Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 25131 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3 Num. 25131 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 18/09/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 8526/2022 R.G. proposto da:
COGNOME NOME, elettivamente domiciliato in INDIRIZZO (domicilio digitale) , presso lo studio dell’avvocato NOME AVV_NOTAIO COGNOME (CODICE_FISCALE) che lo rappresenta e difende
-ricorrente-
contro
COGNOME NOME, elettivamente domiciliato in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE) che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE)
-controricorrente-
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di TORINO n. 19/2022 depositata il 11/01/2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 28/06/2024 dal Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
1.- COGNOME NOME, n. q. di socio, amministratore e poi liquidatore della società RAGIONE_SOCIALE, propone ricorso per cassazione articolato in tre motivi ed illustrato da memoria nei confronti del AVV_NOTAIO COGNOME, per la cassazione della sentenza n. 19 del 2022, pubblicata dalla Corte d’appello di Torino l’11 gennaio 2022, notificata il 26 gennaio 2022 e regolarmente prodotta in copia notificata.
Resiste il AVV_NOTAIO COGNOME con controricorso.
– Questa è la vicenda giudiziaria per quanto ancora rilevante:
COGNOME NOME, già socio, amministratore e poi liquidatore della società RAGIONE_SOCIALE conveniva in giudizio il commercialista della società, AVV_NOTAIO, assumendo che lo stesso avesse danneggiato la società non inserendo nel bilancio di liquidazione della società il credito d’imposta Irap e Ires, in tal modo impedendo alla stessa di recuperarlo, e che il commercialista l’avesse mal rappresentata davanti alla commissione tributaria regionale, davanti alla quale la società era uscita soccombente, e non lo avrebbe informato dell’esito negativo del giudizio dinanzi alla commissione tributaria, precludendo il ricorso per cassazione, ove avrebbe avuto buone probabilità di vittoria.
Dinanzi al tribunale il commercialista produceva due documenti (una scrittura sottoscritta dal COGNOME per presa visione del dispositivo della decisione della commissione tributaria e una mail), atti a
dimostrare che aveva reso edotto il cliente dell’esito negativo del ricorso alla commissione tributaria. Il COGNOME negava di aver mai ricevuto la mail, non disconosceva la firma in calce alla scrittura privata, ma assumeva che la stessa fosse stata completata abusivamente.
– Il Tribunale di Novara rigettava le domande, ritenendo non raggiunta la prova del riempimento abusivo, contro i patti, della scrittura privata prodotta dal commercialista.
– La Corte d’appello di Torino, con la sentenza qui impugnata, confermava il rigetto della domanda risarcitoria ritenendo presumibile che la consegna a mani proprie del dispositivo della sentenza della commissione tributaria fosse stata preceduta da una comunicazione informale o da uno scambio di email.
Riteneva, a fronte dei vari elementi di prova acquisiti, non plausibile che il COGNOME avesse avuto conoscenza della pronuncia della CTR solamente attraverso una propria autonoma consultazione all’Agenzia delle entrate. Escludeva che fosse raggiunta la prova della mancata informazione da parte del commercialista nei confronti del cliente in relazione all’esito del secondo grado di giudizio e riteneva anche plausibile che il commercialista avesse informato il cliente della opportunità di proporre ricorso per Cassazione a mezzo di un legale esperto della materia, non essendo il commercialista abilitato al patrocinio in Cassazione. Aggiungeva che, comunque, una volta informato dell’esito del giudizio, spettava al cliente informarsi e rivolgersi ad un professionista competente ed abilitato.
– La causa è stata avviata alla trattazione in camera di consiglio, all’esito della quale il Collegio ha riservato il deposito della decisione nei successivi sessanta giorni.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.- Con il primo motivo di ricorso il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione di norme in materia di oneri della prova, in particolare degli articoli 2712, 2697, 1218, 1373 e 1334 c.c.
Ricorda che la Corte d’appello di Torino, come già il tribunale, ha ritenuto sulla base di meri indizi provato il ricevimento da parte del COGNOME della mail, disconosciuta dal ricorrente, con la quale il professionista avrebbe assolto ai suoi obblighi di informazione comunicandogli l’esito negativo del giudizio d’appello e la necessità di procedere a mezzo di un legale alla proposizione del ricorso per cassazione.
Il ricorrente ripercorre il ragionamento motivazionale formulato dalla corte d’appello, secondo il quale giacché il COGNOME non è riuscito a provare l’abusivo riempimento del foglio firmato in bianco attestante la ricevuta del dispositivo della sentenza d’appello, può ritenersi indiziariamente provato che abbia ricevuto la mail di informazione di poco precedente.
Sostiene che la duplice affermazione sulla quale si fonda il rigetto della sua domanda è apodittica e contrasta con le norme citate, in particolare con l’art. 2712 c.c., a mente del quale il messaggio di posta elettronica è un documento elettronico e forma piena prova dei fatti e delle cose rappresentate soltanto se non ne viene disconosciuta la conformità ai fatti o alle cose medesime (richiama in proposito Cass. n. 19155 del 2019 ed altre).
Avendo il ricorrente disconosciuto tempestivamente il documento prodotto come mail a lui indirizzata, sostiene che questa avrebbe perduto ogni valore probatorio. Segnala di aver più volte ribadito nel corso del giudizio il disconoscimento del documento, ovvero di aver negato di aver ricevuto quella mail, invocando l’inversione dell’onere della prova.
Sostiene che, avendo lui negato di aver mai ricevuto la mail, la stessa avrebbe perso ogni valenza probatoria, non essendo la controparte
riuscita a provare di averla effettivamente inoltrata, per cui sarebbe rimasto sfornito di prova l’adempimento degli obblighi professionali di informazione e sollecitazione da parte del professionista.
Per quanto riguarda la consegna della comunicazione relativa al dispositivo della sentenza, che reca in calce la firma del COGNOME, questi non ha disconosciuto la propria firma ma ha allegato di aver prefirmato un foglio in bianco, poi riempito abusivamente dal commercialista. Sostiene in ogni caso che la consegna del mero dispositivo non può sostituire l’apparato informativo completo che il professionista era tenuto a fornire al cliente per ottemperare ai suoi obblighi di rappresentanza e assistenza, tanto più di fronte a un’ipotesi di soccombenza. Segnala che già in precedenza aveva accolto i consigli del commercialista e che, se questi gli avesse consigliato di ricorrere per cassazione, l’avrebbe fatto con buone probabilità di accoglimento.
1.2. – Sempre all’interno dello stesso motivo denuncia poi la violazione o falsa applicazione degli articoli 2697 e 1218 c.c. perché era il COGNOME, accusato di negligenza professionale, che avrebbe dovuto provare di aver efficacemente informato il cliente in particolare sulle possibilità processuali successive alla sentenza d’appello.
Aggiunge che la mail segnalava che la difesa della società davanti alla Cassazione non poteva essere assunta dal commercialista ma era necessario un legale abilitato, la comunicazione del COGNOME implicava, implicitamente, una rinuncia al mandato che avrebbe avuto bisogno di una più esplicita e anche tempestiva dichiarazione per mettere in condizioni il cliente di munirsi di un nuovo professionista. In particolare, il commercialista avrebbe dovuto formulare una comunicazione ricettizia di recesso dall’incarico e avrebbe dovuto dare prova del ricevimento di tale dichiarazione.
Assume che, ai fini della dichiarazione unilaterale di recesso dal contratto di mandato, che è un negozio unilaterale ricettizio, non può
ritenersi sufficiente allo scopo di ritenere espletati gli incombenti connessi al recesso la valutazione indiziaria che la mail contenente il recesso sia stata ricevuta.
Al contrario, il COGNOME avrebbe dovuto provare che il cliente avesse ricevuto la comunicazione e, non avendo ricevuto risposta alla sua mail che il cliente ha poi disconosciuto, il professionista avrebbe dovuto procedere ad una seconda comunicazione formale, a mezzo di lettera raccomandata AR o PEC, al fine di assicurarsi che il suo recesso dal mandato fosse giunto a conoscenza del cliente.
1.3. – Infine, sempre all’interno del primo motivo, sviluppa una terza censura, cioè sottolinea che, in relazione agli articoli 1373 e 1334 c.c., la sentenza impugnata si pone in contrasto con la dottrina e la giurisprudenza maggioritaria laddove afferma che si può ritenere provata indiziariamente la ricezione da parte del cliente della mail.
– Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione delle norme in materia di responsabilità professionale del commercialista ex artt. 2236, 1176 e 1218 c.c.
Sostiene il ricorrente che, quand’anche avesse ricevuto il dispositivo della sentenza d’appello, non poteva ritenersi comunque esclusa la grave responsabilità del commercialista per il suo comportamento. Sostiene che la valutazione della corte d’appello corrisponda a una ricostruzione eccessivamente riduttiva degli obblighi di diligenza e perizia a carico dei professionisti nello svolgimento delle prestazioni intellettuali ed anche a un’indebita quanto frustrante limitazione delle aspettative di tutela da parte del cliente, che non ha la competenza tecnica necessaria in relazione appunto a quelle materie per le quali si affida al professionista.
Ritiene pertanto che, anche se si volesse ammettere che il commercialista abbia informato il cliente dell’esito negativo del ricorso alla commissione tributaria, lo stesso non avrebbe in tal modo comunque esaurito i suoi compiti di completa e corretta informazione
e di assistenza al cliente nella finalizzazione positiva della pratica di rimborso. A tal fine, avrebbe dovuto estrarre copia integrale della sentenza per esaminarne le motivazioni e dopo l’esame delle motivazioni avrebbe dovuto consigliare il cliente se impugnare o meno, specificando i termini ed indicando la necessità di rivolgersi a che l’unico ad avere estratto copia integrale della sentenza è stato proprio il cliente, a distanza di tempo, quando si è recato direttamente alla commissione tributaria.
un avvocato, mentre risulta per tabulas Per informarlo adeguatamente avrebbe dovuto spedirgli una comunicazione ricettizia mediante un mezzo idoneo a fornire prova certa del ricevimento oppure in caso di mail semplice sincerarsi di aver ricevuto risposta e assicurarsi che la comunicazione fosse giunta al destinatario e non fosse finita nella spam.
Ritiene quindi che nessuna prova di un pieno adempimento dell’obbligo contrattuale di trasparenza, informazione e sollecitazione è stata fornita dal convenuto.
Quanto alla distribuzione degli oneri probatori, il ricorrente sottolinea che grava sul professionista l’onere di dimostrare l’adempimento dei suoi obblighi a fronte dell’accusa di non aver informato il cliente dei termini e della possibilità di proporre ricorso per Cassazione, comportamento integrante colpa grave ai sensi dell’art. 2236 c.c., per cui la Corte d’appello avrebbe male applicato le regole sull’onere della prova.
Sottolinea che c’era, all’epoca almeno, una elevata probabilità che il ricorso per Cassazione avrebbe visto la vittoria dell’attuale ricorrente, che gli è stata preclusa dalla mancata informazione con la quale il commercialista ha irrimediabilmente impedito al cliente attore di recuperare il suo credito d’imposta facendogli subire un danno diretto a causa della omissione negligente dell’obbligo di informazione.
Segnala infine, richiamando un precedente di legittimità ( Cass. n. 13007 del 2016), che in ogni caso la condotta del COGNOME lo
renderebbe responsabile verso il ricorrente e la disciolta società per perdita di chance.
3. – Con il terzo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli articoli 99, 112 e 115 c.p.c. e la nullità della sentenza per vizio di ultrapetizione, là dove la Corte d’appello, valutando i documenti prodotti, ha ritenuto che da uno dei documenti si potesse ritenere anche se esso appariva contrastante con altro documento prodottoche in effetti fosse stata inviata copia integrale della sentenza al commercialista. Denuncia che l’affermazione integri un vizio di ultrapetizione, nel senso che la Corte d’appello avrebbe formulato un argomento difensivo a favore del dottor COGNOME senza che neppure lo stesso COGNOME avesse attribuito quella valenza al documento prodotto.
4. – Il ricorso è complessivamente infondato .
Il primo motivo presenta profili di inammissibilità, perché finalizzato a contestare l’accertamento in fatto compiuto dalla corte d’appello sull’avvenuto adempimento dell’obbligo di informazione da parte del commercialista.
La decisione di merito è coerente, peraltro, con le più recenti affermazioni di legittimità in ordine al valore da attribuire alle mail. Si è recentemente affermato che, in merito al valore da attribuire alle comunicazioni inviate mediante posta elettronica semplice, i princìpi desumibili dalla legge sono pochi e semplici, e possono così riassumersi: (a) il messaggio di posta elettronica sottoscritto con firma ‘semplice’ è un documento informatico ai sensi dell’art. 2712 c.c.; (b) se non ne sono contestati la provenienza od il contenuto, forma piena prova dei fatti e delle cose rappresentate [così già Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 11606 del 14/05/2018, Rv. 648375 – 01; Sez. 2, Ordinanza n. 30186 del 27.10.2021 (in motivazione, pag. 4); Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 3540 del 6.2.2019; una conferma a contrario di tali princìpi si ricava anche da Sez. 2 – , Ordinanza n. 22012 del 24/07/2023, la quale ha negato che una e-mail priva di firma
elettronica avanzata soddisfi il requisito della forma scritta, ma solo se tale forma sia richiesta ad substantiam negotii]; (c) se ne sono contestati la provenienza od il contenuto, il giudice non può espungere quel documento dal novero delle prove utilizzabili, ma deve valutarlo in una con tutti gli altri elementi disponibili e tenendo conto delle sue caratteristiche intrinseche di sicurezza, integrità, immodificabilità ( da Cass. n. 14046 del 2024)
La mail semplice è dunque un documento informatico scritto che entra nel processo e che deve essere valutato dal giudice.
Quanto alla ricezione delle comunicazioni a mezzo mail, si è più volte affermato che il titolare dell’indirizzo mail ne è responsabile, nel senso che non può limitarsi a negare di aver mai ricevuto la comunicazione, ma deve controllare che la ricezione della posta non sia bloccata e che i messaggi non siano finiti nella spam, rimanendo nella sua responsabilità la mancata conoscenza di un messaggio che gli sia stato regolarmente inviato e del quale non abbia preso conoscenza per il malfunzionamento della sua casella di posta elettronica o perché finito nella spam.
Nel caso di specie, la corte d’appello ha preso atto che esiste un documento, firmato dal ricorrente per ricezione, che contiene la firma non disconosciuta del ricorrente, con il quale questi riceve la comunicazione del dispositivo della decisione della CTR. Il ricorrente non è riuscito a provarne l’abusivo riempimento. Sulla base di questo, ha ritenuto accertato che la mail informativa fosse stata inviata al ricorrente, ed ha ritenuto assolto l’obbligo informativo.
5. – Anche il secondo motivo è infondato, perché a quanto emerge pianamente dalle affermazioni dello stesso ricorrente, l’incarico professionale conferito al commercialista era ben più ampio della singola questione oggetto della controversia, per cui lo stesso non era tenuto a formalizzare alcuna rinuncia al mandato, tanto meno in relazione ad una attività ancora da intraprendere (l’eventuale ricorso per cassazione da proporre), per la quale non era stato ancora
incaricato, doveva semplicemente assolvere i suoi obblighi di informazione.
-Infine anche il terzo motivo è infondato, non essendo configurabile il vizio di ultrapetizione se il giudice interpreta e valuta la portata di un documento prodotto, da qualsiasi parte esso sia stato prodotto, perché esso fa ormai parte del contesto probatorio su cui è tenuto a pronunciarsi.
Il ricorso deve quindi essere complessivamente rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come al dispositivo. Il ricorso per cassazione è stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013, e la parte ricorrente risulta soccombente, pertanto è gravata dall’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dell’ art. 13, comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Pone a carico della parte ricorrente le spese di giudizio sostenute dalla parte controricorrente, che liquida in complessivi euro 2.500,00, oltre 200,00 per esborsi, oltre contributo spese generali ed accessori.
Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.
Così deciso nella camera di consiglio della Corte di cassazione il 28