerne l’ apostille , la Corte di merito ha osservato che la Convenzione dell’Aja del 5 ottobre 1961 non richiede la contestualità tra autenticazione e atto da legalizzare, che l’ apostille relativa alla procura di LGT risultava essere conforme al modello previsto dalla detta Convenzione e che non esisteva alcun obbligo di traduzione al riguardo.
Ai sensi della Convenzione dell’Aja sopra citata, la dispensa dalla legalizzazione degli atti è condizionata al rilascio, da parte dell’autorità designata dallo Stato di formazione dell’atto, della apostille , da apporre sull’atto stesso, o su un suo foglio di allungamento, secondo il modello allegato alla Convenzione, con la conseguenza che, in assenza di tale forma legale di autenticazione del documento, il giudice italiano non
può attribuire efficacia validante a mere certificazioni provenienti da un pubblico ufficiale di uno Stato estero, pur aderente alla Convenzione (Cass. 11 giugno 2018, n. 15073; Cass. 1 agosto 2017, n. 19100; Cass. 14 novembre 2008, n. 27282).
Quanto affermato dalla Corte di appello in ordine al fatto che non è richiesta la contestualità tra autenticazione della procura e apostille merita condivisione: l’ apostille assolve a una finalità di semplificazione rendendo non necessaria la legalizzazione del documento da parte dell’autorità diplomatica o consolare del paese in cui è stato confezionato l’atto: attraverso di essa l’autorità designata dal paese aderente attesta l’autenticità della firma, il titolo secondo il quale il firmatario ha agito e, ove occorra, l’identità del sigillo o del bollo onde l’atto è rivestito (art. 5.2 della Convenzione). Non è richiesto che l’autorità attestatrice sia presente all a redazione dell’atto da postillare proprio in quanto si suppone che detta autorità sia qualificata ad operare la verifica circa la provenienza di esso da uno dei pubblici ufficiali che, in quello Stato, hanno titolo a formare atti pubblici.
Frutto di fraintendimento è, poi, la censura basata sulla mancata coincidenza tra autorità che ha postillato l’atto e quella che lo ha formato: la richiamata disciplina presuppone, come è evidente, proprio un’ alterità soggettiva al riguardo.
Da ultimo, è corretto quanto osservato dalla Corte di appello con riguardo alla traduzione dell’ apostille. La giurisprudenza di questa Corte ha infatti precisato non essere necessario che l’ apostille sia redatta in lingua italiana, atteso che l’art. 122, comma 1, c.p.c., prescrivendone l’uso, si riferisce agli atti endoprocessuali e non anche a quelli prodromici, per i quali vige il principio generale della traduzione in lingua italiana a mezzo di esperto (Cass. Sez. U. 2 dicembre 2013, n. 26937): e nella fattispecie la Corte di merito ha rilevato che detta traduzione era stata prodotta in giudizio. D ‘altro canto, come è stato di recente precisato da questa Corte, per gli atti prodromici al processo
(quali in particolare gli atti di conferimento di poteri a soggetti processuali: procura alle liti, nomina di rappresentanti processuali, autorizzazioni a stare in giudizio e correlative certificazioni) redatti in lingua diversa dall’italiano, la contestuale produzione di traduzione in lingua italiana non integra nemmeno un requisito di validità dell’atto, laddove il giudice sia in grado di compiere da sé la traduzione (Cass. 12 luglio 2023, n. 19900).
1.30. ─ Col quarantunesimo motivo si deduce nullità della sentenza per mancata disamina dei documenti acquisiti dall’indagine italiana, la quale ebbe a recuperare solo una parte degli atti della Procura del Principato di Liechtenstein e non attese gli esiti del processo francese; in subordine si denuncia l’ omessa motivazione.
Il motivo è inammissibile.
La mancata disamina di documenti non rientra nel modello definito dall’art. 360, n. 5, c.p.c. , il quale concerne i fatti storici, principali o secondari (§ 1.9) e nemmeno in quello dell’art. 360, n. 4 , c.p.c.: il giudice del merito non è difatti tenuto ad un’esplicita confutazione di tutti gli elementi probatori che non intende porre a fondamento della decisione (§ 1.10). Il mezzo è oltretutto carente di autosufficienza, in quanto i riferimenti ai documenti risultano essere generici.
1.31 . ─ Col quarantaduesimo motivo si deduce «nullità della sentenza per non aver considerato la questione dibattuta in comparsa conclusionale di appello e nelle repliche di inesistenza di numerose società con ulteriore vulnerazione dell’obbligo di motivazione e di presa d’atto di questioni decise, ed in subordine omessa motivazione».
Anche tale motivo è inammissibile.
Nel paradigma del fatto storico, principale o secondario di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c. non è inquadrabile la censura concernente l ‘ omessa valutazione di deduzioni difensive (Cass. 18 ottobre 2018, n. 26305; Cass. 14 giugno 2017, n. 14802). Come si è detto (§ 1.23), il
giudice del merito, per assolvere all’obbligo motivazionale , non è inoltre tenuto ad esaminare tutte le allegazioni delle parti. Il mezzo è, infine, come il precedente, carente di autosufficienza.
1.32. ─ Col quarantatreesimo motivo si deduce «nullità della sentenza per non aver considerato l’omessa cooperazione della banca nell’individuazione dei flussi finanziari e comunque nel contrasto al recupero delle somme sottratte ex artt. 115 e 116 c.p.c. ed in subordine omessa motivazione».
Il motivo è inammissibile.
E’ s ufficiente rinviare a quanto sopra osservato (§ 1.10) quanto ai limiti entro cui è ammesso il sindacato di legittimità nel caso in cui sia denunciata la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c.. Anche questo motivo è, inoltre, carente di autosufficienza.
1.33. ─ Col quarantaquattresimo motivo si deduce «nullità della sentenza perché -ove mai NOME COGNOME e ATC non concorrenti né colpevoli né comunque inadempienti per collusione -la banca era responsabile nei riguardi del fiduciario, ed in subordine omessa motivazione».
Il motivo è infondato.
Esso consta della trascrizione di quasi otto pagine dell’atto di appello e sembra risolversi nel seguente rilievo: «ove mai NOME e NOME fossero ritenuti irresponsabili, di certo esisterebbe una grave colpa contrattuale, da contatto ed extracontrattuale che non risulta esaminata» . L’unico vizio tra quelli astrattamente riconducile alla fattispecie dell’art. 360, n. 4, c.p.c., citata in rubrica , che il ricorrente menziona, è il vizio motivazionale: ma sul punto dell’accertamento della responsabilità colpevole di RAGIONE_SOCIALE la motivazione della Corte di appello non presenta alcuna delle radicali carenze oggi deducibili in sede di legittimità: «mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico», «motivazione apparente», «contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili» «motivazione perplessa ed obiettivamente
incomprensibile», non avendo più rilevanza il semplice difetto di «sufficienza» della motivazione (Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, nn. 8053 e 8054, citt.).
1.34. ─ Col quarantacinquesimo motivo si deduce «violazione di legge in relazione all’art. 92 c.p.c. per omessa compensazione delle spese di lite per reciproca soccombenza».
Col quarantaseiesimo motivo si deduce «nullità della sentenza per non aver motivato della causa in questione tra NOME COGNOME e RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE con ragioni di compensazione ex art. 92 c.p.c.».
Col quarantasettesimo motivo si deduce «violazione di legge in relazione all’art. 91 c.p.c. per aver posto le spese della fase di legittimità a carico di NOME COGNOME benché vincitore in tale sede».
I motivi investono la statuizione con cui COGNOME è stato condannato al pagamento delle spese processuali nei confronti di RAGIONE_SOCIALE.
L’istante rileva: che la Corte appello avrebbe mancato di considerare che egli era risultato vittorioso nel procedimento per regolamento di giurisdizione promosso nel corso del giudizio di primo grado; che le spese del giudizio di merito potevano essere compensate, stante la novità e lo spessore delle questioni affrontate; che le spese del primo grado avrebbero dovuto compensarsi, essendo risultato vittorioso sul tema della giurisdizione.
I tre motivi sono infondati.
Anzitutto, la regolamentazione delle spese in un processo articolato per gradi e per fasi o procedimenti incidentali va sempre operata in relazione all’esito complessivo e finale della lite. Ne consegue che l’attore ─ vittorioso in sede di regolamento di giurisdizione esperito in pendenza di lite ma totalmente soccombente nel merito ─ non ha diritto di pretendere la condanna delle controparti alle spese della fase di regolamento, se la Corte di cassazione le abbia rimesse al giudice dichiarato munito di giurisdizione (Cass. 20 marzo 2014, n. 6522). In secondo luogo, la facoltà di disporre la compensazione delle spese tra
le parti rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il quale non è tenuto a dare ragione con una espressa motivazione del mancato uso di tale sua facoltà, con la conseguenza che la pronuncia di condanna alle spese, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non può essere censurata in cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione (Cass. Sez. U. 15 luglio 2005, n. 14989; Cass. 26 aprile 2019, n. 11329).
1.35. ─ Col quarantottesimo motivo si deduce «rimessione degli atti alla Corte UE».
Questo non è un vero e proprio motivo di ricorso, in quanto non denuncia alcun vizio della sentenza impugnata.
Il ricorrente sollecita un rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE, ma non spiega nemmeno se tale rinvio sia finalizzato ad ottenere una pronuncia sull’interpretazione di un qualche trattato o sulla validità e l’interpretazione di atti compiuti dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’Unione; tantomeno chiarisce quali debbano essere i trattati o gli atti unionali su cui la Corte di giustizia debba essere interrogata.
I successivi sette motivi del ricorso di COGNOME hanno riguardo al rapporto tra lo stesso e COGNOME. Nella trattazione che segue si darà continuità alla precedente numerazione. Essa non coincide con la successione numerica del ricorrente, in cui è mancante il motivo quarantanove.
2.1. Col quarantanovesimo motivo si deduce «violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2059 c.c. ».
La censura ha ad ogge tto l’affermazio ne della Corte di appello per cui il danno non patrimoniale non poteva essere imputato a COGNOME COGNOME COGNOME «posto che il titolo loro ascritto è esclusivamente da inadempimento contrattuale (del mandato e della garanzia prestata) e non a titolo di ‘ concorso ‘ nella distrazione».
Il motivo è inammissibile.
E’ senz’altro vero che il danno non patrimoniale, quando ricorrano le ipotesi espressamente previste dalla legge, o sia stato leso in modo grave un diritto della persona tutelato dalla Costituzione, è risarcibile sia quando derivi da un fatto illecito, sia quando scaturisca da un inadempimento contrattuale (Cass. Sez. U. 11 novembre 2008, n. 26972). E altrettanto vero, però, che la Corte distrettuale nel l’escludere la risarcibilità del danno non patrimoniale asseritamente cagionato da COGNOME ha evidenziato che il danno non patrimoniale non poteva considerarsi in re ipsa e che in tal senso nulla era stato «neppure presuntivamente provato». Quest’ultima ratio decidendi non è stata specificamente impugnata: il ricorrente ha operato la trascrizione del proprio ventiduesimo motivo di appello, ma non ha aggredito il suddetto argomento, che la Corte distrettuale ha pure posto a fondamento della decisione che qui interessa.
2.2. Col cinquantesimo motivo si deduce «violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2043 c.c. in relazione all’art. 2729 c.c. ».
Assume, in sintesi, il ricorrente che la responsabilità ex delicto di COGNOME sarebb e senz’altro emersa ove il Giudice di appello avesse fatto uso delle presunzioni.
Il motivo è inammissibile.
Esso non reca trascrizione della parte della sentenza che si voleva impugnare (il mezzo di censura consta della sola riproduzione del diciassettesimo motivo di appello di COGNOME, ma non è dedotto un vizio di omessa pronuncia). Il motivo è inoltre declinato su di un piano astratto, attraverso l’enunciazi one di un principio di diritto, senza correlarsi alla vicenda che qui interesse e senza quindi fornire a questa Corte alcun elemento di giudizio utile ai fini dell’eventuale cassazione della pronuncia.
2.3. Col cinquantunesimo motivo si deduce «nullità della decisione per omessa acquisizione degli atti di indagine in Svizzera ove era stato denunciato in uno a NOME COGNOME ed in subordine omessa
motivazione sul punto».
Col cinquantaduesimo motivo si deduce «nullità della sentenza per non aver chiesto informazioni ad RAGIONE_SOCIALE o RAGIONE_SOCIALE ex art. 213 c.p.c. ed in subordine omessa motivazione sul punto».
Col cinquantatreesimo motivo si deduce «nullità della sentenza per non aver chiesto informazioni a New Scotland Yard ex art. 213 c.p.c. ed anche 113 c.p.c. e in subordine omessa motivazione sul punto».
Col cinquantaquattresimo motivo si deduce «violazione e/o falsa applicazione degli artt. 113, 213, c.p.c. e 331 c.p.p.».
I quattro motivi non indicano, al pari del cinquantesimo, quale parte della pronuncia sia con essi impugnata; ciò solo li rende inammissibili. I mezzi di censura sono inoltre diretti a deplorare l’omessa acquisizione di informazioni probatorie e l’omessa motivazione. Non è specificato, però, in quali circostanze, nel corso del giudizio di merito, e con riferimento alla specifica posizione di COGNOME, NOMEero formulate istanze nel senso indicato; e si è detto (§ 1.4) che, in ogni caso, il mancato esercizio del potere previsto dall’art. 213 c.p.c. è insindacabile nel giudizio di cassazione. Non si vede, poi, a quale domanda, istanza, censura o diversa sollecitazione possa raccordarsi il denunciato vizio motivazionale, visto che nessuno dei mezzi in esame ne fa menzione.
I quattro motivi sono dunque inammissibili.
2.4. Col cinquantacinquesimo motivo si deduce «violazione di legge per non aver ritenuto sussistente, a fondamento della responsabilità di NOME COGNOME, il fatto illecito non liquidando il danno nella misura richiesta o comunque con imputazione degli interessi commerciali o maggior danno dal dì dell’evento al saldo definitivo in relazione agli artt. 40 e 41 c.p., nonché degli artt. 1219, 1223, 1284, 2056 e 2059 c.c.».
Il motivo è inammissibile.
Esso consta di plurimi profili di censura (uno dei quali
condizionato – a qu an to pare – al riconoscimento della responsabilità extracontratt uale dell’intimato ) non sviluppati e non suscettibili di essere distinti, avendo particolare riguardo alle molteplici violazioni di legge contestate. L’articolazione di un singolo motivo in più profili di doglianza, ciascuno dei quali avrebbe potuto essere prospettato come un autonomo motivo, costituisce ragione d’inammissibilità dell’impugnazione quando la sua formulazione non consente o rende difficoltosa l’individuazione delle questioni prospettate (Cass. 17 marzo 2017, n. 7009); in particolare, l’articolazione in un singolo motivo di più profili di doglianza costituisce ragione d’inammissibilità quando non è possibile ricondurre tali diversi profili a specifici motivi di impugnazione, dovendo le doglianze, anche se cumulate, essere formulate in modo tale da consentire un loro esame separato, come se fossero articolate in motivi diversi, senza rimettere al giudice il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, al fine di ricondurle a uno dei mezzi d’impugnazione consentiti, prima di decidere su di esse (Cass. 23 ottobre 2018, n. 26790).
Si osserva, poi, che il motivo non ci confronta criticamente con la sentenza impugnata, la quale reca menzione del principio, enunciato dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass. 5 aprile 2016, n. 13225), secondo cui se l’obbligazione risarcitoria derivi da inadempimento contrattuale, gli interessi decorrono dalla domanda giudiziale.
Un ‘ultima serie di motivi del ricorso principale è riferita, senza differenziazioni soggettive, a questioni sul quantum.
3.1. -Col cinquantaseiesimo motivo si deduce «nullità della sentenza per mancato riconoscimento dei danni non patrimoniali ex artt. 1223, 2056 e 2059 c.c. o in subordine omesso esame di un fatto».
Il ricorrente si duole di aver prospettato varie componenti del danno non patrimoniale e che non vi sarebbe stata «precisa e perspicua risposta della Corte felsinea , o in subordine l’omissione ».
In realtà, la Corte di merito ha osservato: che gli interessi di cui
al d.lgs. n. 231/2002 non erano dovuti in quanto la relativa disciplina non era applicabile ratione temporis e non si estendeva, comunque, alle somme dovute a titolo di risarcimento del danno; che lo stesso doveva dirsi per la nuova regolamentazione introdotta nel 2014 dal penultimo comma dell’art. 1284 c.c., che pure si riferiva a fattispecie contrattuali; che ogni somma richiesta eccedente l’interesse legale doveva essere provata ex art. 1224 c.c. e ciò non era avvenuto; che il documento assicurativo prodotto in appello risultava essere tardivo e privo della necessaria attitudine dimostrativa trattandosi di un «preventivo o conteggio ipotetico»; che sotto tale aspetto le spese sostenute non erano documentate, come invece «potevano e dovevano», il che escludeva ogni possibile liquidazione equitativa, e comunque l’appellante non aveva fornito specifici ragguagli al riguardo; che risultavano altresì sforniti di allegazione e di prova i danni per lucro cessante derivanti dalla sola affermata compromissione dell’attività professionale.
La motivazione è dunque presente e si colloca oltre la soglia del «minimo costituzionale» (cfr. citt. Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, nn. 8053 e 8054). Quanto al vizio di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c., non è indicato il fatto storico decisivo il cui esame sarebbe stato omesso (e, a fortiori , non è precisato come esso sia stato discusso nel giudizio di merito e come sia stato provato in quella sede).
Il motivo è in conclusione nel complesso infondato.
3.2. Col cinquantasettesimo motivo si deduce «violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1223, 2056 e 2059 c.c.».
Il ricorrente rileva che la liquidazione equitativa risultava essere possibile giacché i danni lamentati esistevano e la prova era veicolata dall’imponente documentazione colpevolmente ignorata dalla Corte di appello.
Come è noto, l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c.,
espressione del più generale potere di cui all’art. 115 c.p.c., dà luogo non già ad un giudizio di equità, ma ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva od integrativa: esso, pertanto, da un lato è subordinato alla condizione che per la parte interessata risulti obiettivamente impossibile, o particolarmente difficile, provare il danno nel suo ammontare, e dall’altro non ricomprende l’accertamento del pregiudizio della cui liquidazione si tratta, presupponendo già assolto l’onere della parte di dimostrare la sussistenza e l’entità materiale del danno (Cass. 30 luglio 2020, n. 16344; Cass. 22 febbraio 2018, n. 4310; Cass. 12 ottobre 2011, n. 20990).
Nel caso in esame, la Corte di appello ha fatto corretta applicazione del richiamato principio di diritto e l’esercizio in concreto, in senso positivo o negativo, del potere discrezionale, conferito al giudice dall’art. 1226 c.c., di liquidare il danno in via equitativa non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità se la decisione in merito risulti sorretta da motivazione immune da vizi logici (nella specie insussistenti) e, appunto, da errori di diritto (Cass. 26 giugno 1995, n. 7235; cfr. pure Cass. 16 giugno 1990, n. 6056).
Il motivo deve essere pertanto respinto.
3.3. Col cinquantottesimo motivo si deduce «nullità della sentenza per incomprensibilità in ordine al saggio di interessi ed alla loro decorrenza; violazione degli artt. 47 Cost. e 17 della Carta di Nizza».
Col cinquantanovesimo motivo si deduce «violazione di legge per incomprensibilità in ordine al saggio di interessi ed alla loro decorrenza; violazione degli artt. 47 Cost. e 17 della Carta di Nizza».
Il ricorrente rileva che la responsabilità di COGNOME e di COGNOME, oltre che della banca, «riguarda la vulnerazione di diritti fondamentali e di posizioni soggettive assolute». Assume, poi, che, avendo la responsabilità dei convenuti natura (anche) extracontrattuale, il danno
andrebbe «liquidato non dal 2005 ma dal 1998».
La Corte di merito ha accertato che la responsabilità di COGNOME e di COGNOME aveva natura contrattuale (pag. 33 della sentenza impugnata). L’istante mira a confutare tale passaggio della sentenza impugnata senza chiarire cosa avesse in proposito specificamente dedotto, nel corso del giudizio di merito, per dar ragione dell’illecito aquiliano che prospetta: si limita infatti a far menzione dell’asserita lesione di non meglio chiarite situazioni giuridiche soggettive e a porre in rilievo altre circostanze (l’ esistenza di costituzioni in mora, il fatto che COGNOME fosse irreperibile), omettendo di spiegare da quali atti del giudizio di merito queste ultime debbano essere desunte.
I due motivi sono quindi carenti di specificità e chiarezza e si palesano perciò inammissibili.
Con riguardo alla posizione di COGNOME è stato eccepito, da parte del ricorrente principale, che la procura ad litem del detto controricorrente sarebbe nulla: per assenza di documentazione comprovante i poteri certificatori del notaio; per assenza di data e luogo di rilascio; per mancanza di autentica dell’ apostille (cfr. da ultimo, memoria di COGNOME, pagg. 50 s.).
Le eccezioni sono prive di fondamento, constando in atti autentica della procura da parte NOME COGNOME, notaio in Londra per provvedimento dell’ Autorità Regia, munita di indicazione del luogo e della data di rilascio , e dell’ apostille : atto, quest’ultimo, che non necessita di alcuna autenticazione.
I motivi del ricorso incidentale di COGNOME sono quattro.
4.1. Col primo motivo si deduce «violazione del reg. CE n. 1348/2000 del Consiglio del 29 maggio 2000 e falsa applicazione di norme di diritto».
COGNOME rileva che le notifiche dell’atto di citazione effettuate dall’attore e indirizzate a un destinatario – lui stesso all’epoca residente nel Regno unito, erano affette da inesistenza: la notificazione,
in quanto effettuata sulla base delle regole della Convenzione dell’Aja del 15 novembre 1965, «e quindi da un soggetto privo del potere giuridico di compiere detta attività», non poteva ritenersi ritualmente avvenuta e «doveva essere qualificata come ‘ inesistente ed in nessun modo sanabile ‘, essendo priva degli elementi costitutivi idonei a qualificare l’atto come notificazione in quanto ispirato ad una normativa non più vigente».
Col secondo motivo si deduce «violazione e falsa applicazione dell’art. 143 c.p.c.».
Il ricorrente incidentale contesta, nella sostanza, che si sia validamente perfezionata la notificazione ex art. 143 c.p.c. dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado: notificazione seguita al tentativo di recapitare l’atto presso la sua residenza anagrafica; COGNOME osserva, in particolare, che il notificante era a conoscenza del fatto che egli si era già trasferito nel Regno Unito.
Col terzo motivo si deduce «violazione e falsa applicazione dell’art. 1310 c.c.».
La censura investe l’affermazione, contenuta nel la pronuncia della Corte di appello, per cui era da reputarsi corretto quanto rilevato da COGNOME: l’essersi l’interruzione della prescrizione prodotta per effetto di plurimi atti, risalenti agli anni 2000, 2002 e 2006, diretti verso soggetti che condividevano, con COGNOME, la qualità di condebitori. Il ricorrente contesta la portata interruttiva di tali atti, negando l’esistenza del vincolo della solidarietà e contestando, in conseguenza, che potesse nella fattispecie operare la regola di cui all’art. 1310 , comma 1, c.c. circa l’estension e degli effetti dell’interruzione tra i coobbligati in solido.
Col quarto motivo si deduce «omesso esame di documentazione prodotta da altra parte che dimostrava l’assoluta estraneità del COGNOME alla vicenda».
4.2 . – In prossimit à dell’adunanza camerale COGNOME ha fatto pervenire atto di rinuncia al proprio ricorso incidentale.
4.3 . -La detta impugnazione va conseguentemente dichiarata estinta.
– In conclusione, il ricorso principale va respinto, mentre la necessità di pronunciare su quello incidentale è venuta meno per rinuncia.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza tra COGNOME e RAGIONE_SOCIALE, mentre tra COGNOME e il rinunciante COGNOME possono compensarsi, tenuto conto che il rigetto del ricorso principale proposto dal primo nei confronti del secondo si contrappone alla rinuncia di questo al ricorso incidentale.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso principale e dichiara estinto il giudizio per quanto riguarda il ricorso incidentale; condanna il ricorrente principale, COGNOME NOME, al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore della controricorrente LGT RAGIONE_SOCIALE AG, liquidandole in euro 25.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi, liquidati in euro 200,00, ed agli accessori di legge; compensa le spese del giudizio tra il ricorrente principale e COGNOME NOME; ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del predetto COGNOME, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello stabilito per il ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 1ª Sezione