Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 6925 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 6925 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 15/03/2025
ORDINANZA
sul ricorso proposto da
COGNOME rappresentato e difeso dagli Avv.ti NOME COGNOME del foro di Venezia e NOME COGNOME del foro di Roma Contro
RAGIONE_SOCIALE
-intimata-
Nonché
COGNOME rappresentato e difeso dall’Avv. NOME COGNOME del foro di Venezia ed elettivamente domiciliato in Roma alla INDIRIZZO presso lo studio dell’Avv. NOME COGNOME
-controricorrente –
Nonché
Oggetto: Azione di responsabilità ex art. 2393 bis c.c.
NOMECOGNOME NOME e NOME quali
chiamati all’eredità di NOME
-intimati-
Avverso la sentenza della Corte di Appello di Venezia n. 1470/2020, depositata il 16.6.2020, non notificata.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del l’11.2 .2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
1 .-NOME COGNOME NOME COGNOME ed NOME COGNOME quali eredi di NOME COGNOME nonché NOME COGNOME hanno proposto appello avverso la sentenza pronunciata dal Tribunale di Venezia, Sezione specializzata in materia di impresa, il 4 gennaio 2019, con cui NOME COGNOME e NOME COGNOME sono stati condannati, in solido tra loro, a corrispondere a RAGIONE_SOCIALE, a titolo risarcitorio, la somma di euro 1.945.000,00, oltre rivalutazione monetaria ed interessi al tasso legale dal 10 settembre 2005.
NOME COGNOME, socio di RAGIONE_SOCIALE, aveva agito nei confronti di NOME COGNOME e NOME COGNOME, amministratori della detta società, sostenendo che i convenuti avevano venduto, negli anni 2003-2006, unità immobiliari del compendio denominato INDIRIZZO di Marocco per un prezzo superiore a quello indicato nei contratti, omettendo di far confluire nelle casse della società la differenza tra il prezzo effettivo e quello simulato; l’attore ha chiesto, in alternativa, che i convenuti fossero condannati al risarcimento del danno cagionato alla società mediante le vendite suddette, poste in essere a un prezzo inferiore del doppio a quello di mercato.
2.─ Il Tribunale di Venezia ha ritenuto che la simulazione del prezzo delle vendite e l’incameramento della differenza tra prezzo effettivo e prezzo simulato non fossero provati, e che fosse però dimostrata la mala gestio degli amministratori per aver venduto gli
immobili ad un prezzo inferiore di € 1.945.000,00 al loro complessivo valore di mercato. A tale conclusione il Tribunale è giunto dopo aver fatto espletare una consulenza tecnica d’ufficio.
3 .─ NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME hanno proposto gravame dinanzi alla Corte di appello di Venezia. NOME COGNOME ha spiegato appello incidentale.
Con la sentenza qui impugnata la Corte adita ha rigettato sia l’appello principale che quello incidentale.
Per quanto qui di interesse la Corte di merito ha precisato che: a) gli appellanti non avevano indicato quali sarebbero state le scelte gestionali che avrebbero indotto gli amministratori a vendere gli immobili ad un prezzo notevolmente inferiore al loro valore di mercato, in assenza di ragioni che imponessero una repentina liquidazione del patrimonio immobiliare;
l’insindacabilità delle scelte di gestione trova va un limite nella ragionevolezza delle stesse, da apprezzarsi ex ante secondo i parametri di diligenza del mandatario e tenendo conto della mancata adozione delle cautele, delle verifiche e delle informazioni preventive, normalmente richieste per una scelta prudente e diligente;
le ragioni addotte dagli appellanti per il loro agire non comprovavano un comportamento diligente;
la CTU aveva accertato uno scostamento tra il prezzo delle vendite delle porzioni immobiliari ed il più probabile valore di mercato delle stesse all’epoca dei rispettivi contratti di compravendita, pari ad euro 1.945.000,00;
i criteri di stima utilizzati erano stati indicati nella CTU e costituivano criteri oggettivi;
il CTU aveva adeguatamente valutato i luoghi nei quali erano collocati gli immobili e le loro specifiche caratteristiche;
il danno era consistito nel mancato incremento patrimoniale che la società avrebbe senz’altro conseguito se gli immobili fossero stati venduti a un prezzo coerente con il loro valore di mercato.
NOMECOGNOME NOME ha proposto un ricorso per cassazione su quattro motivi.
COGNOME NOME resiste con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
5.Con il primo motivo si deduce: violazione ed errata applicazione di norme di legge ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 360, n. 3, c.p.c., con riferimento agli artt. 2392, 2393 e 2476 c.c., anche con riferimento agli artt. 1176 e 1703 e ss. c.c.; omesso esame circa un fatto decisivo ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 360, n.5, c.p.c., ‘ per avere la sentenza impugnata erroneamente ritenuto che gli amministratori non avessero perseguito l’interesse sociale avendo venduto gli immobili sociali ad un prezzo inferiore ai valori di mercato, ove la sentenza impugnata ha omesso di individuare e valorizzare il concreto interesse sociale ‘ .
Si contesta la corretta applicazione delle norme che individuano l’obbligo degli amministratori di perseguire l’interesse della società, ritenendo che la sentenza appellata non abbia fondato la decisione sulla base dell’interesse sociale concretamente espresso dai soci nel caso concreto, ma su un concetto di interesse apodittico e non coerente con il concreto interesse della società.
5.1─ La Corte di appello ha accertato che la decisione di vendere una pluralità di immobili a un prezzo molto inferiore ai valori di mercato in assenza di ragioni che imponessero una sollecita liquidazione del patrimonio immobiliare si mostrava, quantomeno, gravemente negligente e ha spiegato poi, nel dettaglio, come risultassero infondate le deduzioni svolte al riguardo dagli appellanti. E’ stato dunque concretamente accertato che gli atti gestori adottati, in quanto antieconomici, erano contrari all’inte resse sociale: infatti,
almeno di regola, porre in atto plurime vendite a condizioni svantaggiose non soddisfa l’interesse sotteso allo svolgimento in comune di un attività imprenditoriale allo scopo di ritrarne un utile, secondo lo schema causale del 2247 c.c. Quanto alla questione relativa alla supposta ratifica dell’operato dell’organo amministrativo, che, secondo parte ricorrente, sarebbe desumibile dall’approvazione dei bilanci , il Giudice distrettuale si è occupato della questione a pag. 16 della sentenza impugnata e parte ricorrente manca di misurarsi efficacemente con la detta motivazione, la quale involge, comunque, un accertamento di fatto, non sindacabile in questa sede. Come è spiegato nel provvedimento impugnato, «che il socio abbia approvato il bilancio non è sufficiente ad allegare che ottenne adeguate informazioni sulle vendite, né che accertò che i risultati fossero coerenti con il mercato».
Nel complesso il motivo è inammissibile: tale è infatti il mezzo di censura che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (Cass. Sez. U. 27 dicembre 2019, n. 34776; in senso conforme: Cass. 4 marzo 2021, n. 5987).
6.Con il secondo motivo si deduce: violazione ed errata applicazione di norme di legge, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 360, n. 3, c.p.c., con riferimento agli artt. 2392, 2393 e 2476 c.c., anche con riferimento agli artt. 1176 e 1703 e ss. c.c., ‘ per avere la Corte d’Appello erroneamente ritenuto che la vendita di immobili sociali ad un prezzo inferiore ai valori di mercato, anche ove difforme dall’interesse sociale, costituisca di per sé violazione dei doveri degli amministratori ‘ . Si contesta la corretta applicazione delle norme che individuano i limiti entro cui il giudice può sindacare il merito della attività degli amministratori e la possibilità che il giudice faccia derivare la responsabilità degli amministratori dai meri risultati di
gestione, ritenendosi di contro necessario l ‘apprezzamento della della diligenza mostrata degli amministratori nel valutare le circostanze e gli elementi di contorno all’affare.
7 .─ Con il terzo motivo si deduce: violazione o falsa applicazione di legge in relazione alle norme in tema di onere della prova e in particolare dell’art. 2697 c.c. e all’art. 1218 c.c., in relazione all’art. 2476 c.c., con riferimento all’errata individuazione del soggetto onerato di provare gli elementi costitutivi della violazione e alle conseguenze del mancato soddisfacimento dell’onere probatorio. Si eccepisce la non corretta applicazione delle norme che individuano il riparto dell’onere probatorio tra attore nel giudizio di responsabilità e amministratori convenuti, particolarmente ove all’amministratore non sia imputata la violazione di specifici obblighi, legalmente individuati e in quanto tali immediatamente accertabili, ma comportamenti da cui gli amministratori devono astenersi nel rispetto del dovere di diligenza o di lealtà. In tali casi l’illecito è integrato da più elementi (fatto contrario all’interesse sociale, violazione del dovere di diligenza o di lealtà, danno arrecato da tale fatto) e tutti devono essere provati dall’attore che voglia sostenere l’inadempimento degli amministratori.
7.1─ Il secondo e il terzo motivo sono correlati e possono essere trattati unitariamente. Questa Corte ha più volte statuito che in tema di responsabilità dell’amministratore di una società di capitali per i danni cagionati alla società amministrata, l’insindacabilità del merito delle sue scelte di gestione (cd. business judgement rule ) trova un limite nella valutazione di ragionevolezza delle stesse, da compiersi sia ex ante , secondo i parametri della diligenza del mandatario, alla luce dell’art. 2392 c.c., sia tenendo conto della mancata adozione delle cautele, delle verifiche e delle informazioni preventive, normalmente richieste per una scelta di quel tipo e della diligenza mostrata nell’apprezzare preventivamente i margini di
rischio connessi all’operazione da intraprendere (Cass., n. 15470/2017; Cass., n. 12108/2020). Il principio della insindacabilità del merito delle scelte di gestione non si applica, quindi, in presenza di irragionevolezza, imprudenza o arbitrarietà palese dell’iniziativa economica (Cass., n. 8069/2024).
La Corte nel merito, come precedentemente evidenziato, ha fondato la sua motivazione proprio su tali verifiche per concludere, dopo un’ampia disamina degli esiti probatori , nel senso che ‘ non può esservi dubbio che la decisione di vendere una pluralità di immobili per un prezzo molto inferiore ai valori di mercato (valori che potevano essere facilmente accertati dagli amministratori) in assenza di ragioni che imponessero una repentina liquidazione del patrimonio immobiliare, si appalesi, quantomeno, gravemente negligente. Non può dunque dirsi che si sia trattato semplicemente di ‘ scelte inopportune dal punto di vista economico ‘ , dovendosi invece riconoscere che la condotta di COGNOME ed NOME integri una mala gestio ‘ .
Le censure non colgono, dunque, la ratio decidendi dell’impugnata pronuncia, da ravvisarsi nell ‘ imputabilità agli amministratori della condotta negligente consistente nella cessione dei cespiti immobiliari a prezzi di molto inferiore ai valori di mercato. I motivi sono perciò inammissibili.
8.─ Con il quarto motivo si deduce: violazione o falsa applicazione di legge ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 360 n. 3) c.p.c., in relazione all’art. 194 c.p.c.; nullità della CTU ‘ per essersi discostata dai limiti di indagine posti dal Giudice e per violazione del principio del contraddittorio ‘ . Si eccepisce la nullità della CTU redatta nel corso del giudizio di primo grado alla luce del fatto che il consulente ha integrato i dati probatori acquisiti al processo con proprie fonti di informazione, non autorizzate da Giudice, non espressamente e precisamente indicate ed individuate in CTU, anche in violazione del principio del contraddittorio, e per non aver
utilizzato fonti ufficiali, dichiarandole inattendibili senza alcuna specificazione.
8.1 -Il motivo è inammissibile in quanto non si confronta con l’ampia motivazione che ha sconfessato quanto assunto dal ricorrente.
9.Per quanto esposto, il ricorso va dichiarato inammissibile, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M .
La Corte dichiara inammissibile il ricorso, e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in € 20.000,00 per compensi e € 200 ,00 per esborsi oltre spese generali, nella misura del 15% dei compensi, ed accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30.5.2002, n.115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, l. 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio della Prima Sezione