Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 15531 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 15531 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 10/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 3745/2019 R.G. proposto da:
COGNOME NOME, elettivamente domiciliato in Roma INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati NOME COGNOME (CODICE_FISCALE, NOME COGNOME (CODICE_FISCALE), NOME COGNOME (CODICE_FISCALE).
– Ricorrente –
Contro
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in Roma INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati NOME COGNOME COGNOME NOME COGNOME (CODICE_FISCALE), NOME COGNOME (CODICE_FISCALE.
– Controricorrente –
Avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 91/2018 depositata il 22/06/2018.
SANZIONI CONSOB
Udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME nella camera di consiglio del 13 febbraio 2025.
Rilevato che:
All’esito della verifica ispettiva condotta presso la banca dal 22/04/2015 al 24/02/2016, con delibera n. 19933 del 30 marzo 2017 la Consob ha applicato a NOME COGNOME, componente del CdA della Banca Popolare di Vicenza (‘BPVi’) dal 21/04/2007, la sanzione amministrativa pecuniaria di euro 10.000,00, per effetto del cumulo giuridico tra le sanzioni di euro 7.500,00 e di euro 5.000,00, ex artt. 94, comma 2, 191 TUF, per avere omesso di riportare, nei Prospetti di Base 2014 e 2015, informazioni relative alla sussistenza, all’entità e agli effetti del ‘capitale finanziato’, ossia dei finanziamenti operati dalla banca alla clientela, nel periodo 1°/01/2012-28/02/2015, per la sottoscrizione o per l’acquisto di azioni BPVi, così determinando l’impossibilità per gli investitori di acquisire notizie utili per pervenire ad un fondato giudizio sulla situazione patrimoniale e finanziaria, sui risultati economici e sulle prospettive dell’emittente, nonché sui prodotti finanziari;
NOME COGNOME ha proposto opposizione e ha chiesto l’annullamento della sanzione.
La Corte d’appello di Venezia, nella resistenza della Consob, ha respinto la domanda.
Questi i punti chiave della decisione: (i) non è applicabile la lex mitior sopravvenuta (d.lgs. n. 72 del 2015) , invocata dall’opponente alla luce del principio del favor rei , e non vi è stata violazione del principio di specialità delle sanzioni amministrative (art. 8 comma 1 legge n. 1981) per essere le violazioni addebitate con le delibere Consob nn. 19932, 19933, 19934 e 19935 riconducibili alla medesima azione od omissione perché, in realtà, le condotte poste a fondamento dei provvedimenti sanzionatori sono eterogenee; (ii) non
vi è stata violazione del principio del contraddittorio, del diritto di difesa e della distinzione tra funzioni istruttorie e decisorie, con particolare riferimento all ‘ ostensione all’incolpato soltanto del 10% dei documenti acquisiti nel corso dell’ispezione e allo scarso tempo (trenta giorni) che gli è stato dato per replicare (con una memoria di non più di quindici pagine) alla corposa relazione (di cinquanta pagine) dell’ufficio sanzioni amministrative della Commissione; (iii) la lettera di contestazione del 04/04/2016 è tempestiva e, quindi, al contrario di quanto eccepisce l’ opponente, non è stato superato il termine di 180 giorni previsto dall’art. 195 TUF per formulare le contestazioni; (iv) con riferimento all’elemento oggettivo della violazione, la pratica del ‘capitale finanziato’ , ammessa e riconosciuta dalla banca, ufficializzata da BPVi soltanto a partire dalla relazione di gestione al 30/06/2015 (nella quale la consistenza dei finanziamenti correlati all’acquisto di azioni proprie è indicata in 974,9 milioni di euro), è stata oggetto di autonoma verifica da parte della Consob e ha trovato largo riscontro nell’attività ispettiva. In particolare, sono emerse operazioni di finanziamento correlato per un controvalore di 1,086 milioni di euro nei confronti di 1.277 soci/clienti. Nel 2014 l’ordine impartito dalla dirigenza ai capi area era nel senso che ‘tutti gli affidati dovevano acquisire la qualità di soci’; (v) quanto all’elemento soggettivo dell’illecito, non è fondata l’eccezione di difetto di conoscenza/conoscibilità del fenomeno del ‘capitale finanziato’, per la segretezza dell’iniziativa e per l’assenza di qualsivoglia ‘segnale di allarme’ intercettabile dal un componente del CdA privo di deleghe, qua le era l’opponente. Al riguardo, occorre considerare il quadro normativo di riferimento: la disciplina regolamentare del settore bancario, introdotta con circolare della Banca d’Italia n. 285 del 2013 (e successivi aggiornamenti), che deriva dalle regole di corporate governance di matrice comunitaria
contenute nella direttiva 2013/36/UE, che persegue la finalità di una sana e prudente gestione dell’attività bancaria ed è suscettibile di applicazione trasversale ai diversi modelli di amministrazione e di controllo previsti dal codice civile, rafforza il ruolo del CdA con riferimento all’assetto organizzativo, amministrativo e contabile dell’ente. Se il ruolo dell’amministratore delegato nella struttura di governo è ridimensionato, al contempo gli amministratori non esecutivi assumono un ruolo centrale nella governance della banca, poiché ad essi è affidato il compito di favorire l’assunzione di decisioni che, nelle materie di supervisione strategica, siano il frutto di un confronto effettivo; (vi) spettava, dunque, all’opponente dimostrare di avere adempiuto, anzitutto, al dovere di tenersi adeguatamente informato sulla gestione e sull’organizzazione aziendale, posto che solo la conoscenza delle concrete caratteristiche della realtà aziendale può consentire agli amministratori non esecutivi di apportare un effettivo contributo all’esercizio della funzione di supervisione strategica attribuita al CdA. Sulla premessa che, in base all’art. 2381 comma 6 c.c., gli amministratori privi di deleghe hanno l’obbligo di agire informati, e che la circolare n. 285 del 2013 prevede, in via ordinaria, e dunque anche in assenza di ‘segnali di allarme’, in capo agli amministratori non esecutivi, il dovere di acquisire informazioni sulla gestione e sull’organizzazione aziendale, nel caso di specie, comunque, non mancano inequivocabili segnali di allarme riferiti al periodo nel quale l’opponente era in carica . Come, ad esempio, le note informative della direzione della funzione interna di controllo che evidenziavano che gli ispettori della BCE avevano accertato correlazioni tra finanziamenti (per importi superiori a euro 250.000,00) ricevuti da clienti per acquisti sul mercato secondario in contropartita diretta del fondo di riacquisto delle azioni proprie, nel periodo 1°/10/2014-28/02/2015. Oppure, la richiesta rivolta al
collegio sindacale e alla vigilanza della Banca d’Italia dal socio NOME COGNOME nel corso dell’assemblea dei soci del 26/04/2014, alla quale il ricorrente era presente, di verificare se nel recente passato la Popolare di Vicenza avesse fatto affidamenti o dato garanzie, dirette o indirette, a soci e non soci per l’acquisto di azioni proprie o di obbligazioni convertibili BPVi. O, infine, la nota della Consob del 16/05/2014, portata a conoscenza del CdA il 27/05/2014, che sollecitava la banca a porre particolare attenzione al tema dei finanziamenti correlati all’acquisto di azioni derivanti dagli aumenti di capitale del 2014; (vii) non possono essere fondatamente addotte quali fattori di esonero dalla responsabilità l’ipotizzata condotta fraudolente dei vertice della banca e le omissioni del responsabile della funzione di internal audit in ragione del fatto che l’esimente della buona fede (art. 3 della legge n. 689 del 1981) e l’errore sulla liceità della condotta assumono rilievo soltanto in presenza di un elemento positivo , estraneo all’autore dell’infrazione, idoneo ad ingenerare in lui l’incolpevole convinzione della liceità della propria condotta. Nella specie, invece, una condotta diligente dei componenti del CdA (da parametrare ai rigorosi requisiti di professionalità prescritti dall’art. 13 TUF e dal d.m. 468 del 1998 del ministero del tesoro) avrebbe verosimilmente svelato le concrete modalità con le quali la rete commerciale operava nei confronti dei clienti, tanto più che le operazioni sulle azioni della banca e i finanziamenti più importanti ‘passavano’ dal consiglio di amministrazione ; (viii) le informazioni relative al capitale finanziato erano informazioni ‘necessarie’ affinché gli investito ri potessero pervenire, attraverso quella essenziale disclosure , ad un fondato giudizio sulla situazione patrimoniale e finanziaria e sui risultati economici dell’emittente, in considerazione della rilevanza quantitativa dei finanziamenti correlati all’acquisto di azioni proprie, vietati se non posti in essere
nell’osservanza dell’art. 2358 c.c.; (ix) tutto ciò comporta la responsabilità, a titolo di colpa, dei membri del CdA per l’omissione di tali informazioni nella documentazione d’offerta;
NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione, articolato in tredici motivi.
La Consob ha depositato controricorso.
Il PM ha depositato conclusioni scritte e ha chiesto che il ricorso sia rigettato.
Le parti hanno depositato memorie prima dell’udienza.
Considerato che:
1. Il primo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 1 c.p.c., il difetto di giurisdizione del giudice ordinario per incongrua lettura del dato normativo attributivo della potestas iudicandi e, in subordine, l’incostituzionalità dell’art. 195 commi 4 -8 TUF, nella parte in cui è attribuita al GO la giurisdizione sulle opposizioni alle sanzioni amministrative, con violazione del principio del giusto processo di cui agli artt. 111 e 113 Cost., nonché dell’art. 47 par. 1, della Carta Europea dei diritti fondamentali e dell’art. 6 CEDU;
1.1. il motivo è infondato;
in linea con la consueta giurisprudenza della Corte (tra le altre, Sez. 2, Ordinanza n. 1740 del 20/01/2022, Rv. 664171 -02; Cass. n. 1760/2022), relative al giudizio di opposizione avverso altre delibere sanzionatorie adottate dalla Consob nei confronti degli organi di vertice della BPVi, vanno riaffermati i seguenti principi, calibrati in relazione alla fattispecie concreta in esame: (a) l’opposizione all’ordinanza -ingiunzione proposta dinanzi alla Corte di appello non configura un’impugnazione dell’atto ma introduce, piuttosto, un ordinario giudizio sul fondamento della pretesa dell’autorità amministrativa, devolvendo al giudice adito la piena cognizione circa la legittimità e la fondatezza del provvedimento sanzionatorio (Cass.
n. 13150 del 2020); (b) dato l’oggetto limitato del procedimento, si realizza un sacrificio al principio di economia processuale che trova una giustificazione nella peculiare natura del giudizio di opposizione (nella specie devoluto alla cognizione in unico grado di merito della Corte di appello), sicché è proprio l’esigenza di tutela del principio del doppio grado di merito (sebbene non costituzionalizzato) per le diverse pretese scaturenti dal giudizio di opposizione che impone, in assenza di una pari previsione derogatoria da parte del legislatore, la non cumulabilità di altre diverse domande nel medesimo giudizio di opposizione. Si tratta in ogni caso di scelta rimessa alla discrezionalità del legislatore e che non determina una violazione irreparabile del diritto di difesa, stante appunto la possibilità di poter autonomamente proporre domanda per la tutela delle situazioni connesse alla vicenda sanzionatoria; (c) quanto alla giurisdizione del GO, la corretta lettura degli effetti della sentenza della Corte costituzionale n. 162 del 2012 è nel senso che, come ripetutamente affermato dalla S.C., la competenza giurisdizionale a conoscere delle opposizioni avverso le sanzioni inflitte dalla Consob spetta all’autorità giudiziaria ordinaria. Tale soluzione è stata ribadita da Cass., Sez. U. n. 4362/2021, che ha affermato che le controversie relative all’applicazione delle sanzioni amministrativi irrogate dalla Banca d’Italia ex artt. 145 d.lgs. n. 385 del 1993, per violazioni commesse nell’esercizio dell’attivit à bancaria sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario, la cui cognizione si estende agli atti amministrativi e regolamentari presupposti che hanno condotto all’emissione del provvedimento finale, con una motivazione che, sebbene espressamente riferita alle sanzioni della Banca d’Italia, si presta adeguatamente a sorreggere identica conclusione anche per le sanzioni Consob (per le sanzioni Consob e nel medesimo senso si veda anche Cass., Sez. Un. n. 25476/2021); (d) la materia
sanzionatoria può essere sottoposta alla giurisdizione del giudice amministrativo, come eccezione alla regola generale, solo in presenza di un’apposita disposizione di legge, costituendo i provvedimenti sanzionatori la reazione a comportamenti del privato assunti come illegittimi, in relazione ai quali non si pone la difficoltà – alla base della previsione della giurisdizione esclusiva – di distinguere gli aspetti concernenti diritti soggettivi da quelli riguardanti interessi legittimi, poiché la situazione giuridica di chi deduce di essere stato sottoposto a sanzione in casi e nei modi non stabiliti dalla legge, ha consistenza di diritto soggettivo perfetto (Cass. Sez. Un., n. 18040/2008). Una questione di costituzionalità sotto questo profilo, pertanto, può al più porsi in senso inverso, sulla legittimità dell’attribuzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle suddette controversie. La Corte costituzionale ha ritenuto inammissibile, in più occasioni, una pronuncia additiva, come quella invocata nel caso in esame. Si è detto, infatti, che l’introduzione di un nuovo caso di giurisdizione esclusiva può essere effettuata solo da una legge, come prescrive l’art. 103, primo comma, Cost., e nel rispetto dei principi e dei limiti fissati dalla sentenza n. 204 del 2004, pertanto risulta inammissibile il petitum posto dal giudice rimettente, che si risolve nella richiesta di introdurre, con una sentenza additiva, un nuovo caso, che può invece essere frutto di una scelta legislativa non costituzionalmente obbligata (Corte costituzionale, sentenza n. 259 del 2009); (e) nella specie, la questione di costituzionalità posta dal ricorrente va disattesa in quanto dichiaratamente volta ad ottenere una (non consentita, per le ragioni sopra evidenziate) pronuncia additiva, che estenda le ipotesi di giurisdizione esclusiva, sino a ricomprendervi la cognizione delle controversie relative ai provvedimenti sanzionatori emessi dalla Consob;
2. il secondo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., la violazione dell’art. 5 del d.lgs. n. 72 del 2015, come interpretato alla luce dell’art. 7 CEDU, dell’art. 49, par. 1, e dell’art. 52, par. 5, della Carta dei diritti fondamentali UE, nella parte in cui la Corte d’appello ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6 del d.lgs. n. 72 del 2015 e dell’ivi contenuta previsione che esclude la retroattività della disciplina più favorevole agli illeciti compiuti anteriormente alla sua entrata in vigore;
2.1. il motivo è infondato;
innanzitutto, anche in relazione alle censure di seguito esaminate, diversamente da quanto prospettato dal ricorrente nella premessa all’esposizione degli asseriti vizi formali della sentenza, si deve escludere la natura sostanzialmente penale della sanzione oggetto dell’impugnazione.
Sicché è conforme a diritto la statuizione del giudice di merito secondo cui le sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dalla Consob, diverse da quelle per manipolazione del mercato ai sensi dell’art. 187 -ter TUF, non hanno natura penale, con la conseguenza che, in relazione alle prime (tra le quali rientra la sanzione oggetto di questo giudizio), non trovano applicazione le modifiche alla parte V del d.lgs. n. 58 del 1998 per le violazioni commesse prima dell’entrata in vigore delle disposizioni di attuazione adottate dalla Consob e dalla Banca d’Italia, poiché così è disposto dall’art. 6 del citato d.lgs. n. 72 del 2015 che non dà luogo a dubbi di legittimità.
La statuizione è in linea con l’interpretazione della S.C. (Sez. 2, Sentenza n. 20689 del 09/08/2018, Rv. 650004 -03; in termini, Sez. 2, Sentenza n. 27833 del 03/10/2023, Rv. 668993 – 01), secondo cui, in materia di intermediazione finanziaria, le modifiche alla parte V del d.lgs. n. 58 del 1998 apportate dal d.lgs. n. 72 del 2015 si applicano alle violazioni commesse dopo l’entrata in vigore delle
disposizioni di attuazione adottate dalla Consob, in tal senso disponendo l’art. 6 del medesimo decreto legislativo, e non è possibile ritenere l’applicazione immediata della legge più favorevole, atteso che il principio del ‘ favor rei ‘, di matrice penalistica, non si estende, in assenza di una specifica disposizione normativa, alla materia delle sanzioni amministrative, che risponde, invece, al distinto principio del ‘ tempus regit actum ‘. Né tale impostazione viola i principi convenzionali enunciati dalla Corte EDU nella sentenza 4 marzo 2014 ( COGNOME ed altri c/o Italia ), secondo la quale l’avvio di un procedimento penale a seguito delle sanzioni amministrative inflitte dalla Consob sui medesimi fatti violerebbe il principio del ‘ ne bis in idem ‘, atteso che tali principi vanno considerati nell’ottica del giusto processo, che costituisce l’ambito di specifico intervento della Corte, ma non possono portare a ritenere sempre sostanzialmente penale una disposizione qualificata come amministrativa dal diritto interno, con conseguente irrilevanza di un’eventuale questione di costituzionalità ai sensi dell’art. 117 Cost.;
il terzo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., la falsa applicazione dell’art. 8 comma 1 della legge n. 689 del 1981, per avere la Corte d’appello negato l’applicabilità del principio di specialità in considerazione della moltiplicazione delle sanzioni amministrative irrogate da Consob per gli stessi fatti; ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c., la nullità della sentenza per carenza assoluta di motivazione nella parte in cui essa si sostanzia in un enunciato apodittico sulla diversità degli addebiti a carico del ricorrente.
Si ascrive alla sentenza di avere disatteso, con motivazione apparente e apodittica, l’eccezione dell’opponente circa la mancata applicazione del principio di specialità dell’illecito amministrativo nonostante che gli illeciti al medesimo addebitati, con le delibere
sanzionatorie nn. 19932, 19933, 19934, 19935, riguardassero un unico evento naturalistico, costituito dalla ‘colpa omissiva’ per non avere apprezzato asseriti ‘elementi di allarme’;
3.1. il motivo, articolato in due distinte censure, è in parte inammissibile e in parte infondato;
è inammissibile con riferimento al prospettato error in iudicando per genericità e per difetto di autosufficienza: in mancanza della riproduzione , all’interno del ricorso, dei passaggi più importanti dei provvedimenti sanzionatori sopra indicati la Corte non è posta nella condizione di verificare ex actis la fondatezza o meno della censura;
è infondato poiché il Collegio non ravvisa al lamentata carenza strutturale della sentenza; al riguardo, va nuovamente enunciato il principio per il quale il vizio di motivazione apparente ricorre quando la motivazione, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Sez. U, Ordinanza n. 2767 del 30/01/2023, Rv. 666639, che, in motivazione , richiama Sez. U, Sentenza n. 22232 del 03/11/2016, Rv. 641526; Sez. U, Sentenza n. 16599 del 2016; Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 6758 del 01/03/2022, Rv. 664061; Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 13977 del 23/05/2019, Rv. 654145);
il quarto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c., la violazione dell’art. 6 CEDU, dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali UE, dell’art. 15 della legge n. 689 del 1981, dell’art. 195 comma 7 TUF, per aver la Corte d’appello negato la pur patente violazione del contraddittorio insita nelle limitazioni imposte all’accesso agli atti da parte del ricorrente.
Si ascrive alla sentenza di avere erroneamente affermato che la mancata globale ostensione dei documenti è stata legittimata dall’irrilevanza di quelli che non hanno formato oggetto di esame da parte della Consob allorché sono stati formulati gli addebiti;
4.1. il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato;
è inammissibile perché è generica l’allegazione circa la lesione del principio del contraddittorio, avendo questa Corte ribadito che per dedurre validamente la violazione del contraddittorio occorre allegare e dimostrare una concreta ed effettiva lesione del diritto di difesa (Cass., Sez. U. n. 20935/2009).
È infondato alla luce della giurisprudenza di questa Corte, che ha chiarito che le garanzie del contraddittorio previste per il procedimento sanzionatorio davanti alla Consob prima delle modifiche introdotte dalla delibera n. 29158 del 29 maggio 2015 sono da ricondurre al livello proprio del contraddittorio procedimentale, di solito di tipo verticale, svolgendosi esso tra l’amministrazione e l’interessato su un piano non di eguaglianza, ma in funzione collaborativa, partecipativa e non difensiva, non già di quello di matrice processuale, di tipo orizzontale, che riguarda due parti in posizione paritaria rispetto ad un decidente terzo e imparziale. Ne consegue che non sussiste alcun contrasto con l’art. 24 Cost. e con i principi espressi dagli artt. 195 TUF e 24 della legge n. 262 del 2005 (Sez. 2, Sentenza n. 8046 del 21/03/2019, Rv. 653405 – 02);
5. il quinto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c., la violazione dell’art. 6 CEDU, dell’art. 47 Carta dei diritti fondamentali UE, dell’art. 13 della legge n. 689 del 1981, dell’art. 3 comma 3 della legge n. 241/1990, per avere la Corte d’appello negato l’evidente nullità della sanzione a causa del fatto che la Commissione si era ‘adagiata sulla tecnica della motivazione tramite integrale rinvio ad altro atto’;
5.1. il motivo è infondato;
la statuizione del giudice di merito secondo cui è consentito che le ragioni del provvedimento sanzionatorio possano risultare da un altro atto dell’amministrazione è in linea con la giurisprudenza di legittimità: secondo la consolidata interpretazione di questa Corte, il fatto che la regolamentazione secondaria dell’organizzazione della Consob preveda in capo alla stessa, nell’ambito del procedimento di accertamento e contestazione di illeciti nell’attività soggetta alla sua vigilanza, un cumulo successivo di funzioni decisorie (cautelari e nel merito), non comporta per ciò solo alcuna violazione dell’art. 6 CEDU in tema di garanzia del giusto processo; per un verso, infatti, detta garanzia è realizzata, alternativamente rispetto alla fase amministrativa, con l ‘ assoggettamento del provvedimento sanzionatorio ad un sindacato giurisdizionale pieno, e, per altro verso, il semplice fatto che siano già state assunte decisioni prima della deliberazione finale non è sufficiente a generare un ragionevole timore di mancanza di imparzialità, dovendosi aver riguardo, in tal senso, alla portata ed alla natura di tali decisioni, da valutarsi caso per caso (Sez. 2, Sentenza n. 3734 del 15/02/2018, Rv. 647799 01);
6. il sesto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., la falsa applicazione dell’art. 195 comma 1 TUF , per avere la Corte d’appello operato una valutazione della complessità dell’accertamento avulsa dal caso concreto, contrariamente alle indicazioni della giurisprudenza di legittimità; omesso esame di fatto decisivo nella parte in cui la Corte d’appello ha giustificato la protrazione dei tempi di accertamento senza considerare che il documento dalla stessa ritenuto decisivo (il verbale del CdA del 28/04/2015), era stato acquisito già in data 30/06/2015 ed altresì
omettendo di verificare in concreto la sussistenza della presunta complessità dello stesso.
Si deduce che era stata eccepita la nullità del provvedimento sanzionatorio in quanto emesso dopo il termine di 180 giorni dall’avvenuto accertamento, quanto meno in relazione alle singole contestazioni. Si aggiunge che la sentenza avrebbe disatteso tale censura con una motivazione contraria ai principi espressi dal giudice di legittimità, avendo omesso di compiere la verifica in fatto in merito alla coerenza temporale dell’iniziativa amministrativa;
6.1. il motivo è infondato;
occorre richiamare la giurisprudenza di questa Corte che, anche di recente, ha affermato che, in tema di sanzioni amministrative per la violazione delle norme disciplinanti l’attività di intermediazione finanziaria, il termine di decadenza di 180 giorni per la contestazione al trasgressore decorre non già dalla ‘constatazione del fatto’, cioè dalla data di acquisizione della notizia dell’illecito, nella sua materialità, ma dal momento dell”accertamento del fatto’, ossia dal giorno in cui l’autorità ha completato l’attività istruttoria finalizzata a verificare la sussistenza dell’infrazione (Sez. 2, Sentenza n. 26766 del 15/10/2024, Rv. 672801 – 01).
Nel caso all’esame, la Corte d’appello, con giudizio di fatto ad essa riservato, ha stabilito che la lettera di contestazione del 04/04/2016 era tempestiva rispetto alla fine dell’ ispezione presso la banca, conclusasi il 25/02/2016, ed ha altresì rimarcato che, anche a voler prendere in esame il termine di partenza del 17/09/2015, la contestazione del 04/04/2016, era avvenuta dopo 198 giorni, di tal che l’autorità di vigilanza aveva usufruito di un congruo spatium deliberandi di 18 giorni;
7. il settimo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 2392 comma 1 c.c.,
dell’art. 53 comma 1 TUB, e delle disposizioni regolamentari di attuazione adottate dalla Banca d’Italia con le circolari n. 285 del 17/12/2013 e n. 263 del 27/12/2006, nel testo applicabile all’epoca dei fatti, per aver la sentenza ritenuto di poter formulare a carico del ricorrente un giudizio d’imputazione di omissioni, trascurando di considerare quali sono, a norma di legge e di regolamento, le effettive facoltà di controllo del CdA e dei suoi componenti sulla struttura aziendale della banca.
Si sostiene che la sentenza avrebbe attribuito la responsabilità al ricorrente senza prendere in considerazione le stringenti regole sui rapporti tra gli organi fissate dalla Banca d’Italia, le quali escludono per gli amministratori non esecutivi (cioè, privi di deleghe) l’onere di controllare le attività delle funzioni aziendali di controllo ( compliance , risk management , internal audit ) e degli organi con funzione di gestione (amministratore delegato e/o direttore generale) e, perciò, non consentono nemmeno di ipotizzare una colpa omissiva, agevolativa dell’atto doloso altrui;
7.1. il motivo, frammentato in diversi rilievi critici, è complessivamente infondato;
7.2. la decisione, che ha ravvisato specifici profili di responsabilità del ricorrente, nonostante il suo ruolo di componente del CdA privo di deleghe, collima con la giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 21502/2024; in termini, Cass. nn. 29963/2024, 8581/2024), che ha sottoposto a un’approfondita disamina le questioni di diritto in tema di sanzioni inflitte dalla Banca d’Italia ai componenti del CdA di un ente creditizio per carenze nell’organizzazione e nei controlli interni. È stato osservato che «ai fini del contenimento del rischio creditizio nelle sue diverse configurazioni, nonché dell’organizzazione societaria e dei controlli interni, l’art. 53, lett. b) e d), del d.lgs. n. 385 del 1993 e le disposizioni attuative dettate con le istruzioni di vigilanza per le
banche, mediante la circolare n. 229 del 1999 (e successive modificazioni e integrazioni), sanciscono doveri di particolare pregnanza in capo al consiglio di amministrazione delle società bancarie, che riguardano l’intero organo collegiale e, dunque, anche i consiglieri non esecutivi, i quali sono tenuti ad agire in modo informato e, in ragione dei loro requisiti di professionalità, ad ostacolare l’evento dannoso, sicché rispondono del mancato utile attivarsi», e si è chiarito che «in caso di irrogazione di sanzioni amministrative, la Banca d’Italia, anche in virtù della presunzione di colpa vigente in materia, ha unicamente l’onere di dimostrare l’esistenza dei segnali di allarme che avrebbero dovuto indurre gli amministratori non esecutivi, rimasti inerti, ad esigere un supplemento di informazioni o ad attivarsi in altro modo, mentre spetta a questi ultimi provare di avere tenuto la condotta attiva dovuta o, comunque, mirante a scongiurare il danno (Cass. n. 22848 del 2015; Cass. n. 19556 del 2020)». La Corte aggiunge che «l dovere di agire informati dei consiglieri non esecutivi delle società bancarie, sancito dagli artt. 2381, commi 3 e 6, e 2392 c.c., non va, del resto, rimesso, nella sua concreta operatività, alle segnalazioni provenienti dai rapporti degli amministratori delegati, giacché anche i primi devono possedere ed esprimere costante e adeguata conoscenza del business bancario e, essendo compartecipi delle decisioni di strategia gestionale assunte dall’intero consiglio, hanno l’obbligo di contr ibuire ad assicurare un governo efficace dei rischi di tutte le aree della banca e di attivarsi in modo da poter efficacemente esercitare una funzione di monitoraggio sulle scelte compiute dagli organi esecutivi, non solo in vista della valutazione delle relazioni degli amministratori delegati, ma anche ai fini dell’esercizio dei poteri, spettanti al consiglio di amministrazione, di direttiva o avocazione concernenti operazioni rientranti nella delega. Questa interpretazione
non vale ad accollare una responsabilità oggettiva agli amministratori non esecutivi, essendo gli stessi perseguibili ove ricorrano comunque sia la condotta d’inerzia, sia il fatto pregiudizievole antidoveroso, sia il nesso causale tra i medesimi, sia, appunto, la colpa, consistente nel non aver rilevato colposamente i segnali dell’altrui illecita gestione, pur percepibili con la diligenza della carica (anche indipendentemente dalle informazioni doverose ex art. 2381 c.c.), e nel non essersi utilmente attivati al fine di evitare l’evento. Sotto il profilo probatorio, ciò comporta che spetta al soggetto il quale afferma la responsabilità allegare e provare, a fronte dell’inerzia dei consiglieri non delegati, l’esistenza di segnali d’allarme (anche impliciti nelle anomale condotte gestorie) che avrebbero dovuto indurli ad esigere un supplemento di informazioni o ad attivarsi in altro modo (con la richiesta di convocazione del consiglio di amministrazione rivolta al presidente, il sollecito alla revoca della deliberazione illegittima o all’avocazione dei poteri, l’invio di richieste per iscritto all’organo delegato di desistere dall’attività dannosa, l’impugnazione delle deliberazione ex art. 2391 c.c., la segnalazione al p.m. o all’autorità di vigilanza, e così via); assolto tale onere, è, per contro, onere degli amministratori provare di avere tenuto la condotta attiva dovuta o la causa esterna, che abbia reso non percepibili quei segnali o impossibile qualsiasi condotta attiva mirante a scongiurare il danno».
In precedenza, era stato chiarito (Cass. n. 16517/2020, punto 2) che «a tesi secondo cui la responsabilità dei consiglieri sarebbe predicabile solo se questi ultimi abbiano ricevuto informazioni in modo completo ed esauriente sulle singole operazioni poste in essere dai titolari di deleghe operative, è già stata motivatamente respinta, in fattispecie analoghe, da questa Corte e non trova alcun sostegno nei precedenti richiamati in ricorso. Nello specifico settore delle attività bancarie o di intermediazione finanziaria, ai fini del
contenimento del rischio creditizio nelle sue diverse configurazioni, nonché dell’organizzazione societaria e dei controlli interni, l’art. 53, lettere b) e d), d.lgs. 385/1993 e le disposizioni attuative dettate con le istruzioni di vigilanza per le banche, sanciscono doveri di particolare pregnanza in capo al Consiglio di amministrazione nel suo complesso e ai singoli consiglieri (anche se privi di deleghe operative). Questi ultimi sono sempre tenuti ad agire in modo informato e, in ragione dei requisiti di professionalità di cui sono e devono essere in possesso, ad impedire possibili violazioni. Tale dovere, sancito dall’art. 2381 c.c., commi terzo e sesto, e dall’ art. 2392 c.c., non va rimesso, nella sua concreta operatività, alle segnalazioni provenienti dai rapporti degli amministratori delegati, giacché anche i singoli consiglieri devono possedere e attivare una costante e adeguata conoscenza del business bancario e, essendo compartecipi delle decisioni di strategia gestionale assunte dall’intero Cons iglio, hanno l’obbligo di contribuire ad assicurare un governo efficace dei rischi in tutti i settori di operatività della banca, oltre che ad attivarsi in modo da esercitare efficacemente la funzione di monitoraggio sulle scelte compiute, non solo in vista della valutazione delle relazioni degli amministratori delegati, ma anche ai fini dell’esercizio dei poteri di direttiva o avocazione riguardo alle attività rientranti nella delega (Cass. 2737/2013; Cass. 17799/2014; Cass. 18683/2014; Cass. 5606/2019; Ca ss. 24851/2019). L’àmbito entro il quale deve esprimersi la diligenza dei consiglieri non è mutato neppure a seguito della riforma del diritto societario adottata con d.lgs. 6/2006. L’art. 2381, comma sesto, c.c., nel testo in vigore, impone un dovere di agire in modo informato, disponendo infine che ‘ciascun amministratore può chiedere agli organi delegati che in consiglio siano fornite informazioni relative alla gestione della società’. Il comma terzo recita che il consiglio di amministrazione
‘può sempre impartire direttive agli organi delegati e avocare a sé operazioni rientranti nella delega’. Il comma secondo dell’art. 2392 c.c. continua a prevedere che gli amministratori ‘sono in ogni caso solidalmente responsabili se, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose’ (Cass. 24851/2019). Resta da confermare che la responsabilità degli amministratori privi di deleghe operative non discende da una generica condotta di omessa vigilanza, né implica l’imputazione della responsabilità a titolo oggettivo o per le condotte altrui, ma deriva dal fatto di non aver impedito ‘fatti pregiudizievoli’ dei quali abbiano acquisito (o avrebbero potuto acquisire) conoscenza anche di propria iniziativa, ai sensi dell’obbligo previsto dall’art. 2381 c.c. (Cass. n. 17441 del 2016; Cass. 2038/2018)»;
7.3. né d’altra parte è condivisibile la lettura delle circolari della Banca d’Italia prescelta dal ricorrente che, secondo la sua prospettazione, condurrebbe all’esonero dalla responsabilità degli amministratori non esecutivi. A parte il fatto che le violazioni in esame attengono ai servizi di investimento, ai quali maggiormente si attagliano le previsioni del Regolamento congiunto Banca d’Italia/Consob del 29/10/2007, comunque, è indubitabile che la circolare n. 285 del 2013 non ha affatto travolto gli assetti ed i rapporti societari fissati da norme primarie, a cominciare dall’art. 2381 c.c. Milita in tal senso la circostanza che le disposizioni regolamentari sono volte a rafforzare proprio l’assetto configurato dal codice civile, con l’individuazione di regole più specifiche per il settore bancario, e nel rispetto delle fonti di derivazione comunitaria (in particolare la direttiva 2013/36/UE), ma sempre in vista di un armonico coordinamento tra la disciplina societaria di carattere generale e quella settoriale bancaria, ed il tutto in correlazione con il
regolamento (UE) n. 575/2013, con il quale va a comporre il quadro normativo di disciplina delle attività bancarie, il quadro di vigilanza e le norme prudenziali per gli enti creditizi e le imprese di investimento. Le previsioni della circolare, sebbene richiamino l’esigenza di una chiara distinzione dei ruoli e delle responsabilità degli organi, aggiungendo che l’articolazione della struttura interna deve comunque assicurare l’efficacia dei controlli e l’adeguatezza dei flussi informativi, tuttavia non possono essere intese come un’autorizzazione alla preventiva deresponsabilizzazione dei componenti del CdA. Ove anche si riconosca che la circolare della Banca d’Italia, in vista del buon funzionamento delle imprese bancarie, abbia suggerito delle strutture rigide e chiaramente individuatrici delle competenze e delle funzioni, le sue disposizioni non possono certo avallare la conclusione, erronea, secondo cui non sarebbe esigibile, da parte degli amministratori non esecutivi, la verifica di ogni singolo atto di impresa, dovendosi, quanto agli indici di allarme, fare affidamento sulle rassicurazioni offerte dagli uffici interni deputati al controllo circa la correttezza delle azioni delle singole articolazioni societarie;
8. l’ottavo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., la violazione dell’art. 191 comma 2 TUF, nella parte in cui la Corte d’appello ha confermato la sanzione applicata al ricorrente a titolo di colpa, là dove la fattispecie prevede la sanzionabilità esclusivamente a titolo di dolo.
La sanzione sarebbe illegittima perché è stata inflitta al ricorrente, amministratore privo di deleghe, per una condotta che presuppone non la colpa, ma il dolo ed è ascrivibile soltanto a colui che abbia (appunto) dolosamente celato le informazioni;
8.1. il motivo è infondato;
al contrario di quanto afferma il ricorrente, la sentenza ha correttamente rilevato che si è in presenza di un illecito amministrativo per il quale vale il principio generale, sancito dall’art. 3 della legge n. 689 del 1981, secondo cui la responsabilità della violazione amministrativa, posta in essere mediante condotta attiva od omissiva cosciente e volontaria, grava sull’autore della medesima, sia essa dolosa o colposa;
9. il nono motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., la violazione del principio di immutabilità della sanzione in sede di suo controllo giurisdizionale, dell’art. 195 comma 7 bis TUF, nonché dell’art. 6 comma 12, del d.lgs. n. 150 del 2011 e dell’art. 112 c.p.c., nella parte in cui la Corte d’appello ha confermato la sanzione irrogata ex art. 94 comma 2 del TUF per aver il ricorrente violato la disposizione di cui all’art. 94 comma 7 TUF; denuncia inoltre l”omesso esame di fatto decisivo in relazione alla violazione accertata’.
Si lamenta che, a fronte della contestazione relativa alla violazione dell’art. 94 comma 2 TUF, incorrendo in un’ evidente violazione di legge, la Corte d’appello avrebbe ravvisato la responsabilità dell’opponente in relazione al diverso illecito di cui al comma 7 del l’articolo 97 , che attiene alla mancata menzione, in un supplemento di prospetto, di qualunche fatto nuovo significativo che ‘ sopravvenga o sia rilevato tra il momento in cui è approvato il prospetto e quello in cui è definitivamente chiusa l’offerta al pubblico ‘;
9.1. il motivo è inammissibile;
detto che la doglianza in punto di omesso esame di un fatto decisivo è aspecifica e soltanto abbozzata, rileva il Collegio che la censura principale, attinente alla violazione di legge, non coglie la ratio fondante della decisione: il giudice di merito illustra, con
sufficiente chiarezza, le ragioni per le quali ritiene integrati l’elemento oggettivo e soggettivo della violazione ex art. 94 comma 2 TUF con riferimento alle omissioni nei Prospetti 2014 e 2015; dopodiché, con notazione marginale, la quale non incide sulla sostanza della decisione, evidenzia (a pag. 61 della sentenza), correttamente, la natura permanente degli illeciti in materia di offerta al pubblico.
10. il decimo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., la violazione dell’art. 2729 c.c.
La sentenza avrebbe fondato l’accertamento della negligenza del ricorrente sulla pretesa esistenza di indici sintomatici del fenomeno (del quale il CdA non era stato informato) dei finanziamenti correlati.
Sotto altro profilo, oltre (come detto) alla violazione delle norme sulla prova per presunzioni, si denuncia , come ‘omesso esame di un fatto decisivo’, che la sentenza avrebbe recepito, in maniera acritica, la ricostruzione dei fatti proposta dalla Consob, e non avrebbe considerato altri elementi che, viceversa, deponevano nel senso che i membri del CdA non erano a conoscenza e non si poteva presumere che fossero a conoscenza dell’importante informazione relativa all’ampiezza e diffusione del fenomeno del ‘capitale finanziato’;
10.1. il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato;
innanzitutto, è indubitabile che alla RAGIONE_SOCIALE non può essere chiesto di ripetere il giudizio di fatto della Corte d’appello , poiché una simile attività non è consentita nel giudizio di cassazione.
In secondo luogo, si deve escludere che la sentenza sia viziata da falsa applicazione della disposizione codicistica in tema di prova presuntiva (art. 2729 c.c.). Infatti, il giudice di merito ha ritenuto fondata le contestazioni alla luce di specifiche circostanze di fatto che, secondo la sua insindacabile ricostruzione degli avvenimenti, dimostrano la violazione, da parte dell’amministratore (benché privo di deleghe), degli obblighi informativi nei confronti degli investitori.
In particolare, per il giudice di merito, l’agire negligente e imprudente del ricorrente trova riscontro nel fatto che egli era a conoscenza o avrebbe dovuto essere a conoscenza del fenomeno dei finanziamenti correlati (dei quali, tra l’altro, avevano beneficiato anche gli amministratori, e che era stato pubblicamente denunciato da un socio), e nella constatazione che, conseguentemente, al pari degli altri componenti del CdA, egli avrebbe dovuto attivarsi al fine di compiere e sollecitare gli opportuni approfondimenti;
11. l’undicesimo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., la violazione dell’art. 3 della legge n. 689 del 1981, come interpretato alla luce dell’art. 6 CEDU, nonché dell’art. 7 comma 10 del d.lgs. 150 del 2011, per essere stato disatteso il principio di presunzione di innocenza.
Si sostiene che la sentenza sarebbe in contrasto con i principi del contraddittorio paritario e della distribuzione dell’onere della prova che caratterizzano il rapporto giuridico processuale contenzioso, come interpretati alla luce dell’art. 6 CEDU.
Inoltre, la Corte territoriale avrebbe pretermesso l’art. 7 del decreto citato che esclude che alla P.A. vengano accordate preferenze o agevolazioni sul piano probatorio, in coerenza con la natura del processo di opposizione;
11.1. il motivo è infondato;
il giudice di merito, nel disattendere l’eccezione del ricorrente relativa alla carenza dell’elemento soggettivo della violazione, ha fatto corretta applicazione del principio di diritto (Cass. n. 24081/2019) secondo cui l’art. 3 della legge n. 689 del 1981 pone una presunzione di colpa a carico dell’autore del fatto vietato, gravando sul trasgressore l’onere di provare di aver agito senza colpa (nella specie, la SRAGIONE_SOCIALE. ha applicato il sopraindicato principio in relazione al provvedimento sanzionatorio adotta to, ai sensi dell’art.
190 del d.lgs. n. 58 del 1998, dalla Consob nei confronti dei componenti del consiglio di amministrazione di una banca, affermando che spetta ad essi, in presenza di accertate carenze procedurali ed organizzative, dimostrare di aver adempiuto diligentemente agli obblighi imposti dalla normativa di settore). Infatti, sia pure con riferimento a sanzioni amministrative irrogate dalla Banca d’Italia (Cass. n. 9546/2018), si è precisato che il legislatore individua una serie di fattispecie, destinate a salvaguardare procedure e funzioni ed incentrate sulla mera condotta, secondo un criterio di agire o di omettere doveroso, ricollegando il giudizio di colpevolezza a parametri normativi estranei al dato puramente psicologico e limitando l’indagine sull’elemento oggettivo dell’illecito all’accertamento della ‘suità’ della condotta inosservante sicché, integrata e provata dall’autorità amministrativa la fattispecie tipica dell’illecito, grava sul trasgressore, in virtù della presunzione di colpa posta dall’art. 3 dell a legge n. 689 del 1981, l’onere di provare di aver agito in assenza di colpevolezza. Ne consegue che (Cass. n. 1529/2018) sebbene l’onere di provare i fatti costitutivi della pretesa sanzionatoria sia posto a carico dell’Amministrazione, la quale è pertanto tenuta a fornire la prova della condotta illecita, nel caso dell’illecito omissivo di pura condotta, essendo il giudizio di colpevolezza ancorato a parametri normativi estranei al dato puramente psicologico, è sufficiente la prova dell’elemento oggettivo dell’illecito comprensivo della ‘suità’ della condotta inosservante, in assenza di elementi tali da rendere inesigibile la condotta o imprevedibile l’evento (conf. Cass. Sez. U., n. 20930/2009). Così intesa la ‘presunzione di colpa’ non si pone in contrasto con gli artt. 6 CEDU e 27 Cost. E ciò anche nel caso (diverso da quello di specie) in cui la sanzione abbia natura sostanzialmente penale in quanto afflittiva. Non è quindi necessaria la
concreta dimostrazione del dolo o della colpa in capo all’agente, sul quale grava, pertanto, l’onere della dimostrazione di aver agito senza colpa (Cass. n. 11777/2020).
La sentenza impugnata, come detto, si uniforma ai principi in tema di interpretazione dell’articolo 3;
12. il dodicesimo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., che la Corte d’appello avrebbe giudicato sulla base della cd. presunzione di colpevolezza ex art. 3 delle legge n. 689 del 1981, senza valorizzare il limite all’operatività della presunzione, individuato dalla giurisprudenza della Cassazione; ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c., che la sentenza non avrebbe esaminato la circostanza, pacifica, che alcuni membri dell’alta dirigenza della banca avrebbero posto in essere una convincente, seria e ben organizzata messa in scena di liceità, difficilmente smascherabile attraverso i normali flussi informativi;
12.1. il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato;
dal primo punto di vista (inammissibilità del motivo), rileva il Collegio che la censura di omesso esame di una determinata circostanza si risolve, in realtà, nell’indebita sollecitazione, rivolta alla S.C., a compiere un nuovo scrutinio dei fatti di causa, già esaminati dalla Corte territoriale.
Sul punto, è solo il caso di ricordare che, ad esempio, la sentenza (pagg. 58 e 59) afferma che, nonostante le ipotizzate manovre di occultamento dell’alta dirigenza della banca, i componenti del CdA (incluso il ricorrente) avrebbero potuto avvedersi del fenomeno del capitale finanziato poiché i finanziamenti più importanti ‘passavano’ dal consiglio, e aggiunge che, grazie a ll’inerzia degli organi di gestione e di controllo, il responsabile della funzione di internal audit poté non comunicare al CdA il rapporto da lui redatto il 04/09/2014 e consegnato soltanto al direttore generale.
La prospettata violazione dell’art. 3 della legge n. 689 del 1981 è priva di fondamento sia per le ragioni sopra evidenziate (punto 8.1.) a proposito dell’elemento soggettivo dell’illecito amministrativo, sia alla luce dei principi in tema di doveri degli amministratori non esecutivi (punto 7.2.).
13. il tredicesimo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c., la violazione dell’art. 91 c.p.c.
La sentenza avrebbe erroneamente liquidato, a favore della Consob, le spese processuali nella misura di euro 4.000,00 per compenso professionale, nonostante che, qualora (come nel caso di specie) la P.A. stia in giudizio a mezzo di un proprio funzionario appositamente delegato e risulti vittoriosa, debbano esserle riconosciute esclusivamente le spese vive, adeguatamente documentate, con esclusione del pagamento dei diritti di procuratore e degli onorari di avvocato;
13.1. il motivo è infondato;
la doglianza fa leva su un ‘erronea lettura degli atti di causa dai quali risulta che il patrocinio dell’autorità di vigilanza è stato svolto da avvocati (dipendenti della Commissione), iscritti nella sezione speciale dell’albo degli avvocati di Roma, e non da funzionari della Consob.
In continuità con la giurisprudenza di questa Corte, va riaffermato il principio di diritto secondo cui, qualora la P.A. sia rappresentata in giudizio non da un funzionario delegato ma da un difensore iscritto nell’apposito albo, ai sensi degli artt. 82 e 87 c.p.c., il diritto dell’amministrazione al rimborso delle spese di lite, ex art. 91 c.p.c., comprende anche i relativi compensi, ancorché lo stesso difensore sia anche un suo dipendente, atteso che quel diritto sorge per il solo fatto che la parte vittoriosa è stata in giudizio con il ministero di un
difensore tecnico (Cass. nn. 24374/2024, 23825/2023, 16274/2022, 1740/2022, cit.);
14. nella memoria da ultimo depositata il ricorrente chiede che il Collegio, con rinvio pregiudiziale, sottoponga alla Corte di giustizia UE alcuni quesiti al fine di verificare se le sanzioni per le violazioni in questione (art. 191 comma 2 TUF) siano o meno compatibili con i principi e la normativa europea (Carta dei diritti fondamentali UE, artt. 6 e 7 CEDU): l’istanza, manifestamente infondata, va respinta.
Innanzitutto, è utile mettere in evidenza che l’oggetto della domanda di pronuncia pregiudiziale rivolta alla Corte di giustizia deve riguardare l’interpretazione o la validità del diritto dell’Unione, e non (come nel caso di specie pare sostanzialmente intendere il ricorrente) l’interpretazione delle norme del diritto nazionale o questioni di fatto sollevate nel procedimento principale (così C. giust., Raccomandazioni all’attenzione dei giudici nazionali, relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale, 2018/C 257/01, in Gazzetta ufficiale dell’Unione europea del 20/07/2018).
Inoltre, per la giurisprudenza di questa Corte «non v’è diritto della parte all’automatico rinvio pregiudiziale ogniqualvolta la Corte di cassazione non ne condivida le tesi difensive (Cass., S.U., 08/07/2016, n. 14043), bastando che le ragioni siano espresse (Corte EDU, in caso COGNOME e Rezabek c. Belgio), ovvero implicite laddove la questione pregiudiziale sia manifestamente inammissibile o manifestamente infondata (Corte EDU, in caso RAGIONE_SOCIALE, par. 36), ovverosia quando l’interpretazione della norma e del caso siano evidenti (Cass., S.U., 24/05/2007, n. 12067). Infatti, un organo giurisdizionale di ultima istanza non è tenuto a presentare alla Corte di giustizia una domanda di pronuncia pregiudiziale (art. 267 comma 3 TFUE), qualora esista già una giurisprudenza consolidata in materia o qualora la corretta
interpretazione della norma di diritto di cui trattasi non lasci spazio a nessun ragionevole dubbio (Raccomandazioni 2016. C. – 439.01, par. 6)» (Cass. Sez. U., 19/06/2018, n. 16157, in motivazione, p. 5.5.; nello stesso senso, tra le tante, Cass. 07/06/2018, n. 14828; Cass. 16/06/2017, n. 15041, secondo cui il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione Europea presuppone il dubbio interpretativo su una norma comunitaria, che non ricorre allorché l’interpretazione sia auto-evidente oppure il senso della norma sia già stato chiarito da precedenti pronunce della Corte, non rilevando, peraltro, il profilo applicativo di fatto, che è rimesso al giudice nazionale). Ed anche la Corte costituzionale (sentenza n. 28 del 2010, in motivazione al p. 6) ha ritenuto che sia da escludere il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea, non «necessario quando il significato della norma comunitaria sia evidente, anche per essere stato chiarito dalla giurisprudenza della Corte di giustizia».
Come ricorda da ultimo Cass. Sez. 1, Ord. interloc. 30/12/2024, n. 34898, la Corte di giustizia (C. giust., 06/10/2021, C-561/19), dopo aver rimarcato che il rinvio pregiudiziale costituisce la chiave di volta del sistema giurisdizionale istituito dai trattati, ha ribadito e sviluppato i criteri (già espressi nella sentenza Cilfit) al ricorrere dei quali viene meno l’obbligo dei giudici di ultima istanza di rivolgersi alla Corte in presenza di questioni di interpretazione del diritto eurounitario. Si tratta, oltre ai casi di irrilevanza della questione, dell’ acte éclairé , ovverosia quando la questione sia materialmente identica ad altra già decisa o vi sia una giurisprudenza consolidata della Corte sul punto, e dell’ acte clair , quando l’interpretazione del diritto dell’Unione si imponga con evidenza tale da non dare adito a ragionevoli dubbi. Per la Corte di giustizia l’iniziativa delle parti nel giudizio di ultima istanza non può privare il giudice della propria
indipendenza nel vagliare se ricorra una delle ipotesi di cui alla sentenza RAGIONE_SOCIALE, obbligandolo così a presentare un rinvio pregiudiziale.
Tornando alla fattispecie concreta in esame, ritiene il Collegio che non vi sia necessità di disporre il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia in quanto, per la consolidata giurisprudenza di legittimità (della quale si è dato conto nelle pagini precedenti), le sanzioni amministrative pecuniarie applicate dalla Consob per violazione in materia di offerta al pubblico di titoli ex art. 94 TUF, non sono sanzioni amministrative di carattere punitivo, non pongono un problema di compatibilità con le garanzie riservate ai processi penali dall’art. 6 CEDU (secondo l’interpretazione della sentenza della Corte EDU del 04/03/2014, COGNOME RAGIONE_SOCIALE cRAGIONE_SOCIALE), nel senso che non sono equiparabili, per tipologia, severità, incidenza patrimoniale e personale, alle sanzioni Consob relative all’abuso di informazioni privilegiate (Cass. nn. 12031/2022, 4524/2021) e alla manipolazione del mercato (Cass. nn. 17209/2020, 24850/2019), entrambe ritenute sostanzialmente penali;
in conclusione, il ricorso deve essere rigettato;
le spese del giudizio di cassazione, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza;
17 . ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115/2002, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis del citato art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in euro 4.300,00, a titolo di compenso, più euro 200,00, per esborsi, oltre alle spese generali e agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115/2002, dichiara che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis del citato art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione