Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 21307 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 21307 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 25/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 151/2023 R.G. proposto da :
COMUNE DI COLLI VERDI, in persona del legale rappresentante p.t., con domicilio telematico all ‘ indirizzo PEC del proprio difensore, rappresentato e difeso dall ‘ avvocato COGNOME
-ricorrente-
contro
COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOME, elettivamente domiciliati in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell ‘ avvocato COGNOME, rappresentati e difesi dall ‘ avvocato COGNOME
-controricorrenti- avverso la SENTENZA della CORTE D ‘ APPELLO di MILANO n. 3230/2022 depositata il 14/10/2022;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 21/05/2025 dalla Consigliera NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Nel 2014, NOME e NOME COGNOME convenivano in giudizio, dinanzi al Tribunale di Pavia, il Comune di Canevino, deducendo che le opere di messa in sicurezza dell ‘ abitato della frazione Fontana, eseguite dal Comune nella primavera-estate del 2009, avessero cagionato instabilità idrogeologica e fenomeni franosi, con conseguenti danni ai vigneti di loro proprietà, siti in località COGNOME. Gli attori domandavano, oltre alla condanna al risarcimento dei danni patrimoniali quantificati in Euro 382.982,00, anche l ‘ adozione, a carico del Comune, di opere di consolidamento e messa in sicurezza del rio Scuropasso.
Si costituiva in giudizio il Comune di Canevino, contestando integralmente la fondatezza delle domande e rilevando la genericità delle allegazioni attoree. Il Comune poi chiamava in causa l ‘ impresa esecutrice, il progettista, il geologo e le rispettive compagnie assicuratrici.
Espletata l ‘ istruttoria – comprensiva di c.t.u. geologica e idraulica, all ‘ esito delle quali si accertava, tra l ‘ altro, la sussistenza di danni e il nesso causale con le opere pubbliche realizzate -, il Tribunale, con sentenza n. 1388/2019, riconosceva la responsabilità del Comune ex art. 2051 c.c., condannandolo al pagamento in favore degli eredi di NOME COGNOME – medio tempore deceduto – della somma di Euro 12.545,00 a titolo di risarcimento danni, oltre interessi, nonché all ‘ esecuzione delle opere di messa in sicurezza richieste. Di poi, condannava il Comune alla rifusione delle spese processuali e, parzialmente, delle spese di c.t.u.
Proposto appello da parte del Comune di Canevino (ora Comune di Colli Verdi), la Corte d ‘ appello di Milano, con sentenza n. 3230/2022 del 14/10/2022, ha ritenuto infondate le eccezioni sollevate dal Comune: in particolare, quella relativa al difetto di giurisdizione, in favore del Tribunale delle acque pubbliche, qualificandola correttamente come ‘eccezione di incompetenza’,
comunque tardiva, e rilevando che la controversia attiene a responsabilità da fatto illecito e non a profili tecnico-discrezionali relativi alla gestione delle acque pubbliche.
Parimenti infondato è stato ritenuto il motivo di nullità della sentenza ex art. 101 c.p.c., in quanto il primo Giudice aveva legittimamente qualificato la fattispecie in diritto, individuando nella posizione del Comune i requisiti della garde ai sensi dell ‘ art. 2051 c.c., senza alterare il thema decidendum .
La Corte ha escluso il concorso colposo degli attori, rilevando, sulla base della nuova c.t.u. disposta in grado d ‘ appello, che i drenaggi sui terreni erano preesistenti al 2009 e ininfluenti sul dissesto idrogeologico verificatosi.
All ‘ esito della rinnovata consulenza tecnica, la Corte ha poi accertato che i danni lamentati dai COGNOME sono direttamente ascrivibili a vizi progettuali e carenze esecutive delle opere commissionate dal Comune. La relazione peritale ha quantificato i danni subiti in Euro 176.902,09, ritenendo provata la progressiva erosione dell ‘ alveo, la perdita di superfici vitate, i fenomeni franosi attivi e il danneggiamento dei filari, in diretta correlazione temporale e causale con gli interventi del 2009.
Pertanto, la Corte ha riformato in parte qua la decisione impugnata, condannando il Comune di Canevino al pagamento di Euro 176.902,09, oltre interessi dalla data del deposito della c.t.u., in favore dei sig.ri COGNOME a titolo di risarcimento dei danni accertati. È restata ferma, perché non oggetto di gravame, la condanna alla messa in sicurezza dell ‘ alveo del rio Scuropasso, già disposta con sentenza passata in giudicato.
Avverso tale pronunzia della Corte d ‘ appello di Milano il Comune di Colli Verdi ha proposto ricorso per Cassazione con quattro motivi, illustrati da memoria.
3.1. NOME, NOME, NOME, NOME, NOME e NOME COGNOME hanno resistito con controricorso.
Il Collegio si è riservato il deposito nei successivi sessanta giorni.
RAGIONI DELLA DECISIONE
4.1. Con il primo motivo il Comune di Colli Verdi lamenta la violazione e falsa applicazione dell ‘ art. 101 c.p.c. (ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.), per violazione del principio del contraddittorio, poiché che il Giudice di primo grado ha ricondotto la domanda attorea all ‘ ambito applicativo dell ‘ art. 2051 c.c. senza che gli attori avessero mai dedotto né la titolarità in capo al Comune dei beni interessati dalle opere, né l ‘ esistenza di un potere di fatto sugli stessi tale da configurare un rapporto di custodia. Al contrario, il Comune aveva eccepito la genericità delle allegazioni attoree, richiamando la necessità di individuare specificamente vizi, danni e nesso causale.
La Corte d ‘ appello ha ritenuto legittima la qualificazione della domanda ai sensi dell ‘ art. 2051 c.c., affermando che il giudice può applicare d ‘ ufficio la norma giuridica pertinente, ma, ad avviso del ricorrente, tale affermazione sarebbe errata poiché il giudice non può fondare la propria decisione su fatti nuovi (nella specie, la custodia dei luoghi) mai dedotti né oggetto di contraddittorio.
Il Comune ribadisce che il torrente Scuropasso non rientra nel demanio comunale, ma fa parte del reticolo idrico principale di competenza regionale, come attestato nella c.t.u., e che l ‘ intervento comunale era avvenuto su autorizzazione regionale, con prescrizioni tecniche. Da ciò deriverebbe l ‘ erroneità della decisione impugnata, fondata su un presupposto fattuale (custodia) non allegato né discusso in seno al processo.
4.2. Con il secondo motivo parte ricorrente, con riferimento all ‘ art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., lamenta l ‘ errata applicazione dell ‘ art. 2051 c.c.
Il Comune di Colli Verdi censura la sentenza impugnata per violazione dell ‘ art. 2051 c.c., ritenendo erronea la qualificazione giuridica operata dai giudici di merito. Sostiene che, nella specie, non si tratterebbe di danni cagionati dalla cosa in custodia (l ‘ alveo o il versante), bensì di danni derivanti dall ‘ attività esecutiva dei lavori di sistemazione idrogeologica appaltati dal Comune, ciò che escluderebbe in radice l ‘ applicabilità dell ‘ art. 2051 c.c., in base ai principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità (viene evocato, in proposito, il precedente di Cass. n. 41907/2021).
Inoltre, il Comune contesta l ‘ assunto secondo cui sarebbe stato custode del bene. Osserva, al riguardo, che esso non è titolare del demanio idrico, spettante alla Regione, e che i lavori sono stati eseguiti su autorizzazione di quest ‘ ultima, che ha impartito specifiche prescrizioni tecniche (come attestato nella c.t.u.). Ne deriva, secondo il ricorrente, che non sussistono né la proprietà né il potere di fatto sul bene, condizioni necessarie per configurare la custodia.
Anche qualora si ritenesse sussistente un obbligo di custodia, la responsabilità ex art. 2051 c.c. dovrebbe comunque escludersi per l ‘ impossibilità, da parte del Comune, di esercitare un controllo effettivo e continuo su un ‘ estesa porzione di territorio, trattandosi di un ‘ area ampia e morfologicamente complessa (comprendente più versanti e alvei), ricadente in un bacino idrografico articolato. Secondo Cass. n. 1257/2018, la presunzione di responsabilità di cui all ‘ art. 2051 c.c. non opera quando l ‘ estensione del bene rende impraticabile un ‘ adeguata vigilanza.
Alla luce di tali rilievi, si assume che la responsabilità del Comune debba essere esclusa o, quanto meno, valutata secondo i principi
generali dell ‘ art. 2043 c.c., e non sulla base della custodia ex art. 2051 c.c., come invece ritenuto dalla Corte territoriale.
I due motivi – congiuntamente esaminati per evidente stretta connessione – sono in parte inammissibili e in parte infondati.
Sono inammissibili, in primo luogo, nella parte in cui, pur prospettando, formalmente, una violazione di legge, sono intesi a sollecitare una diversa ricostruzione dei fatti di causa, in particolare contestando l ‘ accertamento della sussistenza di un rapporto di custodia tra il Comune e i luoghi interessati dal dissesto. Trattandosi di censure che mirano a una rivalutazione del materiale probatorio, esse risultano estranee al perimetro del sindacato di legittimità consentito dall ‘ art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. (cfr., ex multis , Sez. U, Sentenza n. 34476 del 27/12/2019).
I motivi risultano, per il resto, infondati.
La Corte d ‘ appello ha correttamente rilevato che, nel giudizio di merito, il Comune si era limitato a contestare l ‘ applicazione dell ‘ art. 2051 c.c. in quanto non invocato dagli attori, e non aveva mai dedotto che il giudice avesse fondato la decisione su un fatto nuovo e non oggetto di contraddittorio.
Varrà, in proposito, ribadire che la domanda di accertamento della responsabilità da custodia (ai sensi dell ‘ art. 2051 c.c.) deve essere considerata, dal giudice d ‘ appello, diversa e nuova (e, dunque, inammissibile), rispetto a quella che in primo grado aveva avuto ad oggetto la normale responsabilità per fatto illecito (ai sensi dell ‘ art. 2043 c.c.) solo nel caso in cui essa implichi l ‘ accertamento di fatti in tutto o in parte diversi da quelli allegati e provati nel primo giudizio. Pertanto, allorquando, invece, sin dall ‘ atto introduttivo della causa l ‘ attore abbia causalmente riferito direttamente al fatto della cosa (nella specie, ai ponteggi che avevano consentito l ‘ accesso dei ladri all ‘ immobile della ricorrente danneggiata), l ‘ invocazione della speciale responsabilità di cui all ‘ art. 2051 c.c. si
risolve nella richiesta di una diversa qualificazione giuridica del fatto, consentita al giudice d ‘ appello (cfr., Cass. n. 4591/2008; Cass. n. 23741/2011; Cass. n. 196/2025) e, comunque, nei gradi successivi di giudizio, purché tanto non implichi la lesione del diritto di difesa delle parti (Cass. n. 31330/23).
Nel caso di specie, correttamente, dunque, il giudice d ‘ appello ha affermato che non sussiste alcuna violazione del contradditorio, posto che il Giudice è libero di qualificare la domanda secondo le norme di diritto applicabili alla fattispecie; fattispecie che risulta delineata dalle allegazioni in fatto di quanto lamentato.
Ancora, la Corte d ‘ appello ha accertato in fatto, applicando i principi elaborati da questa Corte, che il Comune esercitava un potere di fatto sui luoghi oggetto del dissesto, integrando così un rapporto di custodia idoneo a fondare la responsabilità ex art. 2051 c.c.
Infatti, secondo l ‘ orientamento venutosi consolidando nella giurisprudenza di questa Corte (v., ex aliis , Cass. 17/03/2021, n. 7553; 11/06/2021 n. 16609; 04/11/2021, n. 31601; 18/12/2021, n. 41709), la conclusione di un appalto di opere non comporta in alcun modo la perdita della custodia da parte del committente, non essendo in alcun modo sostenibile che la consegna dell ‘ immobile, affinché vi siano eseguiti i lavori, equivalga a un corrispondente «trasferimento» del ruolo di custode verso i terzi, poiché una simile evenienza finirebbe con l ‘ integrare una sorta di esonero contrattuale da responsabilità nei confronti di chi del negozio non è parte (Cass. 31239/2022). In tema di appalto, la consegna del bene all ‘ appaltatore non fa venir meno il dovere di custodia e di vigilanza gravante sul committente, sicché questi resta responsabile, alla stregua dell ‘ art. 2051 c.c., dei danni cagionati ai terzi dall ‘ esecuzione dell ‘ opera, salvo che provi il caso fortuito, quale limite alla detta responsabilità oggettiva, che può coincidere
non automaticamente con l ‘ inadempimento degli obblighi contrattualmente assunti nei confronti del committente, bensì con una condotta dell ‘ appaltatore imprevedibile e inevitabile nonostante il costante e adeguato controllo (esercitato – se del caso – per il tramite di un direttore dei lavori) (Cass. 31601/2021).
Pertanto, la sentenza impugnata ha correttamente applicato i principi enunciati da questa Corte, tra cui quello per cui il committente di opere pubbliche risponde ex art. 2051 c.c. dei danni arrecati a terzi in conseguenza dell ‘ esecuzione delle opere stesse, non venendo meno per ciò solo il suo obbligo di custodia (Cass., sez. III, 22 aprile 2022, n. 12909).
Con il terzo motivo il Comune prospetta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1223 e 2056 c.c. (ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.)
Il Comune di Colli Verdi censura la sentenza impugnata per avere erroneamente liquidato in favore degli attori un risarcimento pari a Euro 176.902,09, in palese violazione dei principi che governano la determinazione del danno ex artt. 1223 e 2056 c.c., con effetto ultracompensativo e indebito arricchimento.
In primo luogo, parte ricorrente rileva che la voce principale del danno – pari a Euro 157.554,68 – si riferisce alle opere di ripristino degli alvei e del loro equilibrio idrogeologico, già oggetto della condanna contenuta nella sentenza di primo grado (divenuta definitiva) alla messa in sicurezza della zona. Di conseguenza, la Corte d ‘ appello ha duplicato la condanna, imponendo al Comune sia l ‘ obbligo di eseguire le opere, sia il pagamento della somma necessaria per realizzarle.
In secondo luogo, il Comune contesta la risarcibilità delle ulteriori voci di danno, atteso che – come già eccepito nel giudizio di merito e ribadito dal consulente tecnico – parte dei fondi agricoli si trova in fascia di rispetto assoluto ex art. 96, comma 2, lett. f), R.D. n.
523/1904, dove la coltivazione è vietata. Non potendo coltivare tali aree, il danno lamentato (da perdita di reddito o da necessità di ripristino) risulterebbe insussistente.
Infine, si sottolinea come la c.t.u. abbia escluso la prova oggettiva del nesso causale tra eventuali vizi attuativi dei lavori e i dissesti lamentati. Inoltre, è stato accertato che l ‘ area era già soggetta a fenomeni franosi preesistenti. Anche per tali ragioni, il risarcimento riconosciuto risulterebbe eccedente rispetto all ‘ effettiva diminuzione patrimoniale subita.
La Corte territoriale, aderendo meccanicamente alle risultanze della tabella redatta dal consulente (Tab. 31), avrebbe omesso una verifica critica dell ‘ effettiva sussistenza di un danno emergente e del nesso causale, così violando i principi elaborati da Cass. SS.UU. n. 16601/2017 e Cass. n. 29251/2021, secondo cui il risarcimento non può tradursi in un vantaggio per il danneggiato e deve corrispondere alla reale perdita patrimoniale subita.
6.1. Anche il terzo motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.
Sotto il primo profilo, il motivo si appalesa inammissibile nella parte in cui, pur formalmente prospettando la violazione degli artt. 1223 e 2056 c.c., è volto a sollecitare a questa Corte una diversa valutazione delle risultanze istruttorie, con particolare riguardo all ‘ adesione della Corte territoriale alle conclusioni peritali contenute nella c.t.u.
A tal riguardo, come ripetutamente affermato da questa Corte, la censura di errata quantificazione del danno non è ammissibile in sede di legittimità ove non investa un vizio giuridico in senso proprio, ma si risolva in una critica all ‘ apprezzamento del giudice del merito, cui spetta valutare le risultanze della consulenza tecnica d ‘ ufficio (v. Cass. civ., sez. III, 18/07/2022, n. 22532; Cass. n. 282/2009; Cass. n. 12703/2015; Cass. n. 23594/2017). Il giudice
del merito, quando aderisce alle conclusioni del consulente tecnico, che nella relazione abbia tenuto conto, replicandovi, dei rilievi dei consulenti di parte, esaurisce l ‘ obbligo della motivazione con l ‘ indicazione delle fonti del suo convincimento; non è, quindi, necessario che egli si soffermi anche sulle contrarie allegazioni dei consulenti tecnici di parte che, seppur non espressamente confutate, restano implicitamente disattese perché incompatibili con le conclusioni tratte. In tal caso, le critiche di parte, che tendano al riesame degli elementi di giudizio già valutati dal consulente tecnico, si risolvono in mere argomentazioni difensive, che non possono configurare il vizio di motivazione previsto dall ‘ art. 360 n. 5 cod. proc. civ. (Cass. 33742/2022; Cass. n. 1815/2015).
Il motivo risulta altresì inammissibile per difetto di specificità.
Il ricorrente si limita, infatti, a trascrivere una tabella della c.t.u. (Tab. 31), senza indicare i passaggi non condivisi dell ‘ elaborato peritale, né le puntuali critiche che sarebbero state formulate in sede di merito. In particolare, non sono riportate nel ricorso le specifiche contestazioni articolate nel giudizio d ‘ appello, né viene allegata la sede processuale in cui sarebbero state tempestivamente formulate. Né può rilevare, in senso contrario, il mero rinvio alle osservazioni dei consulenti tecnici di parte, peraltro dichiarate inammissibili dalla Corte d ‘ appello per tardività, ai sensi dell ‘ art. 195, comma 3, c.p.c., come da motivazione congruente e non censurata sul punto (v. Cass. civ., sez. III, 12/06/2018, n. 15196).
Aggiungasi poi che per censurare, sotto il profilo dell ‘ insufficienza motivazionale, una sentenza che abbia fatto proprie le conclusioni della consulenza tecnica d ‘ ufficio, è necessario che la parte interessata alleghi di aver mosso specifiche contestazioni alla consulenza già dinanzi al giudice di merito e ne trascriva, nel
ricorso per cassazione, almeno i passaggi salienti, al fine di consentire la verifica della loro rilevanza e decisività. In mancanza, la doglianza si risolve in una richiesta di riesame del merito, inammissibile in sede di legittimità (v. Cass. civ., Sez. I, ord. 15/11/2017, n. 27136; Cass. civ., Sez. I, 3/06/2016, n. 11482).
Sotto altro profilo, la complessiva doglianza in esame è anche infondata.
Contrariamente a quanto dedotto, la Corte territoriale ha chiaramente distinto, con puntuale motivazione (cfr. pagg. 23-24 sentenza impugnata) non attinta da specifica e appropriata censura, le voci di danno risarcibili rispetto alle opere di messa in sicurezza, oggetto di separata condanna con il capo di sentenza non impugnato e ormai definitivo. In particolare, la voce di danno quantificata in € 157.554,68 non corrisponde – contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente – al costo delle opere necessarie per la messa in sicurezza, ma al costo per il ripristino delle superfici a vigneto erose, in quanto tali direttamente rientranti nella perdita patrimoniale subita dagli attori.
La CTU svolta in grado di appello, espressamente disposta per supplire alle gravi carenze dell ‘ elaborato peritale di primo grado, ha accertato con chiarezza sia i danni già verificatisi alla data di espletamento delle indagini (e quindi risarcibili), sia la permanenza di un rischio attuale per le proprietà, per fronteggiare il quale sono state indicate, e quantificate separatamente, le opere necessarie a fini preventivi (Tab. 33 CTU, € 148.727,73).
La sentenza impugnata ha quindi correttamente valorizzato solo i danni attuali, documentati e riferibili causalmente ai lavori eseguiti dal Comune, confermando che l ‘ obbligo risarcitorio non si sovrappone a quello ripristinatorio già stabilito con statuizione definitiva. Nessun indebito arricchimento, dunque, è configurabile
in capo agli attori, né risulta violato il principio della compensatio lucri cum damno .
Con il quarto motivo parte ricorrente deduce la violazione dell ‘ art. 115 c.p.c., per travisamento della prova peritale e, segnatamente, per erronea percezione del contenuto oggettivo della consulenza tecnica d ‘ ufficio, rilevabile in sede di legittimità come errore di fatto ai sensi dell ‘ art. 360, n. 4, c.p.c., nei limiti chiariti dalla giurisprudenza di legittimità.
Secondo la prospettazione del ricorrente, la Corte d ‘ appello avrebbe erroneamente fatto proprie le conclusioni della CTU nella parte in cui liquida, tra i danni patrimoniali risarcibili, anche la somma di € 157.554,68, relativa alle opere di ripristino dell’ alveo del torrente e delle sue sponde. Si tratterebbe, tuttavia, di un importo coincidente con le opere di messa in sicurezza dei luoghi già oggetto di condanna nel capo 1 della sentenza di primo grado, non impugnato e quindi passato in giudicato.
La Corte d ‘ appello, pur dando atto dell ‘ intervenuto giudicato sul punto, avrebbe incluso nella liquidazione del danno una voce coincidente con l ‘ obbligo di facere già accertato, in palese contrasto con quanto emerge dalla lettura del prospetto riepilogativo (Tabella 31) redatto dal consulente tecnico e richiamato a pag. 120 della relazione peritale. A tale rilievo si aggiungono le osservazioni difensive dell ‘ appellante, formulate nella comparsa conclusionale, volte a contestare l ‘ indebita duplicazione del danno.
Tale travisamento del contenuto oggettivo dell ‘ elaborato peritale integrando un errore percettivo su una prova documentalmente acquisita e oggetto di discussione tra le parti – vizierebbe la motivazione della sentenza impugnata e comporterebbe, conseguentemente, la nullità della decisione per violazione del principio dispositivo e del divieto di attribuire rilevanza probatoria a circostanze in modo erroneo o travisato.
7.1. Il motivo è inammissibile.
Secondo i più recenti insegnamenti di questa Corte, riunita nel suo massimo consesso, il travisamento della prova, per essere censurabile in Cassazione, ai sensi dell ‘ art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., per violazione dell ‘ art. 115 c.p.c., postula: a) che l ‘ errore del giudice di merito cada non sulla valutazione della prova (‘demonstrandum’), ma sulla ricognizione del contenuto oggettivo della medesima (‘demonstratum’), con conseguente, assoluta impossibilità logica di ricavare, dagli elementi acquisiti al giudizio, i contenuti informativi che da essi il giudice di merito ha ritenuto di poter trarre; b) che tale contenuto abbia formato oggetto di discussione nel giudizio; c) che l ‘ errore sia decisivo, in quanto la motivazione sarebbe stata necessariamente diversa se fosse stata correttamente fondata sui contenuti informativi che risultano oggettivamente dal materiale probatorio e che sono inequivocabilmente difformi da quelli erroneamente desunti dal giudice di merito; d) che il giudizio sulla diversità della decisione sia espresso non già in termini di possibilità, ma di assoluta certezza (Cass. 9507/2023; Cass. S.U. n. 5792/2024).
Pertanto, il travisamento del contenuto di un atto processuale può rilevare in sede di legittimità solo qualora si traduca in un errore percettivo immediatamente e direttamente desumibile dal testo della decisione impugnata, insuscettibile di valutazione o diversa lettura testuale, condizione non ricorrente nel caso di specie.
E, nella specie, vi è un giudizio che implica una lettura meditata dei passaggi esposti: ciò che, appunto, esclude un travisamento.
Per l ‘ inammissibilità dei singoli motivi, prima della loro infondatezza, il ricorso va dichiarato inammissibile.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.
P. Q. M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità in favore della controricorrente, che liquida in complessivi Euro 4.000,00, oltre Euro 200 per esborsi, oltre accessori di legge e spese generali.
Ai sensi dell ‘ art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente al competente ufficio di merito, dell ‘ ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis del citato art. 13.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza