Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 9721 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 9721 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 14/04/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 1721/2022 R.G. proposto da : NOME, NOME COGNOME, RISTORANTE RAGIONE_SOCIALE DI NOME RAGIONE_SOCIALE, NOME, elettivamente domiciliati in ROMA INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE) rappresentati e difesi dall’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE
-ricorrente-
contro
NOME COGNOME domiciliato ex lege presso il domicilio indicato nella PEC dall’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE
-controricorrente-
nonchè contro NOME COGNOME RAGIONE_SOCIALEUK) LIMITED -intimati- avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO MILANO n. 1758/2021 depositata il 04/06/2021.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 22/11/2024 dal Consigliere NOME COGNOME
Svolgimento del processo
NOME COGNOME, in proprio e quale socio legale rappresentante pro tempore della società RAGIONE_SOCIALE, NOME COGNOME e NOME COGNOME, entrambi personalmente e quali soci della ‘AmalfitanaRAGIONE_SOCIALE, con atto di citazione notificato il 22 settembre 2016, convenivano in giudizio avanti il Tribunale di Pavia il commercialista NOME COGNOME che aveva curato per anni la contabilità della medesima ‘Amalfitana’ incaricato di svolgere, sia la consulenza commercialistica, che quella del lavoro. Il rapporto professionale aveva riguardato l’intero esercizio 2010. Gli attori esponevano che nel corso del 2012 l’Agenzia delle Entrate, aveva avviato una verifica generale nei confronti della ‘Amalfitana’ in riferimento propri o all’annualità 2010.
In sede di verifica l’Agenzia aveva dato atto dei ‘costanti saldi negativi’ conteggiando come ricavi non dichiarati le uscite di denaro contante annotate nei giorni in cui il conto cassa portava un saldo negativo. Con tale metodo gli accertatori individuavano la somma di euro 374.159,57 come ricavi ‘in nero’.
Di qui l’addebito di colpa grave nei confronti del dott. COGNOME Quest’ultimo non si sarebbe preoccupato di avvertire i propri assistiti che le risultanze del conto cassa avrebbero comportato dei rilievi che la società e i soci personalmente effettivamente avevano subito. Il
professionista era responsabile dell’accaduto, sia perché il conto era redatto dal suo studio, come del resto tutta la contabilità, sia in quanto talune movimentazioni, che avevano portato al risultato negativo, erano state elaborate dal commercialista senza alcuna corrispondenza alla realtà.
I danni richiesti dagli attori ammontavano ad euro 594.981,50, pari alle maggiori imposte, contributi e sanzioni liquidati dall’Agenzia delle Entrate.
Si costituiva in giudizio il NOME COGNOME contestando la sussistenza di una responsabilità personale, ‘nell’an e nel quantum’ e chiedeva di poter chiamare in giudizio la propria compagnia assicuratrice, RAGIONE_SOCIALE con la quale aveva stipulato la polizza per la responsabilità professionale dei commercialisti.
La RAGIONE_SOCIALE si costituiva in giudizio con comparsa di risposta del 5 aprile 2017.
Il Giudice disponeva CTU contabile che pur rilevando criticità nell’attività espletata dal commercialista, escludeva la sussistenza del nesso causale tra gli avvisi di accertamento e la condotta del professionista, fatta eccezione delle sanzioni irrogate per la non corretta tenuta della contabilità.
Davanti alla Commissione Tributaria adita per contestare l’accertamento l’importo dovuto veniva rideterminata in euro 131.296,00 per maggiori imposte ed euro 116.895,20 per sanzioni. Con sentenza del 12 settembre 2019 il Tribunale di Pavia respingeva le domande risarcitorie proposte degli attori. Secondo il Tribunale non ricorreva un nesso causale tra il danno e la condotta ascritta al convenuto in quanto le maggiori imposte non costituivano un danno ingiusto, ma l’effetto dell’accertamento e la conseguenza della violazione delle norme tributarie. Sarebbe stato necessario provare che quelle imposte non erano dovute. In secondo luogo, riteneva priva di supporto probatorio la tesi secondo la quale l’inserimento
della società nel programma dei controlli fosse dovuta all’errata compilazione dello studio di settore. L’erronea compilazione del conto cassa non sarebbe imputabile al commercialista, il quale non è tenuto a verificare l’attendibilità dei dati forniti dal cliente.
Avverso tale decisione gli attori proponevano appello e si costituivano il NOME e l’assicuratore.
La Corte d’Appello di Milano, con sentenza del 4 giugno 2021, rigettava l’appello. La sentenza faceva proprie la rationes iudicandi enunciate dal Giudice di primo grado. In particolare, la Corte, pur dando atto delle inadempienze del dott. COGNOME e dell’ave re quest’ultimo tenuto un libro cassa in negativo affermava che l’attore non aveva provato il danno e il nesso di causalità, ossia che l’attività di controllo svolta dall’Amministrazione finanziaria e gli accertamenti e le sanzioni fossero conseguenza delle asserite negligenze.
Avverso detta sentenza propongono ricorso per Cassazione la RAGIONE_SOCIALE e i soci NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME affidandosi a sette motivi. Resiste con controricorso NOME COGNOME.
Entrambe le parti depositano memorie ex art. 380 bis c.p.c.
Motivi della decisione
Con il primo motivo si censura la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1218 e 2697 cod. civ. in relazione all’art. 360, ca. 1, n. 3, c.p.c. In particolare, la Corte territoriale avrebbe violato la regola dell’onere della prova in tema di responsab ilità contrattuale a carico del commercialista in ordine alla redazione di un libro cassa, tenuto in violazione di standard minimi di professionalità e ritenuti dal ricorrente irrazionali. La Corte avrebbe erroneamente posto a carico dell’attore la prova d el nesso causale, anche nel caso di responsabilità contrattuale, mentre sarebbe stato sufficiente allegare l’inadempimento del professionista.
La censura è infondata.
Costituisce orai principio giurisprudenziale consolidato quello secondo cui anche in caso di responsabilità contrattuale il regime di distribuzione dell’onere probatorio di cui all’art. 1218 c.c. fa gravare sull’attore la prova del nesso causale fra la condotta dell’obbligato inadempiente e il pregiudizio di cui si chiede il risarcimento e sulla parte che si assume inadempiente (o non esattamente adempiente) l’onere di fornire la prova positiva dell’avvenuto adempimento (o dell’esattezza dello stesso) (Cass. Sez. 6 -3, n. 8849 del 31/03/2021, Rv. 660991 – 01)
In materia di responsabilità professionale, tali principi sono stati affermati dalla nota decisione n. 18392 del 2017 di questa Corte. Riguardo all’onere della prova (anche) quando è dedotta una responsabilità contrattuale per inesatto adempimento, grava sul danneggiato dimostrare il nesso di causalità, tra evento dannoso e la condotta anche omissiva del contraente. Spetta, invece, a quest’ultimo dimostrare (ma solo dopo la dimostrazione del nesso causale da parte dell’attore) che l’esatta esecuzione della prestazione è divenuta impossibile per una causa imprevedibile e inevitabile.
La decisione citata descrive il doppio ciclo causale. Il primo, che consiste nella dimostrazione del nesso eziologico ed è a carico dell’attore danneggiato; il secondo, che individua l’onere probatorio a carico del presunto inadempiente, sorge solo se il danneggiato ha dimostrato il nesso causale tra la condotta del convenuto e l’evento dannoso.
L’evento di danno è comune ad ogni ipotesi di responsabilità, sia contrattuale che extracontrattuale. Esiste, quindi, un ‘tronco comune’ delle azioni di danno, in cui gli oneri di prova del danneggiato sono uguali. Sia nella responsabilità contrattuale, che in quella extracontrattuale, l’attore deve provare il nesso causale.
Principio poi ribadito dalle dieci sentenze del cd ‘progetto sanità’. In particolare, le due sentenze gemelle, nn. 28991-2 del 2019
ribadiscono il principio che, nel caso di responsabilità contrattuale, il danneggiato deve provare il nesso di causalità tra il danno e la condotta del contraente, anche a mezzo di presunzioni.
Sotto tale profilo occorre distinguere il concetto di causalità che è criterio oggettivo, dal concetto di imputazione, che riguarda invece la colpa e che è soggettivo.
Infatti, la causalità attiene alla relazione probabilistica, svincolata da ogni riferimento alla prevedibilità soggettiva (cioè alla imputazione), tra condotta del contraente ed evento di danno. Ma la causalità attiene, anche, al rapporto tra evento di danno e conseguenze risarcibili. Mentre non riguarda la colpa e comunque l’elemento soggetto.
La Corte territoriale ha fatto corretta applicazione di tali criteri.
Il principio secondo cui anche la responsabilità contrattuale richiede la prova del nesso causale costituisce un effetto dell’interpretazione del primo comma dell’articolo 1227 c.c. che disciplina il fenomeno della causalità materiale, rispetto un danno evento, occupandosi del concorso del fatto colposo del creditore.
L’art. 1227 c.c, applicabile anche alla responsabilità contrattuale, si occupa dell’apporto di terzi elementi esterni alla condotta di chi è obbligato e richiede una verifica sulla rilevanza della causalità e cioè sulla relazione probabilistica tra condotta ed evento di danno, per acclarare l’esistenza di eventuali fattori estranei, costituiti dalla condotta di un terzo o dalla condotta del danneggiato.
La Corte territoriale si è attenuta a tale principio affermando la necessità della prova del nesso causale riferito al contenuto dell’obbligo contrattuale.
Secondo parte ricorrente la Corte territoriale non avrebbe tenuto in conto che il commercialista era incaricato dell’intera contabilità e anche della consulenza del lavoro per cui la sua responsabilità non può essere assimilata a quella di un professionista semplicemente
incaricato di presentare talune dichiarazioni fiscali o redigere taluni documenti sulla base dei dati trasmessigli dal cliente.
La censura non può essere esaminata in questa sede. Rispetto alla valutazione delle prove relative alla ricostruzione fattuale del nesso causale è inibito a questa Corte di esprimere un sindacato perché si tratta di prerogative di esclusiva competenza del giudice di merito. Infatti, i ricorrenti denunciando presunti vizi della sentenza gravata, -giuridico, ma sollecitano, in realtà, un non ne intaccano l’iter logico riesame dei fatti precluso in sede di legittimità.
Ed infatti, i ricorrenti tentano di ottenere una nuova valutazione nel merito delle vicende di causa, mediante una rivisitazione dei fatti e una rivalutazione delle risultanze istruttorie acquisite, per giungere all’affermazione della sussistenza del presunto inadempimento del dott. COGNOME e del nesso di causalità tra gli stessi e la richiesta di maggiori imposte, interessi e sanzioni da parte dell’Agenzia delle Entrate.
Con il secondo motivo si lamenta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1218, 1176, 2230 e 2236 cod. civ., in relazione all’art. 360, ca. 1, n. 3, c.p.c.; violazione dell’art. 112, c.p.c. per omessa pronuncia, in relazione all’art. 360, n. 4, c.p .c. In particolare, si censura l’affermazione secondo cui il professionista, nella predisposizione della contabilità, può limitarsi a recepire i dati che gli vengono forniti dal cliente e senza fornire la prova di tale circostanza. Senza distinguere tra cassa contanti e studio di settore, la Corte dichiara di condividere quanto ‘sul punto’ sarebbe stato rilevato dal Tribunale, ossia che il professionista si sarebbe ‘limitato a trascrivere i dati forniti dal proprio cliente’. Secondo una errata valutazione della Corte il cliente non avrebbe titolo per dolersi delle prestazioni rese dal dott. COGNOME perché esse sarebbero il risultato di una propria condotta negligente. Contrariamente a quanto assunto dalla Corte di merito, il dott. COGNOME non avrebbe trascritto dati trasmessi dal cliente.
Secondo i ricorrenti al Romeo non era stato contestato in citazione di avere annotato erroneamente dati corretti, ma ‘i costanti saldi negativi del conto cassa contanti (Euro 374.159,57)’ dei quali dà atto la sentenza impugnata. Sarebbe stata censurata la rappresentazione di un’obiettività contabile ‘aberrante’, quale un saldo costantemente negativo, per di più per un importo esorbitante per una pizzeria di una città di provincia. Lo stesso approccio riguarda lo studio di settore richiesto al professionista.
Il motivo è inammissibile sotto due profili.
In primo luogo, perché dedotto in violazione dell’articolo 366, n.6 c.p.c. Pur trattandosi di error in procedendo è onere della parte trascrivere i passaggi essenziali attestanti la chiara formulazione delle contestazioni dedotte in citazione al fine di circoscrivere con esattezza l’area dell’inadempimento.
Sotto altro profilo il motivo è inammissibile perché nuovo.
La tesi secondo cui il dott. COGNOME in quanto incaricato della tenuta della contabilità e della consulenza del lavoro, avrebbe avuto una responsabilità più estesa di quella tipica del commercialista e sarebbe stato chiamato a ‘individuare ed elaborare in concreto i dati’ non compare tra i motivi presi in esame dal giudice di secondo grado. Parte ricorrente avrebbe dovuto trascrivere il corrispondente motivo di appello per dimostrare di avere sottoposto al giudice la questione. Con il terzo motivo si deduce la violazione e/o falsa applicazione, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., degli artt. 1218, 1176, ca. 2, 2203, 2697 cod. civ., nonché dell’art. 24 Cost.
I ricorrenti lamentano l’inversione dell’onere della prova. Il commercialista avrebbe contestato la prima nota ritenendola errata. Non vi sarebbe, invece, la prova della restituzione della cd prima nota e lo stesso libro cassa sarebbe stato riconsegnato dopo alcune diffide e quando già i verificatori avevano avuto accesso all’azienda. L’invocata esimente quindi non sarebbe provata.
La Corte, in adesione a quanto sostenuto dal Tribunale con la statuizione appellata, ha ritenuto che la produzione di tale documento sarebbe stata ‘onere degli attori in quanto volta a dimostrare l’adempimento dell’obbligo di leale collaborazione del cliente nei confronti del professionista’. Quest’assunto, secondo i ricorrenti, sarebbe errato. Le affermazioni della Corte, riguardanti il preteso onere del cliente di dimostrare che l’inadempimento è dovuto in via esclusiva alla negligenza del professionista, ed il preteso onere del cliente di produrre la prima nota per dimostrare l’adempimento di un proprio obbligo di leale collaborazione, sarebbero errate.
Non sussisterebbe un obbligo a carico del cliente di fornire la cd prima nota e in ogni caso, nel caso di mancata produzione, il commercialista avrebbe dovuto dimostrare di avere segnalato per tempo tale inadempimento del cliente.
Sotto altro profilo il commercialista incaricato della tenuta delle scritture contabili sarebbe in grado di accorgersi dell’anomalia contabile di saldo costantemente negativo della cassa contanti e che ciò in sede di accertamento tributario fa presumere che il cliente abbia conseguito ricavi non dichiarati.
Il motivo è infondato ed è assorbito dalla argomentazione della Corte territoriale della mancata dimostrazione del nesso causale tra la condotta del professionista e l’evento dannoso.
Va solo aggiunto che l’eventuale incongruità dello studio di settore, la doglianza relativa alla annotazione dei dati e l’individuazione del soggetto tenuto ad esibire la prima nota, non hanno determinato alcun automatismo nell’accertamento che, come rilev ato dalla Corte, sarebbe stato avviato in virtù di un’autonoma iniziativa dell’Agenzia delle Entrate, come rilevato dal CTU.
Con il quarto motivo si deduce la violazione dell’art. 2729 c.c. in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c.; la violazione dell’art. 360, n. 5, c.p.c. in relazione all’omesso esame di fatti decisivi; la violazione
dell’art. 132 c.p.c. per mancanza di motivazione, ai sensi dell’art. 360, n. 4, c.p.c., (quanto all’affermazione che il dott. COGNOME si sarebbe limitato a trascrivere nello studio di settore i dati fornitigli). Con il motivo si censura la violazione delle regole sulla responsabilità professionale e sulla prova. La Corte d’Appello avrebbe omesso di considerare tutti gli elementi che secondo la CTU dimostravano l’inadempienza e le responsabilità del professionista.
Il motivo apparentemente dedotto anche quale violazione dell’art. 132 c.p.c. ed ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c. si risolve, nella realtà, in una lunga elencazione di circostanze fattuali e deduzioni contenute negli scritti difensivi di merito che sarebbero state ignorate dalla Corte territoriale e che costituirebbero l’ipotesi di fatto storico decisivo e discusso dalle parti ai sensi del n. 5 dell’art. 360 c.p.c.
Tale censura è inammissibile ricorrendo l’ipotesi di doppia conforme attesa la identità degli accertamenti in fatto e delle ragioni di diritto poste alla base delle sentenze di primo e di secondo grado, che, sulla base degli atti e documenti di causa e della CTU, hanno escluso la sussistenza del nesso di causa tra gli addebiti al medesimo rivolti e gli esiti della verifica tributaria.
L’articolo 348 ter ultimo comma c.p.c. non consente il ricorso per cassazione ai sensi dell’articolo 360, n. 5 c.p.c. Per evitare la declaratoria di inammissibilità parte ricorrente avrebbe dovuto dimostrare che le sentenze di merito si fondano su presupposti di fatto differenti.
Il ricorrente ha dedotto che tale identità fattuale non vi sarebbe perché il Tribunale aveva dato atto che ‘parte convenuta sul punto ha allegato che egli si è limitato a trascrivere di dati forniti dal proprio cliente’. Il Tribunale avrebbe deciso in diri tto sulla sola base della censurata inversione dell’onere probatorio riguardante la produzione della c.d. prima nota, tanto che il giudice di prime cure si sarebbe limitato a rilevare la assenza di ‘prova della consistenza dei dati che sono stati trasmessi ‘ e quindi non dimostrato che ‘l’erronea
compilazione del conto cassa contanti’ fosse ‘opera esclusiva’ del Romeo e fosse a lui imputabile.
Ma tali elementi, sono dedotti in violazione dell’art. 366 n. 6 c.p.c. e esposti in maniera assolutamente generica e riferiti, non alla motivazione delle due decisioni, ma alle deduzioni delle parti. Pertanto, non consentono di ritenere provato il differente presupposto fattuale tra le due decisioni dei giudici di merito.
Per il resto i motivi sono inammissibili perché sotto l’apparente violazione di legge si censura la motivazione della Corte d’appello nella parte in cui, dopo avere valutato il materiale probatorio, conformemente a quanto ritenuto dal giudice di prime cure, ha affermato che la parte onerata non aveva assolto tale onere. Prospettata in questi termini la censura si sostanzia in un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità esclusivamente ai sensi dell’articolo 360, n. 5 c .p.c. (Cass, n. 38202020). Ipotesi, quest’ultima, non azionabile per quanto già detto in tema di doppia conforme.
Con il quinto motivo si rileva la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1218 e 1223 c.c., e del canone ‘più probabile che non’, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c.
La statuizione si fonderebbe esclusivamente sul rilievo, già svolto dalla sentenza di primo grado e dal C.T.U., secondo il quale sarebbe ‘documentalmente accertato che il controllo fiscale di cui è stata oggetto la ‘RAGIONE_SOCIALE‘ sia stato frutto dell’inserimento di quest’ultima nella lista di controllo predisposta dall’Agenzia delle Entrate di Pavia’.
Al contrario, secondo i ricorrenti, quando l’Agenzia ha incluso la Amalfitana nel programma annuale, ossia ‘quando ha disposto il controllo, non aveva altri indicatori di anomalia, se non lo studio di settore non congruo, inattendibile negli indici di redditività ed errato financo nella descrizione dell’attività (ristorazione anziché pizzeria)’.
Sotto altro profilo, ai fini della corretta osservanza degli artt. 1218 e 1223 cod. civ. la Corte avrebbe dovuto applicare la regola del ‘più probabile che non’ ed in tale modo, il giudizio finale sarebbe stato certamente diverso, perché sulla base del criterio in questione non si sarebbe potuta che riconoscere la sicura rilevanza eziologica dell’apporto inadempiente del professionista.
Il motivo è inammissibile perché generico.
In sostanza si sostiene la mancata applicazione del criterio del più probabile e che tale parametro, se correttamente inteso, avrebbe consentito di ritenere sussistente il nesso causale tra condotta professionale ed evento dannoso.
Tale assunto si fonda però su generiche deduzioni sganciate da specifiche censure riguardanti la violazione di norme giuridiche da parte della Corte, che ha correttamente osservato che la non congruità del reddito dichiarato rispetto ai ricavi stimati dallo studio di settore non era ascrivibile al commercialista NOME COGNOME ma al basso livello dei ricavi dichiarati dalla ‘RAGIONE_SOCIALE‘ rispetto alle potenzialità produttive della stessa, quali stimate dallo strumento statistico e poi concretamente accertate dal personale dell’Agenzia delle Entrate.
Inoltre, il motivo non contiene alcuna specifica censura riguardo alla violazione delle norme di legge. Il riferimento va all’art. 11 D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, all’art. 8 D.L. 2 marzo 2012, n. 16 e ciò al fine di dimostrare che i parametri di formazione delle liste dei contribuenti da sottoporre a verifica fiscale erano influenzate dalle risultanze degli studi di settore o, come sostenuto in ricorso, da specifici inadempimenti del commercialista.
Con il sesto motivo si lamenta la violazione dell’art. 360, n. 5, c.p.c. in relazione all’omesso esame di fatti decisivi; la violazione dell’art. 132 c.p.c. per mancanza di motivazione, ai sensi dell’art. 360, n. 4, c.p.c., (quanto alla ritenuta assenza di rilievo causale delle irregolarità del libro cassa). La violazione e/o falsa applicazione, ai
sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., degli artt. 2709 e ss. cod. civ. e dei principi in materia di contabilità ed accertamenti fiscali e dell’art. 39 DPR 600/73.
Con il motivo si censura la sentenza impugnata per aver violato le regole che disciplinano la materia della contabilità dell’imprenditore rispetto agli accertamenti fiscali. La Corte avrebbe omesso di valutare l’efficacia probatoria della contabilità, rife rita ad una un libro cassa tenuto violando gli standard di diligenza e di razionalità.
Il motivo è inammissibile per quanto detto con riferimento alla censura precedente. La doglianza ex art. 350 n. 5 c.p.c. è preclusa nell’ipotesi di doppia conforme.
Nella decisione impugnata si ribadisce che ‘gli avvisi di accertamento emessi dall’Agenzia delle Entrate non hanno avuto come presupposto causale l’irregolare tenuta del conto cassa contanti’ (p. 22). Tali apprezzamenti secondo i ricorrenti non sarebbero presenti alla sentenza di primo grado e ciò consentirebbe di non ricadere nel divieto previsto dall’art. 348 ter c.p.c. a dimostrazione della differenza tra i presupposti di fatto esaminati e valutati dai giudici di primo e secondo grado.
Anche con riferimento a tale motivo la doglianza è formulata in violazione dell’art. 366 n. 6 c.p.c. che richiede di trascrivere la parte della motivazione della decisione di primo grado (e di appello) relativa a tale profilo per dimostrare la diversità delle argomentazioni e dei fatti posti a fondamento della sentenza.
Per il resto si tratta della prospettazione di una ricostruzione più appagante e favorevole alla tesi dei ricorrenti priva della specifica censura dei diversi passaggi della decisione impugnata con indicazione puntuale delle norme violate.
Con il settimo motivo si deduce la violazione e/o falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360, n3, c.p.c., degli artt. 1218 e 1223 cod. civ., nonché dell’art. 39, ca 2, D.P.R. n. 600/1973. Si censura, in particolare, la pronuncia in tema di regole applicate per escludere la
sussistenza di un danno risarcibile. I giudici di merito non avrebbero considerato il valore probatorio e la disciplina della contabilità nell’accertamento fiscale e delle conseguenze pregiudizievoli che derivano dalla violazione, da parte del commercialista che ne sia incaricato, di standard e regole minime di diligenza.
In particolare, in sede di merito gli appellanti, avevano censurato la sentenza del Tribunale anche laddove questa aveva ritenuto che non vi fosse ‘danno risarcibile perché, alla fine, l’imprenditore ha pagato le imposte dovute e, comunque, gli attori non hanno allegato e dimostrato che le imposte dovute erano minori di quelle accertate’. La Corte d’Appello ha escluso la sussistenza del nesso causale tra l’errata redazione del libro cassa contanti e l’accertamento medesimo.
L’argomentazione sarebbe errata riguardo alla configurazione dell’inadempimento e del danno risarcibile giacché la Corte d’Appello avrebbe affrontato il caso come se si fosse trattato di valutare in sede tributaria la fondatezza, nei suoi esiti conclusivi, dell’accertamento subito dalla ‘Amalfitana’.
La fattispecie oggetto di giudizio attiene, si legge in ricorso ‘alla quintessenza della responsabilità civile del commercialista: l’esito conclusivo del processo tributario è a tutti gli effetti un danno risarcibile perché nessun accertamento e, quindi, nessun processo tributario avrebbe dovuto esservi se il dott. NOME avesse adempiuto correttamente’.
Il motivo è infondato perché si risolve nella riproposizione della tesi della sussistenza del nesso di causalità materiale già trattato nei precedenti motivi (come si legge in ricorso, l’accertamento non vi sarebbe stato se il commercialista avesse operato correttamente).
Sotto altro profilo è inammissibile perché non si confronta con la decisione impugnata laddove si sostiene che ‘un saldo cassa costantemente negativo fa presumere l’esistenza di ricavi non dichiarati legittimando l’accertamento del reddito in via induttiva’.
Tale aspetto non riguarda la prova del nesso causale, ma i criteri di verifica in sede di accertamento, che nulla hanno a che vedere con il contributo in termini di causalità materiale del commercialista rispetto alle ragioni per le quali è stato svolto l’ accertamento.
Per il resto, i ricorrenti sostengono che il cliente avrebbe un astratto interesse al corretto adempimento da parte del professionista. Tale condivisibile affermazione non ha nulla a che vedere con il profilo del nesso di causalità giuridica tra condotta del professionista ed evento. In tema di causalità giuridica, la prova del nesso causale risponde alla domanda se un determinato evento sia risarcibile civilmente. In questo caso i giudici di merito hanno correttamente rilevato che l’eventuale inadempimento del professionista rispetto a singole prestazioni non ha prodotto un evento risarcibile perché non vi è sato alcun danno economico effettivo.
Mentre riguardo alla causalità materiale (che risponde al quesito, chi è il responsabile del fatto?) la Corte territoriale ha escluso la riferibilità dell’accertamento fiscale alla condotta del professionista.
Il ricorso deve essere pertanto rigettato con condanna al pagamento delle spese di lite.
Ricorrono i presupposti per l’applicazione dell’art. 96, comma 3, c.p.c., atteso che il ricorso per cassazione è basato su motivi manifestamente infondati o reiteratamente privi di autosufficienza, contenenti una mera complessiva richiesta di rivalutazione nel merito della controversia o, ancora, fondati sulla deduzione del vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., attesa l’applicazione dell’art. 348-ter, comma 5, c.p.c., che ne esclude la invocabilità (Cass. Sez. 3, 27/02/2019, n. 5725, Rv. 652838 – 02).
Sussistono i presupposti processuali ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del d.p.r. 115 del 2002, per il versamento, da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1bis dello stesso articolo 13.
PTM
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese in favore del controricorrente, liquidandole in € 7.700,00 per compensi, ivi comprese spese forfettarie nella misura del 15 per cento, ivi compresi esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge. Condanna i ricorrenti al risarcimento dei danni in favore del controricorrente ai sensi dell’art. 96, co. 3, c.p.c., liquidati equitativamente in complessivi euro 7.500,00.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del d.p.r. 115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1bis dello stesso articolo 13.
Così deciso nella camera di Consiglio della Terza Sezione della Corte