Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 11906 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 11906 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 03/05/2024
Ordinanza
sul ricorso n. 2349/2019 proposto da:
NOME NOME , difeso dagli avvocati NOME COGNOME ed NOME COGNOME;
-ricorrente-
contro
COGNOME NOME e per lui gli eredi ( COGNOME NOME, NOME e NOME, nonché NOME NOME), difesi dagli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME;
-controricorrenti e ricorrenti incidentali-
avverso la sentenza della Corte di appello di Catanzaro n. 698/2018 dell’11/04/2018.
Ascoltata la relazione del consigliere NOME COGNOME.
Fatti di causa
Nel 2004 il committente NOME COGNOME conviene dinanzi al Tribunale di Catanzaro l’appaltatore NOME COGNOME per il risarcimento dei danni da vizi dell’opera appaltata nel 1987 (costruzione di un edificio a tre piani per abitazione). L’ attore allega che il convenuto ha realizzato i pilastri e il solaio, senza ultimare poi i lavori (tranne quelli del terzo piano). A distanza di oltre dieci anni (alla fine del 2002) si rinvengono lesioni sulle travi di fondazione.
Promosso un a.t.p., il c.t.u. accerta che l’ impiego di una quantità di cemento inadeguata ha causato una resistenza alla compressione minore al necessario. Da ciò le lesioni. Previo accertamento del vizio, il committente domanda in giudizio (in un primo tempo senza qualificare il tipo di azione esercitata) la condanna del convenuto al pagamento di circa € 16.494 , quale costo del consolidamento dell’opera , cifra poi aumentata a € 56.462 per l’aggravarsi in corso di giudizio delle conseguenze dei vizi (come constatato dalla c.t.u.). Il convenuto qualifica il contratto come d’opera e non di appalto ed eccepisce la prescrizione annuale ex art. 2226 c.c., in subordine quella biennale ex art. 1667 co. 3 c.c. In primo grado la domanda è rigettata per la prescrizione annuale ex art. 1669 c.c. (per il mancato inizio del processo entro l’anno dalla denunzia ; peraltro, si accerta anche la mancata dimostrazione che è stato osservato il termine di denuncia). In secondo grado, la pronuncia di primo grado è riformata, con condanna del convenuto al pagamento di circa € 16.494.
Ricorre in cassazione l’appaltatore convenuto con due motivi, illustrati da memoria. Resiste il committente attore con controricorso e ricorso incidentale con tre motivi.
Ragioni della decisione
1. – Il primo motivo del ricorso principale (p. 6) denuncia la violazione dell’art. 1669 c.c. (responsabilità dell’appaltatore per rovina e difetti di cose immobili) per avere la Corte di appello omesso di accertare il decorso del termine decennale del rapporto di responsabilità dell’appaltatore nei confronti del committente. L’appaltatore fa valere che il contratto di appalto aveva ad oggetto la costruzione di pilastri e di solai e che tali lavori sono stati completati nel 1988, mentre il grave difetto si è manifestato solo nel 2002, con il «rinvenimento di lesioni sulle travi di fondazione e lo sfaldamento del cemento», come è stato allegato dal committente in sede di ricorso per a.t.p. L’appaltatore conclude quindi che il termine di dieci anni
dall’ultimazione d ei lavori è decorso al momento del presentarsi evidente del grave difetto.
Il secondo motivo del ricorso principale (p. 11) denuncia che la Corte di appello ha ritenuto provata la responsabilità dell’appaltatore sulla base della c.t.u. e dell’a.t.p., malgrado i periti si siano avvalsi dell’operato della società che aveva già eseguito prove di resistenza sul calcestruzzo per conto del committente, test che erano confluiti in una consulenza tecnica di parte posta a fondamento della denunzia dei vizi. Si deduce: violazione dell’art. 116 c.p.c.
2. -Quanto ai motivi del ricorso incidentale, con i primi due (p. 11, p. 13) si denuncia che la Corte di appello ha ritenuto che, nonostante in corso di causa i danni fossero stati quantificati in circa € 56.462 , l’attore abbia limitato la propria domanda al pagamento di € 16.494 , cioè della cifra indicata in citazione, sull’erroneo presupposto che sia meramente di stile la clausola ivi contenuta con la quale si richiede la condanna ‘alla maggior o minor somma’ da accertare, mentre in realtà la richiesta nelle conclusioni rassegnate in primo grado è di € 56.462. Si deduce: violazione dell’art. 112 c.p.c., nonché omesso esame dei verbali di causa.
In via subordinata, il terzo motivo del ricorso incidentale (p. 15) denuncia la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, nonché del divieto di proporre domande nuove in appello, per non avere la Corte di appello rilevato che la domanda risarcitoria è stata esattamente quantificata (nella misura di circa € 56.462) nell’atto d’appello e che ciò costituisce una semplice modificazione, non un mutamento della domanda.
3.1. -Fondato è il primo motivo.
Con riferimento ad edifici (o ad altre cose immobili destinate per la loro natura a lunga durata), l’art. 166 9 co. 1 c.c. dispone -con decorrenza dal «compimento» – una durata decennale del rapporto di responsabilità dell’appaltatore nei confronti del committente, per il caso che l’opera, per vizio del suolo o per difetto della costruzione, rovini in tutto o in parte,
ovvero presenti evidente pericolo di rovina o gravi difetti , purché sia fatta la denunzia entro un anno dalla scoperta. Il secondo comma dell’art. 1669 c.c. completa la speciale disciplina, prevedendo che il diritto del committente si prescriva entro un anno dalla denunzia.
Nel caso di specie, sorge innanzitutto questione tra le parti se si sia avverato il «compimento» di cui all’art. 1669 co. 1 c.c. Il ricorrente ritiene che esso si sia avverato già nel 1988, poiché il contratto di appalto ha ad oggetto solo la costruzione di pilastri e di solai, che è stata completata appunto in quell’anno. Il controricorrente obietta che il compimento non si è mai avverato (e che quindi il rapporto di responsabilità dell’appaltatore nei confronti del committente non si è ancora esaurito), poiché rilegge il contratto di appalto e vi trova che esso ha ad oggetto non l’edificazione unicamente di pilastri e di solai, bensì la costruzione dell’intero stabile completo in ogni sua parte.
Sul punto, la Corte di appello dà torto ad entrambe le parti, poiché confina nell’ irrilevanza la questione relativa a ll’oggetto dell’appalto : «Occorre infatti considerare -argomenta la Corte – che la responsabilità regolata dall’art. 1669 c.c. ha natura non contrattuale, derivando da un fatto idoneo a produrre obbligazioni in conformità dell’ordinamento giuridico, ex art. 1173 c.c. ed è, pertanto, esclusivamente a tale disciplina che occorre fare riferimento in caso di rovina e difetti di immobili, anche laddove l’opera appaltata non sia stata ultimata».
3.2. – La sentenza impugnata richiama l’orientamento di questa Corte (cfr. Cass. 28233/2017), in modo (fino a questo punto) corretto. Per completezza è opportuno riportare la parte finale del principio di diritto enunciato (a p. 11) da questa Corte: «nel caso in cui l’opera appaltata non venga ultimata, non trovano applicazione le norme dettate in tema di risoluzione del contratto per inadempimento dagli artt. 1453 ss. c.c., dovendosi far riferimento in via esclusiva all’art. 1669 c.c.».
Tale passo conclusivo assume un rilievo chiarificatore per la pronuncia sul caso di specie in prospettiva nomofilattica.
Per gli immobili destinati a lunga durata, l’art. 1669 c.c. imputa all’appaltatore una responsabilità complessivamente più grave, soprattutto sotto il profilo della durata, che si atteggia come speciale rispetto alla responsabilità per i vizi ex artt. 1667-1668 c.c. A sua volta, nell’ambito dell’appalto, la disciplina degli artt. 1667-1668 c.c. riveste carattere eccezionale rispetto alle regole generali della responsabilità nei contratti. Coerente con questo quadro normativo è appunto la conclusione enunciata da Cass. 28233/2017 (tra le altre). In caso di immobili destinati a lunga durata, ove sia fatta valere la responsabilità ex art. 1669 c.c., l’irrilevanza della circostanza che l’opera appaltata sia stata ultimata o meno, è una conseguenza logica della neutralizzazione (indotta da quel quadro normativo) delle regole generali sulla risoluzione del contratto per inadempimento (artt. 1453 ss. c.c.).
Tuttavia, l’art. 1669 c.c. contempla pur sempre il «compimento» fra gli elementi della propria fattispecie. Pertanto, dalla combinazione tra la cornice normativa della responsabilità in materia di appalto privato e il coerente orientamento della giurisprudenza di legittimità discende che la parola «compimento» de bba poter riferirsi anche a casi in cui l’opera appaltata non sia stata ultimata. Ciò non è una contraddizione in termini, ma proprio una conferma del carattere speciale dell’art. 1669 c.c. , innanzitutto rispetto agli artt. 1667-1668 c.c., come ci si avvia ad argomentare.
In caso di rovina, pericolo di rovina, gravi difetti, l ‘art. 1669 c.c. offre una (maggiore) tutela al committente. Siffatta maggiore tutela è da contemperare però con l’interesse imprenditoriale dell’appaltatore ad individuare con la maggiore certezza possibile il momento in cui il rapporto decennale di responsabilità si esaurisce. Ciò comporta innanzitutto l’esigenza di fissare in modo certo il dies a quo di decorrenza del termine, neutralizzando l’impatto negativo del maggiore fattore di incertezza: l ‘eventuale diatriba tra le
parti sul contenuto dell’obbligazione assunta dall’appaltatore in base al contratto di appalto (esemplare sotto tale profilo è l’attuale caso di specie) .
Il legislatore ha conseguito l’obiettivo delineando ex art. 1669 co. 1 c.c. una nozione di «compimento» autonoma rispetto all’oggetto dell’obbligazione che ha fonte nel contratto di appalto. Tale nozione rinviene, cioè, i propri tratti distintivi entro il campo tracciato dalla struttura e dalla funzione d ell’art. 16 69 c.c. Sul piano della struttura della fattispecie, saliente è l’assenza di qualsivoglia complemento di specificazione: «nel corso di dieci anni dal compimento» , senz’altro. Ciò suggerisce immediatamente all’interprete una lettura disciplinata e rigorosa, diretta a controllare (del resto inevitabili) precomprensioni, come quella di assumere che il significato della successiva parola («opera») coincida automaticamente (sempre e comunque) con l’«opera» di cui parla l’art. 1655 c.c. Le due parole possono – ma non debbono necessariamente (per tutto quanto si è argomentato nel corso di questo paragrafo) – significare la stessa cosa (la stessa opera).
3.3. – Proprio nel suo essere priva di complemento di specificazione, la parola «compimento» esibisce nondimeno -per così dire -una qualità di «intenzionalità», nel senso letterale del tendere ad altro da sé: essa chiede all’interprete di ascriverle quella specificazione di cui è priva. Infatti, la domanda: «compimento di che?» rimane ineludibile e trova risposta attraverso la proiezione delle istanze di regolazione scaturenti di volta in volta dalla concreta controversia da decidere, pur nel contesto della direttiva che l’art. 1669 c.c. offre all’interprete in prospettiva generale. Si tratterà quindi di concretizzare il significato del compimento di quei lavori o di quell’opera di cui si allega la rovina totale o parziale ovvero il manifestarsi con evidenza di un pericolo di rovina o di un grave difetto, indipendentemente dalla circostanza che tali lavori o tale opera coincidano (o meno) con l’o bbligazione oggetto del contratto di appalto.
Esemplare è il caso di specie: le lesioni sulle travi di fondazione e lo sfaldamento del cemento si sono «presentate evidenti» (nel senso di cui all’art.
1669 c.c.) nel 2022, mentre i lavori di cui si allega il grave difetto che le ha causate (la costruzione dei pilastri e di solai) si sono «compiuti» (sempre nel senso di cui all’art. 1669 c.c.) nel 1988. Entrambi tali fatti, che costituiscono gli elementi rilevanti per l’accertamento del la sussistenza del rapporto di responsabilità ex art. 1669 c.c. in capo all’appaltatore, sono incontestati nella loro collocazione temporale tra le parti. L’arco di tempo tra i due supera non di poco il decennio. Viceversa, le parti controvertono sul l’individuazione dell’opera assunta dall’appaltatore ad oggetto della propria obbligazione ex art. 1655 c.c., ma ciò è propriamente irrilevante. L’irrilevanza si accredita alla luce del concreto atteggiarsi del caso di specie, non già in linea generale. Ciò è frutto appunto della (relativa) autonomia (da concretizzare di volta in volta) dell’opera , dei lavori, dalla cui rovina o dal cui grave difetto sorge la responsabilità ex art. 1669 c.c., rispetto all’opera oggetto dell’obbligazione dell’appaltatore ex art. 1655 c.c. In altre costellazioni potrà ben accadere (e forse potrà essere anche l’evenienza più frequente) che, per l’effetto dell’art. 1669 c.c., si tratti esattamente del compimento della stessa opera oggetto del contratto di appalto.
3.4. L’argomentazione svolta nei nn. 3. 2. e 3.3. è un’implicazione logica tratta da Cass. 28233/2017, cui si dà continuità, aggiungendo che l’esigenza di certezza che presiede alla determinazione del dies a quo di decorrenza del termine decennale (ove una maggiore certezza si coniuga con un accorciamento della distanza tra il parametro e l’oggetto della valutazione) incontra conferme di realizzazione attraverso altri strumenti (irrilevanti nel caso di specie), come l’insensibilità a cause di sospensione o di interruzione del termine, cosicché il decennio ex art. 1669 c.c. si staglia nella sua qualità di «termine di sbarramento finale».
3.5. -A questo punto aperta è la strada diretta a cogliere l’errore in cui è incorsa la Corte di appello laddove (p. 8), dal rilievo che il fatto generatore della responsabilità del costruttore risiede nella «gittata del calcestruzzo palesemente privo di qualità idonea a sopportare le ordinarie tensioni e
pressioni», ha tratto la conseguenza che «il termine decennale non risulti compiuto, avuto altresì riguardo alla notoria ed ordinaria data di consolidamento della struttura in conglomerato cementizio».
Al contrario di quanto ritiene la Corte territoriale (e il controricorrente), tale soluzione non trova sostegno nella giurisprudenza di questa Corte. La Corte di appello invoca l’orientamento secondo il quale: « Ai fini della proponibilità dell’azione risarcitoria prevista dall’art. 1669 c.c. in caso di rovina o di gravi difetti di cose immobili destinate a durare nel tempo, il termine di dieci anni dal compimento dell’opera previsto da tale norma attiene alle condizioni di fatto che danno luogo a responsabilità del costruttore». Tale è, in effetti, la parte rilevante della massima di Cass. 5920/1993 (citata dalla Corte territoriale e ripresa dal controricorrente) che ha trovato ripetute conferme nella giurisprudenza di legittimità fino alla recente Cass. 13707/2023.
A fondamento della propria conclusione, la Corte di appello ne ha tratto: se il termine di dieci anni dal compimento dell’opera pr evisto dall’art. 1669 c.c. attiene alle «condizioni di fatto che danno luogo a responsabilità del costruttore» (così la massima estratta da Cass. 5920/1993, ma identica è quella da Cass. 13707/2023), nel caso di specie la condizione di fatto generatrice della responsabilità sarebbe la «gittata del calcestruzzo palesemente privo di qualità idonea a sopportare le ordinarie tensioni e pressioni». Tale condizione si è quindi verificata ben entro il decennio (anzi, già al momento della stessa costruzione), sebbene essa abbia impiegato molto tempo per manifestare il suo impatto lesivo, in considerazione della «notoria ed ordinaria data di consolidamento della struttura in conglomerato cementizio».
L’argomento è (apparentemente) disarmante. Cosicché (in un certo senso) disarmante ha da essere anche la risposta. L ‘ordinamento giuridico italiano rinviene le proprie fonti nel diritto, per come esso è scritto nella Costituzione, nei codici e nelle leggi e per come esso è di conseguenza
interpretato dalla giurisprudenza , ma l’interpretazione giurisprudenziale trova espressione esclusiva nel testo integrale delle sentenze, e non già nel testo delle massime, che non a caso (anche quando sono «ufficiali») sono estratte da un ufficio cui sono addetti magistrati che in quella qualità esercitano una funzione amministrativa, non giurisdizionale. Alle massime vanno riconosciute funzioni di documentazione e di euristica: esse sono uno strumento di ricerca e di selezione delle sentenze rilevanti per la trattazione e la decisione del caso.
Ne segue che la massima in questione, certamente rilevante, rinvia al testo della sentenza e il significato di questa, a sua volta, è da cogliere alla luce della sua funzione interpretativa dell’art. 1669 c.c. , ove si dispone esplicitamente che, nel «corso di dieci anni dal compimento», il grave difetto deve presentarsi come «evidente». Non a caso, nel testo della sentenza che costituisce una delle espressioni più recenti di questo indirizzo (Cass. 13707/2023, cit., p. 5 s.) si può leggere: «entro tale termine decennale devono verificarsi le condizioni di fatto che manifestano con evidenza il pericolo o il grave difetto della costruzione» (corsivo nostro, n.d.r.). Pertanto, la (parte di) massima giurisprudenziale di cui si discute è da leggere in questi termini: ai fini della proponibilità dell’azione risarcitoria prevista dall’art. 1669 c.c., in caso di rovina o di gravi difetti di cose immobili destinate a durare nel tempo, il termine di dieci anni dal compimento dell’opera previsto da tale norma attiene alle condizioni di fatto che rendono evidente la responsabilità del costruttore ovvero, in modo ancora migliore: che rendono evidente il pericolo di rovina o i gravi difetti (scontando il tacito presupposto che la rovina totale o parziale sia di per sé evidente). Nel caso di specie, il grave difetto si è «presentato evidente» a distanza di quasi quindici anni dal «compimento».
Il primo motivo del ricorso principale è accolto.
4. -Dall’accoglimento del primo motivo del ricorso principale segue l’assorbimento del secondo motivo del ricorso principale e del ricorso
incidentale. La sentenza è cassata in relazione al motivo accolto, la causa è rinviata alla Corte di appello di Catanzaro, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo del ricorso principale, dichiara assorbiti il secondo motivo del ricorso principale e il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, rinvia la causa alla Corte di appello di Catanzaro, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso a Roma l’8 /3/2024.