Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 31186 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 31186 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 05/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 12389/2020 R.G. proposto da: COGNOME, elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE)
-ricorrente-
contro
COGNOME NOMECOGNOME elettivamente domiciliato presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE
-controricorrente-
nonchè contro
COGNOME, COGNOME
-intimati- avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO SALERNO n. 1248/2019 depositata il 13/09/2019.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 29/11/2024 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Ritenuto che:
Con sentenza nr 955/2019 la Corte di appello di Salerno rigettava l’appello proposto da Deutsche Bank s.p.a. nei confronti di NOME COGNOME e NOME COGNOME avverso la decisione del Tribunale di Salerno con cui era stata accolta la domanda di restituzione della somma di € 10.329,14 proposta dagli attori nei riguardi della Banca e del suo dipendente NOME COGNOME cui era stato consegnato il suddetto importo per l’acquisto dei titoli di Stato.
Il giudice del gravame, condividendo il ragionamento seguito dal primo giudice, riteneva provate, alla stregua delle dichiarazioni testimoniali ritenuti ammissibili in quanto dirette a provare il fatto storico inerente il documento della quietanza poi accertata come apocrifa, le allegazioni poste a base dell’acquisto, e quindi che vi era stata la consegna al dipendente nell’aprile del 1993 presso la filiale di Salerno della somma indicata consegnata all’Istituto a mezzo di un suo dipendente e che erano stati percepiti per circa due anni gli interessi per l’importo di € 1.962,54 e la scoperta in data 4.1.1996 della mancata registrazione dell’ acquisto dei titoli.
Ha considerato integrati nei confronti dell’appellante gli estremi dell’art 2049 c.c. giacchè la mancanza di controllo sul comportamento del proprio dipendente aveva quantomeno agevolato l’agire illecito dello stesso.
Avverso tale sentenza Deutsche Bank s.p.a. ha proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi cui ha resistito con controricorso, illustrato da memoria, NOME COGNOME in proprio e quale erede di NOME COGNOME
RAGIONI DELLA DECISIONE
Considerato che:
Con il primo motivo si deduce la violazione del principio del contraddittorio di cui agli articoli 101 e 81 c.p.c. in riferimento all’art 360 nr 3 e nr 4 c.p.c. per aver la sentenza della Corte di appello pronunciato la decisione nel contraddittorio di una sola
delle parti, NOME COGNOME in proprio e nella qualità di erede di NOME COGNOME senza motivare in merito alla nuova legittimatio ad causam della Vicinanza.
Con un secondo motivo si denuncia la violazione dell’art 2697, dell’art 272 in ordine all’ammissibilità della prova testimoniale nonché la violazione degli articoli 277 e 112 c.p.c. in relazione ai numeri 3 e 4 360 c.p.c. per avere la Corte di appello attribuito ‘una incomprensibile rilevanza probatoria alle risultanze testimoniali rese dai signori COGNOME e COGNOME, conclusione questa considerata’ ingannevole ed errata tale da condurre ad una motivazione’ preconcetta’ e soltanto apparente’.
Si osserva in particolare che la domanda attorea riguardava un contratto di investimento in valori mobiliari che si era ritenuto di provare con un ricevuta- contabile rivelatasi falsa con sentenza nr 563/2010 del Tribunale di Salerno.
Con un terzo motivo si deduce la violazione del principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato ex art 112 c.p.c. in relazione all’art 360 nr 3 e 4 c.p.c. per avere la Corte territoriale escluso che l’acquisto dei titoli fosse riconducibile ad un contratto di borsa e come tale non avrebbe dovuto essere provato per iscritto e comunque per aver rilevato che ove si fosse considerata l’operazione dell’acquisto dei Bot soggetta alla legge sull’intermediazione la Banca avrebbe dovuto dimostrare di aver adempiuto agli obblighi informativi malgrado la questione non fosse stata sollevata dagli attori.
Con il quarto motivo si denuncia la violazione delle prove di cui all’art 116 secondo comma c.p.c. in relazione al nr 3 e 4 c.p.c. dell’art 360 primo comma per non avere la Corte di appello attribuita alcuna rilevanza alle dichiarazioni rese dagli attori in sede di interrogatorio libero.
Con il quinto motivo si deduce l’erronea applicazione dell’art 2049 c.c. e in subordine mancata applicazione dell’art 1227 c.c. in relazione ai nr 3 e 5 dell’art 360 c.p.c. per avere la Corte di appello ritenuto che nella specie ricorra l’attuazione di un fatto illecito, il nesso di occasionalità necessaria e la buona fede dei pretesi danneggiati senza scrutinare in modo adeguato i vari elementi probatori proposti alla sua attenzione dalle parti ed i chiarimenti resi dagli attori in sede di interrogatorio libero e la prova inconfutabile costituita dalla copia dell’assegno che sarebbe stato intestato alla Vicinanza, negoziato allo sportello della banca dagli attori ma in realtà intestato, negoziato e quietanzato da un terzo estraneo.
Il primo motivo è infondato.
Il giudice di appello ha dato atto nella parte narrativa della sentenza che la costituzione dell’appellata NOME COGNOME era avvenuta in proprio e quale erede di NOME COGNOME
L’assenza di una specifica contestazione ha condotto il giudice a ritenere provata tale qualità rimanendo definitivamente acquisito l’accertamento della legitimatio ad causam
Ai fini del convincimento probatorio, il giudice infatti può utilizzare come argomento di prova, ex art. 116 cod. proc. civ., il comportamento tenuto dalle parti, ed in particolare il fatto che la controparte consideri l’intervenuta successione come verificata e riconosca la qualità di erede, ovvero imposti una linea difensiva incompatibile con la mancanza di quella qualità (cfr. Sez. 1, Sentenza n. 13685 del 13/06/2006, Rv. 589526 – 01 e successive conformi).
Il contegno non specificamente “contestativo” dell’appellante, a fronte di una specifica allegazione dell’appellata, esonera quest’ultimo dall’onere della prova del fatto giuridico costitutivo.
Le doglianze contenute nei motivi secondo, terzo e quarto, scrutinabili congiuntamente perché chiaramente connesse, si rivelano complessivamente inammissibili, posto che, sostanzialmente, lamentano una pretesa erronea valutazione delle prove da parte della Corte di appello senza evidenziare alcun decisivo profilo di irragionevolezza nel percorso argomentativo dalla stessa seguito.
Le censure in esame si risolvono, invece, in un’inammissibile (cfr. Cass., SU, n. 34476 del 2019) critica al complessivo accertamento fattuale operato dal giudice a quo – con motivazione senz’altro rispettosa del minimo costituzionale richiesto da Cass., SU, n. 8053 del 2014.
La Corte di appello ha in primo luogo evidenziato relativamente alla contestata ammissibilità della prova testimoniale che il contratto concluso nella specie per come era stato dedotto non era riconducibile ad un contratto di borsa essendosi gli attori limitati a dedurre di aver consegnato la somma di £ 20.000.000 per l’acquisto di titoli senza alcun riferimento al contratto di borsa.
Ha poi precisato che i limiti all’ammissibilità ex art 2721 e 2725 c.c. operano quando il contratto sia stato indicato in giudizio quale fonte di diritti ed obblighi delle parti contraenti e non anche quando sia dedotto come nella specie come fatto storico posto a base della domanda di restituzione della somma illegittimamente incamerata dal funzionario di banca in coerenza con gli orientamenti espressi da questa Corte.
Sul punto è stato infatti affermato che limiti legali di prova di un contratto per il quale è richiesta la forma scritta “ad substantiam” o “ad probationem”, così come i limiti di valore previsti dall’art. 2721 cod. civ. per la prova testimoniale, non operano -difatti – quando si evochi l’esistenza del contratto formale come semplice fatto storico influente sulla decisione e qualora il contratto risulti stipulato non tra le parti processuali, ma tra una sola di esse ed un terzo (Cass. 5880/2021; Cass.3336/2015; Cass. 566/2001).
Quanto alla denunciata violazione del principio dell’onere della prova giova ricordare che la violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c. si configura nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era gravata in applicazione di detta norma, non anche quando, come nella specie, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, abbia ritenuto erroneamente che la parte onerata avesse assolto tale onere, poiché in questo caso vi è un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c. (Sentenza n. 17313 del 19/08/2020).
Con riguardo al mancato rilievo delle dichiarazioni rese dalla parte in sede di interrogatorio libero va ricordato che la mancata valutazione delle risultanze dell’interrogatorio libero costituisce espressione del potere discrezionale del giudice di merito e, di conseguenza, non è sindacabile in sede di legittimità sotto il profilo dell’omessa o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia (Cass. Sez. 3 28-2-2008 n. 5290).
Va d’altro canto posto in rilievo che l’interrogatorio non formale non costituisce invero un mezzo di prova, non essendo diretto a provocare dichiarazioni contrarie all’interesse dell’interrogato, ma solo a chiarire ed a precisare i fatti di causa, sicché le risposte date dalla parte nel corso dello svolgimento di esso non hanno valore di confessione né costituiscono da sole elementi sufficienti di prova.
Il giudice può da esse, pertanto, semplicemente dedurre motivi sussidiari di convincimento per corroborare o disattendere le prove già acquisite al processo, ma, in difetto di altre risultanze processuali, non può attribuire efficacia probatoria al relativo contenuto.
A tale stregua, financo la mancata valutazione dell’interrogatorio non formale non costituisce invero violazione dell’art. 2697 c.c., riguardante l’onere della prova, o dell’art 2733 c.c. concernente la confessione giudiziale, nè può integrare il vizio di omessa o insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia, essendo la suddetta valutazione rimessa al potere discrezionale del giudice di merito, il cui omesso esame non è sindacabile in sede di legittimità.
Da ultimo con riferimento alla non corretta applicazione dell’art 2049 c.c. la censura si risolve in una critica alla valutazione di merito compiuta dalla Corte di appello per affermare la responsabilità della Banca non venendo in rilievo i presupposti applicativi della norma.
Le ragioni di doglianza formulate dal ricorrente riguardano la valutazione delle risultanze processuali, come è stata operata dalla Corte di merito (insufficiente scrutinio degli elementi probatori posti alla sua attenzione dalle parti e i chiarimenti resi dagli attori in occasione del libero interrogatorio); e, riproponendo l’esame degli elementi fattuali e le stesse argomentazioni difensive già sottoposti
ai giudici di seconde cure e da questi disattesi, mirano ad un’ulteriore valutazione delle stesse; e ciò sebbene a questa Corte non sia riconosciuto dalla legge il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione operata dal giudice del merito al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento, valutarne le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliendo, tra le varie risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione.
Quanto poi alla prospettata mancata applicazione dell’art 1227 c.c. va rilevato che nessuna richiesta in tal senso era stata avanzata in sede di gravame così come emerge dalla parte espositiva della sentenza qui impugnata e quindi si tratta di una questione introdotta per la prima volta in cassazione e come tale inammissibile.
Alla stregua delle considerazioni sopra esposte il ricorso va rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo. P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento in favore dell’Istituto bancario delle spese processuali che si liquidano in € 6000,00 oltre € 200,00 per spese oltre ad Iva e c.p.a. ed al 15% per spese generali.
Dà atto che sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.
Roma 29.11.2024
Il Presidente NOME COGNOME