Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 32010 Anno 2024
Civile Sent. Sez. 2 Num. 32010 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 11/12/2024
SENTENZA
sul ricorso n. 32204/2020 proposto da:
COGNOME NOME, elettivamente domiciliato in Roma INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati NOME COGNOME (CODICE_FISCALE, NOME COGNOME (CODICE_FISCALE), NOME COGNOME (CODICE_FISCALE).
– Ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in Roma INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati NOME COGNOME (CODICE_FISCALE, NOME COGNOME (CODICE_FISCALE), NOME COGNOME (CODICE_FISCALE).
Sanzioni Banca d’Italia
– Controricorrente – avverso la sentenza della Corte d ‘ appello di Roma n. 1958/2020 depositata il 17/04/2020.
Udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME nella pubblica udienza del 28 novembre 2024.
Udito il Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME il quale ha chiesto il rigetto o la declaratoria di inammissibilità di tutti i motivi di ricorso.
Udito l’avvocato NOME COGNOME per parte ricorrente, e gli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME per parte controricorrente.
FATTI DI CAUSA
1. In esito alle indagini a largo raggio condotte dalla Banca Centrale Europea (‘BCE’) nei confronti della Banca Popolare di Vicenza ( ‘ BPVi ‘ ), nel periodo compreso tra il 26/02/2015 e il 03/07/2015, in relazione al ‘ Meccanismo di Vigilanza Unico ‘ (MVU: il sistema di vigilanza finanziaria composto dalla BCE e dalle autorità nazionali competenti degli Stati membri) istituito con Regolamento Europeo del Consiglio n. 1024/2013 (che attribuisce alla BCE compiti specifici in merito alle politiche in materia di vigilanza prudenziale degli enti creditizi ‘significativi’ che riserva all’ autorità nazionale di vigilanza il potere di irrogare sanzioni agli organi persone fisiche per violazione sia di norme comunitarie in materia direttamente applicabili, sia di norme nazionali traspositive di direttive comunitarie), con delibera n. 367/17, prot. 683186, del 25/05/2017, il Direttorio della Banca d’Italia applicò a NOME COGNOME, consigliere del c.d.a. della banca (da aprile 2007 a luglio 2016) e componente del comitato esecutivo, due sanzioni amministrative per complessivi euro 163.000, per ‘ c arenze nell’organizzazione, nella gestione dei rischi e nei controlli interni da parte degli ex componenti del consiglio
di amministrazione ‘ , e per ‘carenze di governo societario, con particolare riferimento all’assetto del gruppo, alla ripartizione delle deleghe ed ai flussi informativi’ .
NOME COGNOME ha proposto opposizione, ex art. 145, TUB, davanti alla Corte d’appello di Roma e ha chiesto l’annullamento dell a sanzione.
La Corte d’appello di Roma, nel contraddittorio della Banca d’Italia, ha respinto la domanda dopo avere disatteso i motivi di opposizione riguardanti: (i) la pretesa illegittimità del provvedimento sanzionatorio per violazione dei principi del contraddittorio, della conoscenza degli atti istruttori e della distinzione tra funzioni istruttorie e decisorie; (ii) la violazione del principio di specialità della sanzione amministrativa e l’applicabilità della lex mitior sopravvenuta (d.lgs. n. 72 del 2015); (iii) la violazione del termine decadenziale di novanta giorni di cui all’art. 14 della legge n. 689 del 1981 per notificare la contestazione degli addebiti; (iv) la violazione del principio dell’onere della prova e della presunzione di non responsabilità dell’incolpato; (v) la violazione del diritto di difesa a causa della manifesta genericità delle norme violate; (vi) la nullità e/o il difetto di precettività del procedimento condotto dalla BCE su cui è basato quello della Banca d’Italia nei confronti delle p ersone fisiche che, nella BPVi, avevano posizioni apicali per violazione della normativa nazionale; (vii) le singole contestazioni mosse dalla Banca d’Italia al ricorrente sulla base dei findings allegati al rapporto ispettivo della BCE, con specifico riferimento ai rilievi riguardanti: (1) il processo di determinazione del valore delle azioni; (2) la pratica dei ‘ finanziamenti baciati ‘ (finanziamenti erogati dalla BPVi alla clientela per fornire la provvista per l’acquisto di azioni proprie) ; (3) le procedure di riacquisto di azioni proprie; (4) gli storni contabili di interessi passivi riconosciuti alla clientela; (5) il mancato controllo
circa la non conformità degli aumenti di capitale deliberati nel 2013 e nel 2014 rispetto alla normativa MiFID; (6) la deliberazione di investimenti per centinaia di milioni in tre fondi chiusi ( unknown exposure ), senza la preventiva informativa sulla composizione dei titoli sottostanti; (7) le attività delle funzioni di compliance e di internal audit ; (8) l’operatività della divisione finanza al di fuori dei poteri delegati dal c.d.a.; (9) i contratti derivati; (10) la carenza delle funzioni di controllo interno; (11) le disfunzioni attinenti alla controllata di diritto irlandese RAGIONE_SOCIALE; (viii) l’eccessività delle sanzioni ; (ix) alcuni motivi aggiunti in punto di conoscenza, da parte dell’incolpato , degli atti istruttori, di connessione tra i finanziamenti finalizzati all’acquisto delle azioni della banca e i comportamenti fraudolenti di alcuni dirigenti apicali e l’esclusione di ogni profilo di responsabilità dell’opponente , a suo dire, desumibile dalla richiesta di archiviazione presentata dalla Procura di Vicenza (in data 08/04/2019) del procedimento avviato nei suoi confronti.
NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione, affidato a venti motivi.
La Banca d’Italia ha resistito con controricorso .
Il Pubblico ministero ha depositato conclusioni scritte e ha chiesto che il ricorso sia respinto.
In data 28/10/2024, il ricorrente ha fatto istanza di rinvio della pubblica udienza, adducendo la pendenza del giudizio dal medesimo proposto dinanzi alla Corte EDU.
In prossimità di questa udienza le parti hanno depositato memorie.
Nella sua memoria il ricorrente ha chiesto alla Corte di disporre il rinvio pregiudiziale, ex art. 267 TFUE, alla Corte di giustizia UE, per sottoporle alcuni quesiti che reputa dirimenti ai fini della decisione di questo giudizio.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il ricorso per cassazione di NOME COGNOME è articolato in ottantuno pagine, suddivise in venti motivi: l’eccezionale ampiezza dell’atto impone una sintetica esposizione delle singole censure con rinvio ad esso per relazione.
Come suaccennato, il ricorrente ha chiesto un rinvio a nuovo ruolo in attesa che la Corte EDU si pronunci su ricorsi aventi ad oggetto sanzioni amministrative cui sarebbe da riconoscere natura sostanzialmente penale.
Rileva il Collegio che, in relazione all’analoga ipotesi dell’ istanza di sospensione del giudizio in attesa della definizione di altra controversia, la giurisprudenza di questa Corte di legittimità, ribadita anche di recente (Cass. n. 29963/2024), ha stabilito che essa è inammissibile se proposta per la prima volta in cassazione, in quanto il provvedimento richiesto esula dalla funzione istituzionale della Corte Suprema, cui è demandato soltanto il sindacato di legittimità delle anteriori decisioni di merito (S.U. n. 29172/20 e, in fattispecie in materia di sanzioni Consob, Cass. n. 23191/2023).
Ciò premesso, non è necessario disporre il rinvio della causa (iscritta al ruolo della S.C. nel 2020) a nuovo ruolo da un lato perché il suo oggetto -opposizione a delibera sanzionatoria della Banca d’Italia -è diverso e non sovrapponibile rispetto a ll’oggetto (opposizione a sanzioni irrogate dalla Consob) dei giudizi, attualmente pendenti, che il ricorrente ha proposto dinanzi alla Corte EDU; dall’altro perché, come verrà in seguito illustrato (vedi, in particolare, punto 21), la normativa interna non è in contrasto con le disposizioni della Convenzione europe a dei diritti dell’uomo .
Il primo motivo censura la violazione dell ‘ art. 6 CEDU, degli artt. 24 comma 1 della legge 262/2005 e 145 comma 1-bis, TUB,
degli artt. 41, par. 2, lett. a), 52, par. 5 della Carta UE, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3.
La sentenza impugnata è viziata nella parte in cui respinge la censura secondo cui il procedimento amministrativo non assicurerebbe un ‘ idonea separazione tra funzioni istruttorie e decisorie, sottoposte alla medesima direzione; non consentirebbe alcuna partecipazione dell ‘ incolpato alla fase decisoria e offrirebbe una tutela giurisdizionale limitata ad un solo grado di merito.
1.1. Il motivo è manifestamente infondato.
La sentenza, nella parte in cui non ravvisa l’illegittimità del procedimento sanzionatorio della Banca d’Italia, collima con il costante orientamento di legittimità (tra le altre, Cass. n. 10348/2024, in connessione con Cass. n. 16517/2020), che il Collegio intende riproporre, per il quale il procedimento sanzionatorio davanti alla Banca d ‘ Italia non viola il diritto di difesa dell ‘ incolpato, atteso che, sebbene l ‘ art. 24, comma 1, legge n. 262 del 2005 disponga che ‘ i procedimenti sanzionatori sono svolti nel rispetto dei principi della piena conoscenza degli atti istruttori, del contraddittorio, della verbalizzazione, nonché della distinzione tra funzioni istruttorie e funzioni decisorie ‘ , è tuttavia esclusa la diretta applicabilità, in tale ambito, dei precetti costituzionali degli artt. 24 e 111 Cost., invocabili solo con riferimento al processo che si svolge davanti al giudice, innanzi al quale l ‘ incolpato può impugnare il provvedimento sanzionatorio con piena garanzia del diritto di difesa e del contraddittorio (tra le altre, Cass. nn. 27127/2024, 26876/2024, 15293/2024).
Inoltre, il cumulo di funzioni istruttorie e decisorie in capo ad un medesimo organo previsto anche dall ‘ organizzazione interna della Banca d ‘ Italia, ovvero l ‘ affidamento della decisione sulla sanzione all ‘ organo gerarchicamente sovraordinato rispetto a quello preposto
allo svolgimento dell ‘ istruttoria, non comporta, di per sé, la violazione dell ‘ art. 6 CEDU, anche quando esso si risolva in una anticipazione del giudizio, dovendosi comunque aver riguardo, per poter configurare un ragionevole timore di mancanza di imparzialità in capo all ‘ organo investito della funzione decisoria, alla portata ed alla natura delle eventuali attività e decisioni preliminari, da valutarsi caso per caso (Cass. nn. 3845/2020, 10348/2024, cit.). Timore che, nella specie, va esclusa.
Il secondo motivo censura la violazione degli artt. 2 e 3 Cost., dell’art. 117 primo comma Cost., nel significato ricavabile dall’interposizione dell’art. 4 Protocollo n. 7 CEDU e dall’art. 50 della Carta UE, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c.
La sentenza è viziata nella parte in cui nega che il provvedimento sanzionatorio sia contrario al principio del ne bis in idem (poiché le condotte contestate al ricorrente sono già state punite dalla Consob con una sanzione pecuniaria complessiva di euro 290.000) e ritiene inapplicabile la disciplina sopravvenuta (d.lgs. n. 72/2015) che, sostanzialmente, esclude la responsabilità delle persone fisiche che sono componenti degli organi di gestione e controllo delle imprese e, in generale, reca una disciplina più favorevole.
2.1. Il motivo, che racchiude due distinte censure, è nel complesso manifestamente infondato.
In primo luogo, la CDA di Roma non ravvisa la violazione del principio del ne bis in idem sul rilievo che non esiste alcuna sovrapponibilità tra le sanzioni inflitte all’opponente dalla Banca d’Italia e quelle irrogate allo stesso dalla Consob, in ragione della diversità delle condotte, commissive e omissive, prescritte da disposizioni differenti, originate da diverse tipologie di competenze funzionali attribuite dalla legge alle diverse autorità (BCE e Banca d’Italia, da un lato, Consob, dall’altro).
Il giudice di merito si attiene al principio di diritto, enunciato da questa Corte (tra le altre, Cass. nn. 6738/2016, 5337/2019), secondo cui, in tema di vigilanza sull’attività di intermediazione finanziaria, gli artt. 5 e 6 del d.lgs. n. 58 del 1998 prevedono un sistema di controllo duale, nell ‘ ambito del quale alla Banca d ‘ Italia è attribuita la competenza relativa al controllo del rischio ed alla stabilità patrimoniale mentre alla Consob quella relativa alla trasparenza ed alla correttezza dei comportamenti. Anche di recente (Cass. nn. 28135/2022, che, in motivazione, menziona Cass. nn. 3845/2020, 2333/2021, 21017/2019), è stato sottolineato che il procedimento sanzionatorio della Banca d’Italia si riferisce alle carenze organizzative e del sistema dei controlli interni ed è evidentemente funzionale al rispetto di standard unitari di corretta gestione degli operatori finanziari attivi sul mercato, mentre quello affidato alla Consob riguarda i profili di inadempimento dell’obbligo di adottare procedure idonee a garantire l ‘ efficiente, corretto e trasparente svolgimento dei servizi di intermediazione finanziaria e delle attività di investimento, in funzione di protezione tanto del cliente, soggetto debole nell ‘ ambito del rapporto intercorrente con l ‘ operatore finanziario, quanto della corretta gestione dei servizi sul mercato finanziario.
In secondo luogo, per la Corte territoriale, oltre che inammissibile perché proposta in termini generici, è infondata la richiesta dell’opponente di applicare lo ius superveniens , ossia il d.lgs. n. 72/2015, quale lex mitior , in ragione del fatto che lo stesso decreto, all’art. 2 comma 3 , stabilisce che esso si applica ai fatti commessi dopo il 1° giugno 2016 (data di entrata in vigore delle disposizioni di carattere secondario adottate dalla Banca d’Italia, ai sensi e per gli effetti dell’art. 145 -quater , TUB, introdotto dalla normativa
sopravvenuta), e, quindi, non anche nel presente giudizio che riguarda fatti avvenuti in epoca anteriore.
Questa statuizione è conforme alla giurisprudenza di legittimità, la quale ha spesso affermato che le sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dalla Banca d ‘ Italia, ai sensi degli artt. 144 e seguenti, TUB, (nel testo anteriore alle modifiche di cui al d.lgs. n. 72/2015) nei confronti di soggetti che svolgono funzioni di direzione, amministrazione o controllo di istituti bancari, non sono equiparabili, quanto a gravosità economica ed incidenza sui diritti e libertà fondamentali, avuto riguardo alle concrete estrinsecazioni professionali, imprenditoriali e manageriali della persona, a quelle previste dall ‘ art. 187ter , TUF, per manipolazione del mercato, sicché esse non hanno natura sostanzialmente penale e non pongono, quindi, un problema di compatibilità con le garanzie riservate ai processi penali dall ‘ art. 6 CEDU (tra le altre, Cass. nn. 16517/2020, cit., 17209/2020, 24850/2019, 3656/2016). Cade, quindi, anche l’analogia del caso con la pronuncia n. 63 del 2019 della Consulta, ove l’applicazione della lex mitior era stata, in quell’occasione , affermata sulla scorta del riconoscimento della natura sostanzialmente penale della diversa fattispecie sanzionatoria rappresentata dall’art. 187 -ter , TUF. Esclusa, dunque, la natura afflittiva delle sanzioni irrogate, richiamata anche la ricostruzione nel quadro normativo internazionale e domestico, in virtù del quale il principio di retroattività della lex mitior di natura penale (estensibile alle sanzioni amministrative di carattere afflittivo) non è assoluto, ma può essere ragionevolmente derogato dal legislatore (Corte cost., sentenza n. 236 del 2011, punto 10; Corte cost., sentenza n. 393 del 2006; Grande Camera della Corte EDU, 17 settembre 2009, COGNOME c. Italia ; Corte EDU, decisione 27 aprile 2010, COGNOME c. Italia ), è stata ritenuta priva di pregio la questione di illegittimità costituzionale
dell ‘ art. 2, comma 3, d.lgs. n. 72 del 2015. Ne esce confermato l ‘ orientamento di questa Corte in virtù del quale, in materia di illecito amministrativo, il principio di legalità e irretroattività comporta l’assoggettamento della condotta illecita alla legge del tempo del suo verificarsi, in base al canone del tempus regit actum (Cass. n. 24374/2024, in connessione con Cass. nn. 6295/2023, 16322/2019).
3. Il terzo motivo censura la falsa applicazione dell’art. 14 comma 2 della legge n. 689 del 1981: la sentenza ha erroneamente respinto l’eccezione dell’opponente di decadenza della Banca d’Italia dalla potestà sanzionatoria a causa della tardiva notificazione degli addebiti.
In particolare, a fronte di un accertamento conclusosi il 29 febbraio 2016, la contestazione è stata notificata il 12 luglio 2016, un mese e mezzo dopo la scadenza del termine di novanta giorni di cui all’art. 14, cit.
3.1. Il motivo è manifestamente infondato.
Ricordando il precedente di questa Corte (Cass. n. 12436/2022) chiamata a pronunciarsi sul ricorso proposto da un altro consigliere d’amministrazione della BPVi avverso la stessa delibera sanzionatoria qui in esame, rileva il Collegio che la CDA di Roma, con motivazione insindacabile in questa sede, ha ritenuto tempestiva la contestazione della violazione avvenuta a luglio 2016 in quanto l’accertamento si perfeziona con l’apposizione del visto da parte del capo dipartimento della Banca d’Italia, adempimento avvenuto il 6 luglio 2016 e perché, nella specie, il tempo intercorso tra la seconda riunione della commissione per l’esame delle irregolarità (29/02/2016) e l’apposizione del visto d el capo dipartimento è giustificato dalla condivisibile necessità di assicurare , nell’ambito di un procedimento particolarmente complesso (come ha sottolineato anche nella discussione dinanzi a questa S.C. la difesa della Banca d’Italia , primo
nel suo genere, per essere scaturito dalle sollecitazioni della BCE e dalla documentazione da questa inviata all’autorità di vigilanza nazionale) (vedi pag. 9 della sentenza), ‘la comple tezza dell’istruttoria e la rispondenza di ogni passaggio procedimentale ai principi posti dalla legge a presidio della legalità dell’azione dell’amministrazione, in termini di totale autonomia e indipendenza rispetto alla BCE, potendo quindi convenirsi sulla circostanza che l’accertamento si sia perfezionato il 6 luglio 2016, con l’apposizione del citato visto’.
La sentenza ha fatto corretta applicazione del principio di diritto, più di una volta espresso da questa Corte (Cass. nn. n. 4820/2019, 29594/2023), secondo cui, in tema di sanzioni amministrative irrogate dalla Banca d ‘ Italia, il termine di decadenza previsto dall ‘ art. 14 della l. n. 689 del 1981 per la notifica della violazione decorre dall ‘ apposizione del visto del direttore centrale della vigilanza bancaria e finanziaria, suggellandosi con esso la conclusione della fase di accertamento di tutti gli elementi dell ‘i llecito, comprensiva, altresì, della valutazione e dell ‘ adeguata ponderazione dei dati acquisiti e degli atti preliminari.
Più in generale, in tema di sanzioni irrogate dalle autorità di vigilanza, la giurisprudenza di legittimità (tra le altre, Cass. n. 27242/2024, in materia di sanzioni Consob) ha chiarito che: il momento dell’accertamento , che presuppone un’attività istruttoria, non coincide con quello dell’acquisizione del fatto nella sua materialità da parte dell’autorità di vigilanza, ma è quello in cui l’autorità ha completato l’attività istruttoria finalizzata a verificare la sussistenza o meno dell’infrazione. In altre parole: ‘constatazione del fatto’ e ‘accertamento del fatto’ sono due concetti diversi; l’accertamento dell’illecito amministrativo in materia bancaria e di intermediazione finanziaria non si identifica nella fine dell’attività ispettiva o
commissariale, ma si colloca in un momento successivo, da valutare a seconda delle particolarità del caso concreto; spetta all’autorità amministrativa, e non al giudice, decidere se avviare o meno un’attività di indagine; al giudice compete esclusivamente controllare se il provvedimento sanzionatorio sia stato adottato in un tempo ragionevole e, a tal fine, deve valutare la superfluità ex ante , e non la congruità ex post , dell’indagine amministrativa prodromica all’adozione del provvedimento sanzionatorio .
Il quarto motivo censura la violazione dell’art. 3 della legge n. 689 del 1981, interpretato alla luce dell’art. 6 CEDU, nonché dell’art. 7, comma 10, d.lgs. n. 150 del 2011 e dell’art. 2697 c.c., per inosservanza del principio di presunzione di innocenza, e la violazione del principio di cui all’art. 48 della Carta UE e dell’art. 6, par. 2 , CEDU.
La sentenza è viziata perché ritiene che la Banca d’Ital ia abbia provato la sussistenza dell’elemento soggettivo della violazione sulla base della presunzione di colpa di cui all’art. 3 della legge n. 689 del 1981, senza considerare le circostanze esimenti o, comunque, idonee ad escludere che il ricorrente fosse tenuto al controllo dei singoli atti d’impresa su cui poggiano le contestazioni e trascurando il fatto che, in realtà, in applicazione dell’art. 6 CEDU (che opera sia per i giudizi penali che per i giudizi civili), le regole di riferimento sono quella dell’onere della prova ex art. 2697 c.c., che grava sulla P.A., e la presunzione di innocenza.
4.1. Il quinto motivo censura l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c.: la sentenza, facendo applicazione della presunzione di colpevolezza, trascura che tale presunzione non opera nel caso in cui (come nella specie) all’interno della banca un gruppo di dirigenti abbia agito in maniera illecita e occulta.
4.2. L’ottavo motivo di cui qui si anticipa l’esposizione – censura la violazione e falsa applicazione dell’art. 2392 comma 1 c.c., dell’art. 53 comma 1, TUB, e delle disposizioni regolamentari di attuazione adottate dalla Banca d’Italia con le circolari nn. 285/2013 e 263/2006, nel testo applicabile all’epoca dei fatti, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c.
La sentenza ha erroneamente addebitato al ricorrente condotte omissive senza considerare quali sono, in base alla legge e ai regolamenti, le effettive facoltà di controllo del c.d.a. e dei suoi componenti sulla struttura aziendale di una banca.
5 . Il quarto, il quinto e l’ottavo motivo, suscettibili di esame congiunto per connessione, sono manifestamente infondati.
In primo luogo, con riferimento al quinto motivo, non sussiste l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.): il ricorrente non individua, nel rispetto della previsione dell’art. 366 comma 1 n. 6 c.p.c., alcun fatto ‘storico’, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e che abbia carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia. La censura si sostanzia nella critica alla ricostruzione fattuale operata dalla CDA di Roma in relazione alle violazioni ascritte all’ ex consigliere d’amministrazione da lla delibera sanzionatoria, la cui valutazione esula dal sindacato della RAGIONE_SOCIALE
In secondo luogo, la CDA di Roma individua e analizza i ‘ segnali di allarme ‘ in presenza dei quali i consiglieri di amministrazione, anche se privi di delega (come nel caso del ricorrente), in adempimento del dovere di agire in modo informato sancito dall’art. 2381 comma 6 c.c., erano obbligati a porre in essere misure concrete
e adeguate, finalizzate a neutralizzare le criticità riscontrate e ad eliderne o (quanto meno) a contenerne gli effetti negativi.
In terzo luogo, è priva di fondamento l’asserita violazione della presunzione di innocenza, di matrice penalistica, applicabile, nell’ottica del ricorrente, nel caso in esame. In precedenza (punto 2.1.) è stato messo in risalto che le sanzioni amministrative comminate dal testo unico bancario non hanno natura sostanzialmente penale, e questo aspetto -occorre rimarcarlo appare già sufficiente al fine di escludere l’operatività dell’invocata presunzione d’innocenza del soggetto incolpato.
Da una diversa prospettiva, la decisione della CDA di Roma si colloca nel solco della giurisprudenza di questa Corte (da ultimo, Cass. n. 21502/2024; in termini, Cass. 29963/2024, cit.), che ha compiuto un’approfondita disamina delle questioni di diritto in tema di sanzioni inflitte dalla Banca d’Italia ai componenti del c.d.a. di un ente creditizio per carenze nell’organizzazione e nei controlli interni.
È stato osservato che «ai fini del contenimento del rischio creditizio nelle sue diverse configurazioni, nonché dell’organizzazione societaria e dei controlli interni, l’art. 53, lett. b) e d), del d.lgs. n. 385 del 1993 e le disposizioni attuative dettate con le istruzioni di vigilanza per le banche, mediante la circolare n. 229 del 1999 (e successive modificazioni e integrazioni), sanciscono doveri di particolare pregnanza in capo al consiglio di amministrazione delle società bancarie, che riguardano l’in tero organo collegiale e, dunque, anche i consiglieri non esecutivi, i quali sono tenuti ad agire in modo informato e, in ragione dei loro requisiti di professionalità, ad ostacolare l’evento dannoso, sicché rispondono del mancato utile attivarsi», e si è chiarito che «in caso di irrogazione di sanzioni amministrative, la Banca d’Italia, anche in virtù della presunzione di colpa vigente in materia, ha unicamente l’onere di dimostrare
l’esistenza dei segnali di allarme che avrebbero dovuto indurre gli amministratori non esecutivi, rimasti inerti, ad esigere un supplemento di informazioni o ad attivarsi in altro modo, mentre spetta a questi ultimi provare di avere tenuto la condotta attiva dovuta o, comunque, mirante a scongiurare il danno (Cass. n. 22848 del 2015; Cass. n. 19556 del 2020)». La Corte aggiunge che «l dovere di agire informati dei consiglieri non esecutivi delle società bancarie, sancito dagli artt. 2381, commi 3 e 6, e 2392 c.c., non va, del resto, rimesso, nella sua concreta operatività, alle segnalazioni provenienti dai rapporti degli amministratori delegati, giacché anche i primi devono possedere ed esprimere costante e adeguata conoscenza del business bancario e, essendo compartecipi delle decisioni di strategia gestionale assunte dall’intero consiglio, hanno l’obbligo di contribuire ad assicurare un governo efficace dei rischi di tutte le aree della banca e di attivarsi in modo da poter efficacemente esercitare una funzione di monitoraggio sulle scelte compiute dagli organi esecutivi, non solo in vista della valutazione delle relazioni degli amministratori delegati, ma anche ai fini dell’esercizio dei poteri, spettanti al consiglio di amministrazione, di direttiva o avocazione concernenti operazioni rientranti nella delega. Questa interpretazione non vale ad accollare una responsabilità oggettiva agli amministratori non esecutivi, essendo gli stessi perseguibili ove ricorrano comunque sia la condotta d’inerzia, sia il fatto pregiudizievole antidoveroso, sia il nesso causale tra i medesimi, sia, appunto, la colpa, consistente nel non aver rilevato colposamente i segnali dell’altrui illecita gestione, pur percepibili con la diligenza della carica (anche indipendentemente dalle informazioni doverose ex art. 2381 c.c.), e nel non essersi utilmente attivati al fine di evitare l’evento. Sotto il profilo probatorio, ciò comporta che spetta al soggetto il quale afferma la responsabilità allegare e provare, a fronte dell’inerzia dei consiglieri non delegati,
l’esistenza di segnali d’allarme (anche impliciti nelle anomale condotte gestorie) che avrebbero dovuto indurli ad esigere un supplemento di informazioni o ad attivarsi in altro modo (con la richiesta di convocazione del consiglio di amministrazione rivolta al presidente, il sollecito alla revoca della deliberazione illegittima o all’avocazione dei poteri, l’invio di richieste per iscritto all’organo delegato di desistere dall’attività dannosa, l’impugnazione delle deliberazione ex art. 2391 c.c., la segnal azione al p.m. o all’autorità di vigilanza, e così via); assolto tale onere, è, per contro, onere degli amministratori provare di avere tenuto la condotta attiva dovuta o la causa esterna, che abbia reso non percepibili quei segnali o impossibile qualsiasi condotta attiva mirante a scongiurare il danno». La stessa giurisprudenza puntualizza che, in materia di sanzioni amministrative ex art. 144, TUB, nei confronti dei soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, di direzione o di controllo di istituti bancari «il legislatore individua una serie di fattispecie, destinate a salvaguardare procedure e funzioni ed incentrate sulla mera condotta, secondo un criterio di agire o di omettere doveroso, e così ricollega il giudizio di colpevolezza a parametri normativi estranei al dato puramente psicologico, limitando l’indagine sull’elemento oggettivo dell’illecito all’accertamento della ‘suità’ del comportamento inosservante, con la conseguenza che, una volta integrata e provata dall’autorità amministrativa la f attispecie tipica dell’illecito, grava sul trasgressore, in virtù della presunzione di colpa posta dall’art. 3 della legge 24 novembre 1981, n. 689, l’onere di provare di aver agito in assenza di colpevolezza. Per quanto specificamente attiene ai consiglieri non esecutivi di società bancaria, l’art. 53, lett. b e lett. d, del d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385, prevede che la Banca d’Italia emani disposizioni di carattere generale aventi ad oggetto, tra l’altro, il contenimento del rischio nelle sue
diverse configurazioni e il governo societario, l’organizzazione amministrativa e contabile, nonché i controlli interni e i sistemi di remunerazione e di incentivazione. Le disposizioni attuative sono state quindi dettate con le istruzioni di vigilanza per le banche, mediante la circolare 21 aprile 1999 n. 229, e le successive modificazioni ed integrazioni, le quali sanciscono doveri di particolare pregnanza in capo all’intero consiglio di amministrazione di azienda bancaria (e quindi anche dei consiglieri non esecutivi), che si incentrano, per l’intero organo collegiale, proprio in quel compito di monitoraggio e valutazione della struttura operativa».
Nella fattispecie concreta, anticipando un tema che verrà esaminato in seguito (vedi punto 18), osserva la Corte che il giudice di merito, alla stregua di un accertamento di fatto che sta fuori del perimetro del giudizio di cassazione, ha stabilito che la Banca d’Italia ha indicato i segnali di pericolo quali, ad esempio, il ‘fenomeno massivo’ dei finanziamenti correlati all’acquisto di azioni proprie adottati in collegamento con gli aumenti di capitale – che avrebbero dovuto allertare i consiglieri privi di deleghe e indurli, in adempimento del dovere di agire in modo informato, ad attivarsi sollecitando e pretendendo approfondimenti sul tema.
6. Il sesto motivo censura la violazione dell’art. 24, comma 1, legge n. 262/2005 e dell’art. 145 comma 1bis , TUB, come interpretato alla luce dell’art. 6 CEDU, dell’art. 41, par. 2, lett . a), e dell’art. 52, par. 5, della Carta UE, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c.
La sentenza è viziata perché respinge l’eccezione dell’opponente di violazione del diritto al contraddittorio in relazione all ‘ assoluta genericità dell’atto di contestazione, che non indica nel dettaglio gli addebiti rivolti all’incolpato.
6.1. Il motivo è manifestamente infondato.
In disparte la prospettabile inammissibilità della censura per difetto di autosufficienza a causa dell’ omessa riproduzione, nel ricorso, della lettera di contestazione contenente i rilievi mossi all’opponente, rileva il Collegio che la sentenza impugnata afferma che gli addebiti sono riportati (appunto) nella lettera di contestazione, che indica in maniera chiara i fatti contestati e le norme, primarie e secondarie, che si assumono violate.
Quanto alla legittimità della motivazione per relationem del provvedimento sanzionatorio ex art. 144, TUB, alla quale fa riferimento la sentenza impugnata per disattendere la censura di genericità e indeterminatezza della contestazione, la giurisprudenza di questa Corte ha ripetutamente stabilito che deve ritenersi legittima tecnica di redazione provvedimentale il rinvio operato dal direttorio alla motivazione contenuta nella proposta di irrogazione di sanzioni, il cui testo integrale è stato notificato al ricorrente congiuntamente al provvedimento sanzionatorio, e ha aggiunto che il direttorio, ove condivida i motivi illustrati dalla commissione, non è tenuto a ribadirli e a riportarli per esteso (Cass. n. 27127/2024, cit., in connessione con Cass. nn. 4725/2016 e 4/2019).
È altresì corretto il riferimento del giudice di merito alla giurisprudenza di legittimità che, precisa la sentenza, ha affrontato ex professo la questione. La Cassazione (Cass. n. 5743/2004) ha avuto modo di affermare che è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 23 e 97 Cost., dell ‘ art. 144, TUB, in relazione ai precedenti artt. 51 e 53, comma 1, per violazione dell ‘ obbligo di tipicità e determinatezza delle fattispecie soggette a sanzione amministrativa pecuniaria. Premesso, infatti, che, in tema di sanzioni amministrative, l ‘ art. 1 della legge 689 del 1981, non contiene – a differenza di quanto avviene per gli illeciti penali, per i quali opera il principio di stretta legalità di cui all ‘ art. 25,
secondo comma, Cost. – una riserva di legge tale da escludere la possibilità di integrare il precetto sanzionatorio, avente base nella legge, mediante norme regolamentari delegate, confacenti al particolare ambito tecnico-specialistico cui si riferiscono, va rilevato che le norme sopra indicate non sono qualificabili come norme punitive ‘ in bianco ‘ , atteso che i poteri della Banca d ‘ Italia di emanare istruzioni e disposizioni in tema di vigilanza informativa (art. 51) e di vigilanza regolamentare (art. 53) non sono lasciati al mero arbitrio di detto organo di controllo, bensì sono esercitati in conformità a ben individuati principi e direttive (anche di livello europeo), a strumenti normativi primari e secondari e ad altri criteri oggettivi, dettagliati e rigorosi, al fine di integrare, data la particolare tecnicità e la continua evoluzione della materia, le norme di base, determinandone la parte precettiva mediante la specificazione del contenuto, già sufficientemente delineato nella legge (in termini, tra le altre, Cass. n. 27127/2024, cit., anch’essa in tema di sanzioni della Banca d’Italia).
Ad avviso del Collegio, infine, è certo che il ricorrente ha compreso le contestazioni a suo carico e che ha potuto svolgere una difesa molto articolata, sia nel giudizio di merito, nel quale ha proposto un ricorso basato su otto motivi (e motivi aggiunti), sia in sede di legittimità, dove ha meticolosamente censurato (sulla base di venti motivi, illustrati anche da un’ ampia memoria conclusiva) il percorso argomentativo seguito dalla Corte di merito.
Il settimo motivo censura la violazione dell’art. 18, par. 5, reg. UE n. 1024/2013, dell’art. 23 Cost. e dell’ art. 1 della legge n. 689 del 1981, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c.
La sentenza è viziata perché reputa corretto l’accertamento della Banca d’Italia in assenza di un’ attività ispettiva propria e sulla base di un accertamento ispettivo della BCE, compiuto in carenza di potere,
perché relativo a fatti accaduti prima dell ‘ investitura della BCE in materia di vigilanza sulle banche europee, investitura avvenuta solo il 04/11/2014.
7.1. Il motivo è manifestamente infondato.
La CDA di Roma ritiene la censura, secondo cui il procedimento sanzionatorio della Banca d’Italia sarebbe illegittimo perché esclusivamente basato sul report della BCE, ‘ generica ‘ e ‘ apodittica ‘ – perché imperniata sul mero assunto dell’assenza di un accertamento autonomo da parte dell’autorità di vigilanza – nonché infondata in quanto, per un verso, l’avvio del procedimento interno su input della Banca europea è regolato dall’ art. 144septies comma 2, TUB; per altro verso, la Banca d’Itala , senza appiattirsi acriticamente sul rapporto degli ispettori della BCE, ha proceduto ad una propria, indipendente valutazione degli elementi accertati dall’autorità sovranazionale, alla luce delle disposizioni di diritto interno applicabili e contestate all’incolpato, in forza dell’art. 18 , par. 5, del reg. UE MVU. Con l’ulteriore precisazione che la BCE, la cui vigilanza ha avuto inizio a partire dal 04/11/2014, ha dovuto necessariamente prendere in considerazione anche fatti antecedenti, in quanto incidenti sull ‘ attività di governance , di organizzazione e di controllo dell ‘istituto bancario ‘significativo’ . Anche perché, prosegue la sentenza (vedi pag. 16), si tratta di valutazioni di aspetti strutturali e organizzativi attinenti non già a singoli fatti, ma a condotte omissive riguardanti l’architettura organizzativa della banca, valutati dalla BCE nel periodo compreso tra il 26/02/2015 e il 03/07/2015, ma necessariamente riferiti anche all’assetto precedente . Né, conclude la Corte di merito, è ravvisabile alcuna ‘ zona franca ‘ per eventuali irregolarità commesse dalle banche significative prima del novembre del 2014 che, ove si desse credito al fallace r agionamento dell’opponente, sarebbe invece sottratta alla vigilanza della BCE e della Banca d’Italia.
Rileva il Collegio che, sul piano normativo, l’art. 18 (‘S anzioni amministrative’) del reg. UE MVE , par. 5 comma 1, prevede che : ‘ la BCE può chiedere alle autorità nazionali competenti di avviare procedimenti volti a intervenire per assicurare che siano imposte sanzioni appropriate in virtù di qualsiasi pertinente disposizione legislativa nazionale che conferisca specifici poteri attualmente non previsti dal diritto dell’Unione. Le sanzioni applicate dalle autorità nazionali competenti sono efficaci, proporzionate e dissuasive ‘ .
Nella specie, il ragionamento del giudice di merito appare ineccepibile sul piano logico nella parte in cui mette a fuoco le aporie della tesi dell’opponente; ha una solida base normativa nell’art. 144septies comma 2, lett. a), TUB, che dispone che la Banca d’Italia può applicare le sanzioni amministrative esclusivamente su richiesta della BCE, (tra l’altro) quando la sanzione è diretta a persone fisiche; si fonda su ll’ apprezzamento di fatto, che non rientra nel sindacato di legittimità, per il quale la Banca d’Italia , nel rispetto della normativa nazionale, ha compiuto un accertamento autonomo, basato sugli elementi fattuali indicati nel rapporto della BCE.
Il nono motivo censura la violazione e falsa applicazione dell’art. 2381 comma 5 c.c. , dell’art. 2392 comma 1 c.c., e dell’art. 2410 c.c., in relazione all’a rt. 360 n. 3 c.p.c.
La sentenza è viziata nella parte in cui ritiene fondato l’addebito di omesso controllo sulle modalità di determinazione del prezzo delle azioni di nuova emissione senza considerare che la stima del valore delle azioni era stata demandata dal c.d.a. a un esperto esterno alla banca (il prof. COGNOME), la cui proposta era stata approvata dall’assemblea dei soci, cui spetta decidere sull’aum ento del capitale.
Il decimo motivo censura l’omesso esame circa un fatto decisivo di cui all’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c.
La sentenza, lì dove imputa al ricorrente, con riferimento alla determinazione del prezzo delle azioni di nuova emissione, di non avere considerato come segnale d’i nattendibilità della valutazione del prof. COGNOME la stima della società Price Waterhouse Coopers (PWC), omette di tenere conto del fatto, allegato dall’opponente, che , in realtà, vi era perfetta coerenza tra le due valutazioni e che le differenze tra i valori finali delle stime erano soltanto l’effetto naturale dei diversi input di dati, connaturati alle diverse finalità delle stesse valutazioni.
11 . L’undicesimo motivo censura la violazione e falsa applicazione dell’art. 2392 comma 1 c.c., in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c.
La sentenza è viziata nella parte in cui ritiene fondato l’addebito della violazione delle norme prudenziali che impediscono di calcolare nel patrimonio di vigilanza il capitale finanziato perché pretermette il dato pacifico dell’esistenza di manovre occulte, ordite dalla direzione generale della BPVi all’insaputa dei consiglieri privi di deleghe, che non consentirono a questi ultimi di attivarsi per sollecitare le attività di approfondimento e di correzione delle condotte di alcuni dirigenti.
Il dodicesimo motivo censura l’omesso esame circa un fatto decisivo di cui all’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c.
La sentenza, nella parte in cui ravvisa la condotta colposa del ricorrente, consistente nel non avere ‘intercettato’ il fenomeno de lle operazioni baciate, omette di considerare che la banca aveva un sistema di controllo interno adeguato e appropriato, che non si è attivato in quanto il responsabile della funzione audit , contravvenendo alla disciplina primaria e alle disposizioni interne, non informò gli organi di controllo (c.d.a., collegio sindacale, comitato rischi) di quanto stava accadendo.
Il tredicesimo motivo censura la violazione e falsa applicazione dell’art. 2392 comma 1 c.c. , dell’art. 53 comma 1, TUB, delle circolari nn. 285/2013 e 263/2006, nella versione applicabile all’epoca dei fatti, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c.
La sentenza è viziata nella parte in cui ritiene fondato l’addebito al ricorrente di non avere predisposto una procedura strutturata e protetta, idonea a gestire gli ordini di vendita delle azioni BPVi dei clienti, a fronte del costante incremento degli ordini stessi, con conseguente perdita di funzionalità del mercato secondario dei titoli, perché non considera che un simile obbligo per gli amministratori non esiste. Infatti, prosegue il ricorrente, nessuna società di capitali (e tanto meno le società bancarie) sono obbligate al riacquisto delle azioni proprie, sicché non vi è alcuna legittima aspettativa di cessione da parte dei soci che hanno acquistato un titolo illiquido (non negoziato in mercati regolamentati).
Il quattordicesimo motivo censura l’omesso esame circa un fatto decisivo di cui all’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c.
La sentenza, nella parte in cui ravvisa la condotta colposa del ricorrente consistente nel non avere intercettato e impedito il fenomeno dei ristorni, ossia la pratica della dirigenza della banca volta a ricompensare i suoi clienti e azionisti che si fossero prestati a chiedere fidi e altre forme di finanziamento per sottoscrivere o acquistare azioni BPVi , non tiene conto del difetto dell’elemento soggettivo. Era infatti impossibile per un consigliere non esecutivo verificare la causale delle operazioni contestate, tutte formalmente autorizzate, di importo limitato e per le quali le strutture di controllo interno non avevano mai segnalato profili critici. Oltre al fatto, non valorizzato dal giudice di merito, che la concessione di storni era un tassello del disegno occulto della dirigenza, attuato attraverso singoli
atti di impresa concepiti in modo tale da sottrarsi ai sistemi interni di controllo.
Il quindicesimo motivo censura l’omesso esame circa un fatto decisivo di cui all’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c.
La sentenza, nella parte in cui qualifica come colposa la condotta del ricorrente consistente nell’avere autorizzato l’investimento di risorse della banca in fondi comuni d’investimento chiusi di diritto straniero e nel non avere adeguatamente monitorato la composizione e l’andamento di tali fondi, data anche l’ampia delega conferita al direttore generale (NOME COGNOME, non valuta che, come era emerso in sede di indagine, al c.d.a. non era imputabile una colpa omissiva a causa delle azioni di COGNOME, il quale agiva in maniera occulta, di concerto con altri dirigenti.
Il sedicesimo motivo censura l’omesso esame circa un fatto decisivo di cui all’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c.
La sentenza, nella parte in cui respinge le contestazioni del ricorrente sull’addebito di non essersi attivato per garantire un adeguato sostegno alle funzioni intere di ispettorato ( audit ) e conformità ( compliance ), è priva di motivazione perché non spiega le ragioni del rigetto del motivo di opposizione e, comunque, omette di considerare una serie di fatti rilevanti come, ad esempio, la circostanza che il responsabile della compliance si limitò a segnalare al titolare della funzione audit il possibile indizio della pratica delle operazioni baciate e che quest’ultimo , senza informare il c.d.a. e il collegio sindacale, preferì rapportarsi direttamente con il solo direttore generale.
17. Il diciassettesimo motivo censura l’omesso esame circa un fatto decisivo di cui all’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c.
La sentenza, nella parte in cui addebita al ricorrente di non avere rilevato che il direttore della funzione finanza, in assenza di apposita
delega del direttore generale, effettuava investimenti sul portafoglio strategico, trascura, da un lato, che tale attività, in quanto attività di impresa, non era controllabile dai singoli componenti del c.d.a.; dall’altro, che esisteva uno stretto collegamento tra il direttore generale e il direttore della funzione finanza, con piena assunzione di responsabilità da parte del primo.
18. Il diciottesimo motivo censura la violazione e falsa applicazione dell’art. 2392 comma 1 c.c., dell’art. 53 comma 1, TUB, delle circolari nn. 285/2013 e 263/2006, nella versione applicabile all’epoca dei fatti, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c.
La sentenza è viziata nella parte in cui ritiene fondato l’addebito al ricorrente di non avere adeguatamente monitorato la struttura e la composizione dei contratti derivati, stipulati a copertura dei rischi, trascurando che non compete al singolo amministratore privo di deleghe controllare la struttura di ciascun derivato e che quella sui derivati, in sé altamente opinabile, testualmente (pag. 77 del ricorso) ‘ una scelta rimessa all’autodeterminazione della banca, e come tale non discutibile né dal giudice né prima ancora dalle autorità di vigilanza’.
18.1. I motivi nove, undici, tredici che, ai sensi del l’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c. denunciano errores in iudicando e i motivi dieci, dodici, quattordici, quindici, sedici, diciassette e diciotto che, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c., denunciano l’omesso esame circa un fatto decisivo, suscettibili di esame congiunto perché ruotano attorno al medesimo asse concettuale rappresentato dalle singole contestazioni risultanti dai findings del report della BCE ai quali attinge l’accertamento dell’autorità di vigilanza nazionale, sono manifestamente infondati.
Prendendo le mosse dal sedicesimo motivo, non è fondata la doglianza di ‘ motivazione inesistente ‘: la sentenza è chiara e
analitica, espone adeguatamente le ragioni per le quali ritiene corretta la contestazione della violazione dell’obbligo del componente del c.d.a. di fornire un adeguato sostegno alle funzioni di conformità e di ispettorato (vedi punto 18.2. lett. f) , e perciò soddisfa senz’altro il requisito del ‘minimo costituzionale’, come de finito dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass. Sez. U., 27/12/2019, n. 34476, la quale cita, in motivazione, Sez. U., 07/04/2014, n. 8053; Sez. U. 18/04/2018, n. 9558; Sez. U. 31/12/2018, n. 33679). È stato anche chiarito che, al fine di assolvere all ‘ onere di adeguatezza della motivazione, il giudice di appello non è tenuto ad esaminare tutte le allegazioni delle parti, essendo necessario e sufficiente che egli esponga concisamente (come è accaduto nella specie) le ragioni della decisione così da doversi ritenere implicitamente rigettate tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse (Cass. n. 25509/2014).
Inoltre, come è già stato sottolineato in relazione ad altre doglianze (vedi punto 5), anche con riferimento ai motivi in esame, non sussiste l” omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio ‘ perché il ricorrente non individua alcun fatto ‘storico’, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e che abbia carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia.
Né sussistono i prospettati errori di diritto: il giudice di merito, con accertamento di fatto che sta oltre il confine del giudizio di cassazione, giunge alla conclusione che la Banca d’Italia ha messo in evidenza i segnali di allarme che avrebbero dovuto allertare i consiglieri privi di deleghe e indurli, in adempimento del dovere di agire in modo informato, ad attivarsi sollecitando e pretendendo i necessari approfondimenti. In altri termini, la sentenza, tracciate
correttamente le coordinate normative in tema di responsabilità degli amministratori privi di deleghe (vedi punto 5), disegnata con stringente logicità la propria intelaiatura argomentativa, operata una ricognizione puntuale e analitica della giurisprudenza di questa Corte, con motivazione insindacabile in sede di legittimità, dopo averli analiticamente esaminati, ritiene complessivamente fondati i rilievi su cui si basano le sanzioni, contenuti nei findings allegati al report della BCE da cui ha avuto origine il procedimento sanzionatorio della Banca d’Italia nei confronti delle persone fisiche dipendenti della BPVi.
18.2. Nel dettaglio, con riferimento alle principali violazioni su cui si fonda il provvedimento sanzionatorio, per la CDA di Roma (vedi le pagg. 17-24 della sentenza), il ricorrente è responsabile:
(a) quanto al processo di determinazione del valore delle azioni, perché, quale amministratore, ha omesso di effettuare un vaglio critico dei risultati della stima peritale delle stesse, al fine di garantire il corretto modus operandi del consulente esterno incaricato di determinare il prezzo delle azioni, il che ha comportato la sovrastima del valore complessivo del patrimonio netto della BPVi, per oltre euro 400 milioni (euro 4,6 per azione) anche ad onta della valutazione più prudenziale fornita dalla società RAGIONE_SOCIALE
(b) quanto al fenomeno massivo dei finanziamenti baciati, perché, pur essendo a conoscenza, come tutto il c.d.a., della normativa prudenziale dettata per gli aumenti di capitale (argomento che venne trattato dal c.d.a. anche nella riunione del 19/03/2013, in occasione di un aumento di capitale di euro 100 milioni, riservato ai nuovi soci) che non consente che, in caso di finanziamenti diretti o indiretti per l’acquisto di azioni proprie, l’ente creditizio computi il relativo controvalore nel capitale di vigilanza, non accertò se analoghe operazioni fossero previste anche in vista dell’aumento di capitale di euro 506 milioni in programma per il mese di giugno 2013, e per
quello di euro 607,8 milioni deliberato nel 2014, e omise inoltre di verificare quali presìdi potessero prevenire o evidenziare simili operazioni;
(c) quanto al riacquisto di azioni proprie, per non avere concorso all’adozione di una procedura che garantisse il rispetto della priorità cronologica degli ordini di vendita della clientela. Tanto più che l’incremento esponenziale degli ordini di vendita, nel biennio 2013/201 4, al contrario di quanto argomentato dall’opponente, non era riconducibile a fattori estranei alla banca, quali la percezione della discrasia tra prezzo delle azioni e loro ‘prezzo effettivo’;
(d) quanto agli storni degli interessi passivi sui finanziamenti riconosciuti alla clientela, per non avere rilevato l’inadeguatezza, i ritardi e le lacune dei controlli interni rispetto a una prassi collegata al fenomeno, colpevolmente trascurato e non fronteggiato dal c.d.a., dei finanziamenti baciati (principale causa del default dell’ente creditizio veneto). Riprendendo l’esempio della Banca d’Italia, il giudice di merito illustra il seguente esempio: l’operatore finanziario chiede un finanziamento di euro 200.000; BPVi glielo concede a condizione che euro 50.000 siano utilizzati per sottoscrivere azioni della banca correlate all’aumento di capitale; l’operazione è accettata dal cliente a condizione di non dovere corrispondere interessi passivi sugli euro 50.000 finanziati per sottoscrivere azioni di nuova emissione; gli interessi passivi, automaticamente addebitati, in seguito per la quota relativa agli euro 50.000 sono restituiti al cliente tramite il loro storno;
(e) quanto al mancato controllo circa la non conformità alla normativa MiFID dell’aumento di capitale deliberato nel 2013 e di quello deliberato nel 2014, per non avere adeguatamente valutato i rischi (soprattutto legali) a cui si esponeva la banca, a prescindere dal ruolo svolto dalla funzione compliance , che comunque è funzione
interna del cui operato il c.d.a. è pienamente responsabile. E questo perché, in base alla normativa bancaria, compete al c.d.a. controllare il corretto funzionamento delle strutture interne dell’ente creditizio ;
(f) quanto agli investimenti nei fondi chiusi (cd. unknown exposure ), per centinaia di milioni, in assenza della preventiva informativa circa la composizione dei ‘ sottostanti ‘ (comprensivi di azioni BPVi), per avere concorso, quale componente del c.d.a., a conferire, nella riunione consiliare del 19/03/2013, una delega in bianco al direttore generale (COGNOME) e al vice direttore generale (Piazzetta), autorizzandoli a compiere ‘ogni atto necessario e/o ritenuto opportuno per la finalizzazione di tali investimenti’ , e per non avere richiesto ai soggetti delegati una completa informativa al fine di valutare la composizione dei fondi addirittura dopo che, a giugno 2014, era emerso che i fondi detenevano azioni della banca. Analoghe considerazioni valgono per i rilievi (contestati in maniera generica dall’incolpato) a carico dell’opponente in relazione alle funzioni deputate ai controlli interni ( internal audit e compliance );
(g) quanto all ‘ operatività della divisione finanza, per avere lasciato che il titolare della funzione interna (Piazzetta) operasse senza deleghe e superando i limiti posti dal c.d.a., nonostante che tale anomalia fosse stata rilevata dalla funzione di revisione interna;
(h) quanto all ‘ omessa valutazione dei rischi connessi alle operazioni sui derivati, per essersi limitato ad affermare, in maniera generica, che non erano giunte segnalazioni di anomalie dalle funzioni di controllo, quale argomento difensivo privo di spessore dato che, come afferma la giurisprudenza di legittimità, le funzioni di controllo rientrano nella responsabilità dei vertici aziendali, tanto con riferimento alla loro predisposizione che con riferimento al loro funzionamento.
La decisione in esame segue la scia della giurisprudenza di questa Corte (tra le altre, Cass. nn. 29918/2024, 8581/2024, 24491/2022, 19556/2020, cit., 16517/2020, cit., 16587/2016, anch’esse in materia di responsabilità di consiglieri di enti creditizi) ed è corretta alla luce del principio di diritto che va così enunciato: «in tema di sanzioni amministrative previste dall ‘ art. 144 del d.lgs. n. 385 del 1993, l’o bbligo imposto dall ‘ art. 2381 ultimo comma c.c. agli amministratori delle società per azioni di ‘ agire in modo informato ‘ , comporta che il consigliere non esecutivo risponda non d ell’inadempimento degli specifici doveri gravanti sui soggetti titolari di poteri di gestione (amministratori delegati, direttori generali) o delle funzioni aziendali di controllo ( compliance , risk management , internal audit ), ma dell’inosservanza dei doveri che, anche in base alla normativa secondaria del settore bancario, incombono sui componenti del consiglio di amministrazione, come quello di approntare strumenti organizzativi in grado di garantire che il flusso delle informazioni rilevanti non si interrompa e raggiunga sempre il consiglio, e quello di adoperarsi, in maniera concreta ed efficiente, al fine di garantire la completezza, la veridicità e l ‘ efficacia funzionale dei sistemi informativi. La violazione di questi obblighi è causa sia di una responsabilità, di natura contrattuale, nei confronti dei soci della banca, sia di una responsabilità, di natura pubblicistica, nei confronti dell ‘a utorità di vigilanza».
Il diciannovesimo motivo censura la violazione e la falsa applicazione dell’art. 144 -quater , TUB, e dell’art. 18, par. 5, reg. UE n. 1024/2013, nella parte in cui prevede che le sanzioni applicate dalle autorità nazionali siano efficaci, proporzionate e dissuasive, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c.
La sentenza è viziata nella parte in cui reputa congrua la sanzione pecuniaria (pari a euro 163.000) senza considerare tutte le
circostanze rilevanti come la gravità e la durata della violazione, il grado della responsabilità, la capacità economica del soggetto, il vantaggio ritratto dall’illecito .
19.1. Il motivo è manifestamente infondato.
La CDA di Roma, per un verso, qualifica come generica la doglianza sulla violazione del principio di proporzionalità della sanzione (aspetto, questo, non attinto da specifica censura); per altro verso, reputa congrue le sanzioni pecuniarie applicate in ragione della particolare gravità della condotta e dello specifico ruolo svolto dal ricorrente, membro del c.d.a. dal 2007 al 2016, nonché componente del comitato esecutivo.
È il caso di richiamare il consueto indirizzo nomofilattico, secondo cui il giudizio sulla adeguatezza e proporzionalità della sanzione amministrativa è rimesso dalla legge alla discrezionalità del giudice di merito, che ha il potere di quantificarne l ‘ entità, entro i limiti sanciti dalla disposizione applicata, allo scopo di commisurarla all ‘ effettiva gravità del fatto concreto, globalmente desunta dai suoi elementi oggettivi e soggettivi, senza che sia tenuto a specificare i criteri seguiti, con conseguente insindacabilità della relativa valutazione in sede di legittimità (Cass. n. 19856/2024 che, in motivazione, menziona Cass. n. 4844/2021; Cass. nn. 5526/2020, 9126/2017; in termini, Cass. nn. 11481/2020, 10277/2024).
20. Il ventesimo motivo censura la violazione dell’art. 91 c.p.c., in relazione all’art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c.
La sentenza ha erroneamente liquidato a favore della Banca d’Italia le spese processuali nella misura di euro 20.000 per compensi professionali, nonostante che, qualora la P.A. stia in giudizio a mezzo di un proprio funzionario appositamente delegato e risulti vittoriosa, debbano essere riconosciute esclusivamente le spese vive,
adeguatamente documentale, con esclusione del pagamento dei diritti di procuratore e degli onorari di avvocato.
20.1. Il motivo è manifestamente infondato.
La doglianza poggia sull’erronea lettura degli atti di causa dai quali risulta che il patrocinio della Banca d’Italia è stato svolto da tre avvocati e non da funzionari dell’autorità di vigilanza. In continuità con la giurisprudenza di questa Corte, va ribadito il principio di diritto secondo cui, qualora la P.A. sia rappresentata in giudizio non da un funzionario delegato ma da un difensore, ai sensi degli artt. 82 e 87 c.p.c., il diritto dell ‘ amministrazione al rimborso delle spese di lite, ex art. 91 c.p.c., comprende anche i relativi onorari di difesa e diritti di procuratore, ancorché detto difensore sia anche un suo dipendente, atteso che quel diritto sorge per il solo fatto che la parte vittoriosa è stata in giudizio con il ministero di un difensore tecnico (Cass. n. 24374/2024, cit., Cass. nn. 23825/2023, 16274/2022).
21. Nella memoria da ultimo depositata il ricorrente chiede che il Collegio, con rinvio pregiudiziale, sottoponga alla Corte di giustizia UE alcuni quesiti al fine di verificare se le sanzioni comminate dalla Banca d’Italia , ai sensi dell’art. 144 , TUB, siano o meno compatibili con i principi e la normativa europea (Carta dei diritti fondamentali UE, artt. 6 e 7 CEDU) : l’ istanza, manifestamente infondata, va respinta.
Innanzitutto, è utile ricordare che l’oggetto della domanda di pronuncia pregiudiziale rivolta alla Corte di giustizia deve riguardare l’interpretazione o la validità del diritto dell’Unione, e non (come nel caso di specie pare sostanzialmente intendere il ricorrente) l’interpretazione delle norme del diritto nazionale o questioni di fatto sollevate nel procedimento principale (così C. giust., Raccomandazioni all’attenzione dei giudici nazionali, relative alla
presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale, 2018/C 257/01, in Gazzetta ufficiale dell’Unione europea del 20/07/2018).
Inoltre , per la giurisprudenza di questa Corte « non v’è diritto della parte all’automatico rinvio pregiudiziale ogniqualvolta la Corte di cassazione non ne condivida le tesi difensive (Cass., S.U., 08/07/2016, n. 14043), bastando che le ragioni siano espresse (Corte EDU, in caso COGNOME e Rezabek c. Belgio ), ovvero implicite laddove la questione pregiudiziale sia manifestamente inammissibile o manifestamente infondata (Corte EDU, in caso RAGIONE_SOCIALE , par. 36), ovverosia quando l’interpretazione della norma e del caso siano evidenti (Cass., S.U., 24/05/2007, n. 12067). Infatti, un organo giurisdizionale di ultima istanza non è tenuto a presentare alla Corte di giustizia una domanda di pronuncia pregiudiziale (art. 267 comma 3 TFUE), qualora esista già una giurisprudenza consolidata in materia o qualora la corretta interpretazione della norma di diritto di cui trattasi non lasci spazio a nessun ragionevole dubbio (Raccomandazioni 2016. C. – 439.01, par. 6)» (Cass. Sez. U., 19/06/2018, n. 16157, in motivazione, p. 5.5.; nello stesso senso, tra le tante, Cass. 07/06/2018, n. 14828; Cass. 16/06/2017, n. 15041, secondo cui il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione Europea presuppone il dubbio interpretativo su una norma comunitaria, che non ricorre allorché l’interpretazione sia auto-evidente oppure il senso della norma sia già stato chiarito da precedenti pronunce della Corte, non rilevando, peraltro, il profilo applicativo di fatto, che è rimesso al giudice nazionale). Ed anche la Corte costituzionale (sentenza n. 28 del 2010, in motivazione al p. 6) ha ritenuto che sia da escludere il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea, non «necessario quando il significato della norma comunitaria sia evidente, anche per essere stato chiarito dalla giurisprudenza della Corte di giustizia». A queste considerazioni
si può aggiungere che, sempre secondo la Corte di giustizia (C. giust., 06/10/1983, Cilift e a ., C-283/81; C. giust., 05/04/2016, C-689/13, RAGIONE_SOCIALE Nello stesso senso, cfr. C. giust., 28/07/2016, C-379/15, RAGIONE_SOCIALE ; C. giust., 06/10/2021, C561/19), viene meno l’obbligo di rinvio pregiudiziale allorquando la corretta applicazione del diritto dell’Unione europea si imponga con una evidenza tale da non lasciare adito ad alcun ragionevole dubbio sulla soluzione da fornire alla questione sollevata (cd. dottrina dell’ acte clair ).
Non è necessario, nel caso in esame, disporre il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia poiché, per la giurisprudenza di legittimità (della quale si è dato conto nelle pagini precedenti), le sanzioni amministrative pecuniarie applicate dalla Banca d ‘ Italia, ai sensi dell ‘ art. 144, TUB, per carenze nell ‘ organizzazione e nei controlli interni, non sono sanzioni amministrative di carattere punitivo, non pongono un problema di compatibilità con le garanzie riservate ai processi penali dall’art. 6 CEDU (secondo l’interpretazione della sentenza della Corte EDU del 04/03/2014, COGNOME RAGIONE_SOCIALE c. Italia ), nel senso che non sono equiparabili, per tipologia, severità, incidenza patrimoniale e personale, alle sanzioni Consob relative all’abuso di informazioni privilegiate (Cass. nn. 12031/2022, 4524/2021) e alla manipolazione del mercato (Cass. nn. 17209/2020, 24850/2019), entrambe ritenute sostanzialmente penali.
In conclusione, il ricorso va respinto.
Le spese del giudizio di cassazione, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
24 . Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115/2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis del citato art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in euro 9.000, a titolo di compenso, più euro 200, per esborsi, oltre al 15% sul compenso, a titolo di spese generali, e agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis del citato art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, in data 28 novembre 2024, nella camera di