Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 6035 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 2 Num. 6035 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 06/03/2025
Oggetto: sanzioni
amministrative
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 28026/2018 R.G. proposto da COGNOME rappresentato e difeso dagli avv.ti NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME, con domicilio in Roma, alla INDIRIZZO
– RICORRENTE –
contro
RAGIONE_SOCIALE , in persona del Governatore p.t., rappresentata e difesa dagli avv.ti NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME, con domicilio in Roma, INDIRIZZO
-CONTRORICORRENTE- avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 2780/2018, pubblicata in data 24.2.2018.
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 17.10.2024 dal Consigliere NOME COGNOME
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha concluso, chiedendo il rigetto del ricorso.
Udito gli avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
1. Con se ntenza n. 12780/2018, la Corte d’appello di Roma ha respinto l’oppos izione inizialmente proposta da NOME COGNOME -componente del Consiglio di amministrazione della Banca Monte dei Paschi di Siena – dinanzi al Tar Lazio e poi riassunta dinanzi al g.o., avverso la delibera n. 180/2013 con cui erano state irrogate all’opponente due sanzioni amministrative pecuniarie , per l’importo complessivo di € 225.000,00 per violazione de ll’art. 53, comma primo, lett. b) e d) del d.lgs. 385/1993 in materia di contenimento del rischi finanziari e per carenze nell’organizzazione e nei controlli interni.
La sanzione è scaturita da controlli ispettivi eseguiti dalla Banca d’Italia tra l’11.5.2010 e il 6.8.2010 , nel corso dei quali erano state rilevate gravi criticità nella situazione di liquidità della Banca, un’elevata esposizione dei rischi di tasso e problematiche gestionali per taluni investimenti in titoli di Stato finanziati sul mercato o in pronti contro termine.
All’ e sito di tali ispezioni la Banca D’Italia aveva soll ecitato un aumento di capitale e il rafforzamento dei controlli interni, monitorando l’evoluzione del profilo di rischio aziendale fino a richiedere un rafforzamento dei presidi di organizzazione e controllo. Una successiva verifica ispettiva tra il 27.9.2011 ed il 9.3.2012, sulla la gestione dei rischi, aveva avuto esito negativo, facendo emergere un sensibile peggioramento del profilo relativo alla liquidità nel luglio del 2011, rendendo necessario il ricorso a strumenti straordinari di provvista per assicurare continuità al pagamenti.
Tale criticità (sfociate, nella seconda metà del 2011, in una vera e propria crisi finanziaria) trovava origine nella carente azione strategica e manageriale e in iniziative contraddittorie e non ispirate a criteri di sana e prudente gestione, avendo la Banca promosso azioni di massimizzazione della redditività nel breve periodo in larga parte estranee all’operatività tipica del gruppo e strategie non
sostenibili sulla scorta degli usuali parametri di governo e dei correlati presidi di controllo.
La Corte di merito ha respinto l’opposizione, affermando anzitutto che la Banca d’Italia aveva tempestivamente adottato il provvedimento nel rispetto del termine di 240 gg. previsto dalla disciplina secondaria, che non sussistevano le violazioni procedime ntali denunciate dall’interessato e che era legittima la motivazione per relationem adottata dal Direttorio della Banca d ‘Italia con rinvio ai rilievi formulati dall ‘ Ufficio Rea.
Ha respinto le questioni di legittimità del regime transitorio di cui all’art. 2 d.lgs. 72/2015, escludendo una disparità di trattamento tra il diverso regime processuale sopravvenuto rispetto al rito camerale applicabile per le liti già pendenti al momento dell’entrata in vigore del nuova disciplina processuale, negando che la sanzione applicata avesse carattere penale, non occorrendo estendere le garanzie difensive alla fase procedimentale amministrativa.
Nel merito ha ritenuto che il ricorrente dovesse rispondere delle violazioni pur in assenza di deleghe operative, avendo il dovere di agire informato e di sollecitare tutte le iniziative necessarie a superare le criticità gestionali ed organizzative, mentre nulla risultava fosse stato fatto dal CDA, giudicando congrua la sanzione applicata.
Per la cassazione della sentenza NOME COGNOME ha proposto ricorso affidato a nove motivi.
La Ba nca d’Italia resiste con controricorso.
Con ordinanza interlocutoria del 6.3.2024 la causa è stata rimessa in pubblica udienza.
Le parti hanno depositato memorie illustrative.
Il Procuratore Generale ha fatto pervenire conclusioni scritte.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo deduce l’illegittimità costituzionale dell’art. 145 d.lgs. n. 385/1993, in relazione all’art. 76 Cost., per difetto assoluto di delega e illegittimità radicale del rito applicato dalla Corte
d’appello al giudizio di opposizione conclusosi con l’ordinanza impugnata.
Sostiene il ricorrente che: a) il decreto 72/2015 è stato adottato sulla base dei criteri enunciati dall’art. 3, L. 154/2013, volto al recepimento della Direttiva 2013/36/UE in materia di accesso all’attività degli enti creditizi e alle imprese di investimento; b) in nessuno dei 165 articoli della la Direttiva era prevista la modifica del procedimento sanzionatorio ed anzi, la disposizione concernente i poteri di vigilanza, di irrogazione della sanzione e l’esercizio dei diritti di ricorso disciplinava i soli presupposti applicativi della sanzione, senza alcun riferimento alla fase giurisdizionale, mentre l’art. 72 si era limitato ad imporre agli Stati membri di assicurare l’effettività delle sanzioni mediante le norme interne; c) l’art. 3, L. 154/2014 aveva autorizzato il Governo a rivedere in modo organico e in coerenza con quanto previsto dalla richiamata Direttiva, la disciplina delle sanzioni di cui all’art. 144 TUB, unitamente alla relativa procedura sanzionatoria, ma non a riscrivere le norme in tema di opposizione, in realtà adottate solo per rispondere ai rilievi della Corte EDU nel caso COGNOME ed altri contro Italia. La pronuncia impugnata risulterebbe – inoltre – in contrasto con la giurisprudenza costituzionale, che vieta la possibilità di utilizzare una legge di delegazione “multi-oggetto” relativa ai profili sostanziali delle sanzioni per modificare anche le norme processuali in assenza di uno specifico criterio direttivo (sentenze nn. 162/2012 e 94/2014).
Il motivo è infondato.
La Corte di merito ha ritenuto applicabile il rito ex art. 145 nel testo anteriore alle modifiche introdotte dal d.lgs. 72/2015, con svolgimento dell’udienza pubblica , per cui l’opponente ha certamente beneficiato di regole processuali più favorevoli di quello precedenti, senza alcuna effettiva privazione di facoltà difensive, solo diversamente conformate rispetto alle nuove regole processuali.
Il dubbio di incostituzionalità per eccesso di delega è comunque infondato.
L’originaria formula zione dell’art. 145, commi quarto -settimo, d.lgs. 385/1933, prevedeva -per il giudizio di opposizione alle sanzioni irrogate della Banca d’Italia – la trattazione della causa in camera di consiglio e la definizione della lite con decreto motivato, sentito il pubblico ministero, previa acquisizione, su istanza di parte, di memorie e documenti, con eventuale audizione personale dell’interessato, ove richiesta.
La norma è stata successivamente abrogata dall’art. 4, comma primo, punto n. 17, dell’allegato quarto al D.LSGS. 104/2010, con disposizione a sua volta dichiarata illegittima con sentenza della Corte costituzionale n. 94/2014, pubblicata in data 23.4.2014.
Al momento dell’entrata in vigore della L. 154/2014 (12.11.2014), era stata -quindi reintrodotta l’intera disposizione dell’art. 145, d.lgs. 385/1993, recante le norme in tema di procedura sanzionatoria ( incluso il processo di opposizione), come espressamente previsto dalla già richiamata pronuncia della Corte costituzionale 94/2014 (in cui, a chiusura della motivazione, si legge che, per effetto dell’adottata dichiarazione di incostituzionalità ‘ tornano ad avere applicazione le disposizioni illegittimamente abrogate ‘).
Le successive modifiche al procedimento di opposizione sono state introdotte con il d.lgs. 72/2015, in attuazione dei principi contenuti nella legge delega 154/2014, il cui art. 3, comma primo, lettera i) aveva attribuito al governo il compito di intervenire sulla disciplina del d.lgs. 385/1993 e di procedere, in modo organico e in coerenza con quanto previsto dalla direttiva 2013/36/UE e con le disposizioni emanate in attuazione del predetto articolo, alla revisione della disciplina delle sanzioni amministrative pecuniarie prevista dall’articolo 144 e della relativa procedura sanzionatoria , stabilendo una rimodulazione delle sanzioni a carico degli enti e delle persone fisiche (art. 3, comma primo, lettera i, nn. 1.2.1-1.2.3), con espressa
estensione del trattamento sanzionatorio a tutte le violazioni previste nel vigente articolo 144 (art. 3, comma primo, n. 2), tenendo fermo, per quelle in materia di trasparenza, il principio della rilevanza della violazione.
La norma aveva inoltre autorizzato tutte le modificazioni e le integrazioni della normativa vigente, occorrenti ad assicurare il coordinamento con le disposizioni emanate in attuazione della delega (art. 3, comma primo, lettera q).
L’attuale art. 145, in luogo della trattazione camerale del procedimento, prevede lo svolgimento dell’udienza pubblica e la discussione orale della causa, ferme le previgenti disposizioni in tema di contraddittorio cartolare, audizione personale dell’incol ato e poteri officiosi di indagine (originariamente discendenti dall’applicabilità degli artt. 737 c.p.c.).
1.2. Il potere di intervenire sul rito dell’opposizione era dunque espressamente conferito al Governo dall’art. 3 della legge delega, nel punto in cui consentiva l’adozione di modifiche alla pro cedura sanzionatoria, ivi incluse le norme processuali reintrodotte dalla già citata pronuncia n. 94/2014 (Cass. 32135/2018; Cass. 17291/2020; Cass. 23554/2020; Cass. 12295/2024).
Non rileva l’assenza nella L. 154/2014 – di un più specifico criterio direttivo volto a modificare nei termini anzidetti il giudizio di opposizione.
Le modifiche processuali risultano connesse al nuovo regime sostanziale delle sanzioni di cui agli 144 e ss. TUB, di cui integrano e completano la disciplina mediante l’arricchimento delle facoltà difensive concesse all’incolpato (celebrazione dell’udienza pubblica e trattazione orale della causa), quale opportuno bilanciamento -sul versante processuale -delle misure di inasprimento del regime sanzionatorio preannunciato dalla Direttiva (cfr. considerando n. 41 e art. 66, lettere c) e d) e poi recepito prima nella L. 154/2014 e -successivamente -nelle disposizioni del d.lgs. 72/2015.
La scelta fatta propria dal legislatore delegato non eccede -quindi dai limiti imposti dall’art. 76 Cost., risultando coerente con la formulazione letterale della delega e con i principi ispiratori della direttiva che della L. 154/2014, oltre che con l’evoluzione del quadro comunitario derivante dalle pronunce della Corte EDU (tra cui anche la sentenza COGNOME ed altriItalia).
Il contenuto della delega deve essere identificato, tenendo conto del contesto normativo nel quale si inseriscono la legge-delega ed i relativi principi, oltre che delle finalità che la ispirano, verificando, nel silenzio di criteri direttivi su uno specifico tema, se le scelte adottate non siano in contrasto con gli indirizzi generali della delega stessa (Corte cost. 341/2007; Corte cost. 426/2006; Corte cost. 285/2006). Al legislatore delegato compete uno spazio di discrezionalità che può essere più o meno ampio in relazione al grado di specificità dei criteri della delega (Corte cost. 213/2005; Corte cost. 490/2000), consentendo comunque l’emanazione di norme che rappresentino un coerente sviluppo e, se del caso, un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante (Corte Cost. 98/2008).
Sulla scorta di tali rilievi, la questione di legittimità costituzionale del nuovo art. 145 TUB non appare -dunque -fondata.
2. Il secondo motivo deduce la violazione dell’art. 2, comma quinto, d.lgs. 72/2015 e 145, commi 4,5,6,e 7 7 bis e 8 d.lgs. 385/1993, come modificato dall’art. 1, comma 53, lettere e,f,g,h,i,l, d.lgs. 72/2015, per aver il giudice distrettuale applicato il rito dell’oppos i zione di cui all’art. 145 TUB , nella formulazione precedente alle modifiche di cui al d.lgs. 72/2015, ritenendo che la causa fosse pendente sin dal momento della proposizione del ricorso dinanzi al Tar Lazio, trascurando che il giudizio doveva esser riproposto, non riassunto, dinanzi al giudice ordinario ed era assoggettato alle nuove disposizioni, dovendo considerarsi pendente dopo il 28.6.2015.
Il terzo motivo denuncia la violazione l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma quinto, d.lgs. 72/2015 e dell’art. 3 Cost. sostenendo che la sottrazione della causa alle nuove disposizioni processuali regolative dell’opposizione, in base alla sola data di pendenza del giudizio, risulterebbe lesiva del principio di parità di trattamento sottoponendo situazioni identiche (quelle dell’incolpato) ad un trattamento differenziato, privandolo di un rito non camerale e non deformalizzato, considerato che la nuova previsione processuale costituisce il frutto di un adeguamento ai principi comunitari. In ogni caso la disciplina trans itoria di cui all’art. 2 d.lgs. 72/2015 risulterebbe lesiva delle garanzie dell’art. 6 , come già affermato dalla Corte EDU nel caso COGNOME (mancanza di parità di armi tra accusa e difesa, difetto di terzietà dell’organo giudicante, mancanza della pubblica udienza), garanzie che occorrerebbe assicurare anche perché il processo si svolge in un unico grado, salvaguardando le facoltà delle parti di chiedere ed ottenere l’ammissione delle prove.
I due motivi sono infondati.
L ‘opposizione, introdotta dinanzi al Tar Lazio doveva essere formalmente riproposta (non riassunta) dinanzi al g.o. per gli effetti voluti dall’art. 11 c.p.a., restando assoggettata alle regole processuali in vigore al momento della sua instaurazione dinanzi al giudice munito di giurisdizione.
La norma dispone che, quando la giurisdizione è declinata dal giudice amministrativo in favore di altro giudice nazionale o viceversa , ferme restando le preclusioni e le decadenze intervenute, sono fatti salvi gli effetti processuali e sostanziali della domanda se il processo è riproposto innanzi al giudice indicato nella pronuncia che declina la giurisdizione, entro il termine perentorio di tre mesi dal suo passaggio in giudicato.
Hanno spiegato le Sezioni Unite che, mentre l’art. 59 è previsione di carattere generale che riguarda ogni ipotesi di circolazione del giudizio dal giudice ordinario a quelli speciali e viceversa , l’art. 11 è
norma speciale che disciplina esclusivamente la translatio iudicii tra giudice amministrativo (dichiaratosi privo di giurisdizione) e le altre giurisdizioni, per cui, “secondo il canone di specialità, nei rapporti tra il giudice amministrativo e quelli ordinario e speciali, l’applicazione della L. n. 69 del 2009, art. 59 interviene soltanto in via sussidiaria, al cospetto di lacune della regolamentazione fornita dall’art. 11 del codice del processo amministrativo” (Cass. S.U. 27163/2018).
Riguardo alle modalità con cui si realizzano gli effetti della translatio iudicii , l’art. 11 contempla esclusivamente la riproposizione del giudizio, la quale, già sul piano lessicale, implica una nuova instaurazione del processo dinanzi al giudice ad quem , mentre è l’art 59 ad evocare sia la riassunzione (nei commi 3 e 4), che è atto d’impulso endo-processuale volto alla riattivazione di un processo pendente, sia la riproposizione della domanda (nei commi 2 e 5), sia la prosecuzione del giudizio (nel comma 4; Cass. s.u. 9130/2011; Cass. 25837/2016; Cass. s.u. 15223/2016; Cass. 8008/2021).
Questa Corte ha già affermato proprio con riferimento alle opposizioni alle sanzioni irrogate dalla Banca d’Italia che l’opposizione, dopo la declinatoria di carenza di giurisdizione del giudice amministrativo, è proposta in via autonoma dinanzi al giudice competente entro il termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato della predetta pronuncia, essendo irrilevante, ai fini dell’ammissibilità, il deposito di una istanza di riassunzione presso la cancelleria, in ragione della espressa previsione di cui all’art. 11 del d.lgs. n. 104 del 2010 (Cass. 5133/2024; Cass. 25844/2023).
Ad analoghe conclusioni è pervenuta da tempo anche la giurisprudenza amministrativa (cfr. nel senso che la causa deve essere riproposta sia in caso di translatio dinanzi al giudice amministrativo, sia in caso di trasmigrazione da questi ad altro giudice: Consiglio di Stato n. 6442/2014 e 10978/2023).
Il concetto di riproposizione indica l’instaurazione di un nuovo giudizio dominato opportunamente dalla sua logica, con riferimento alla «ritualità del contraddittorio» e alla scansione delle decadenze e
preclusioni endo-processuali (salvo evidentemente che la domanda – proposta nuovamente e tempestivamente ai fini del mantenimento dei suoi effetti processuali e sostanziali -deve avere per contenuto una richiesta di tutela non diversa dalla precedente: cfr. Cass. 25844/2023 in motivazione) non di quelle del processo a quo.
Nel caso in esame, la Corte di merito ha invece ritenuto che il processo fosse pendente sin dall’instaurazione, in virtù – peraltro di una scelta processuale dello stesso opponente (che ha riassunto la causa), ed ha applicato il rito della disciplina transitori a dell’art. 2 d.lgs. 72/2015.
Tale opzione non può condurre alla cassazione della decisione, essendo la censura, per come formulata, palesemente inammissibile.
Il ricorrente lamenta in questa sede un errore sul rito senza però individuare quale specifico pregiudizio abbia riportato, quali attività probatorie e difensive gli siano state precluse, avendo denunciato semplicemente un’insufficienza del rito camerale, per quanto arricchito dall’ud ienza pubblica, ed un ipotetico contrasto con le garanzie ex art. 6 CEDU che più volte questa Corte ha ritenuto insussistente.
Le regole sul rito processuale non hanno copertura costituzionale e la loro violazione non cagiona automaticamente alcuna nullità e non può esser dedotta quale motivo di impugnazione, a meno che l’errore non abbia inciso sul contraddittorio o sull’esercizio del diritto di difesa (cfr. Cass. 8422/2018; Cass. 12567/2021; Cass. s.u. 758/2022; Cass. s.u. 36596/2021Cass. 24481/2022; Cass. 2978/2024).
Tale conclusione va confermata anche in considerazione della piena conformità del rito camerale ante riforma alle garanzie processuali imposte dalla CEDU, peraltro in tema di illeciti disciplinari di natura sostanzialmente penale (carattere che, per quanto si dirà, difetta nelle sanzioni irrogate al ricorrente).
Il rito camerale è -difatti – già stato ritenuto idoneo ad assicurare la piena tutela dei diritti soggettivi, specie quando, come nel caso dell’attività bancaria, la controversia sia caratterizzata da contenuti tecnici e da fonti di conoscenza prevalentemente documentali (Cass. 24692/2018; Cass. 16507/2020; Cass. 17291/2020).
Ne consegue l’infon datezza del dubbio di costituzionalità del regime transitorio di cui all’art. 2 d.lgs. 72/2015, poiché, essendo garantiti, con modalità ed in forme diverse, i principi del giusto processo anche dalla precedente disciplina del rito dell’oppos izione, la scelta di differire l’entrata in vigore della nuove disposizioni processuali appare frutto di discrezionalità legislativa non lesiva del principio di parità di trattamento o dei diritti di difesa.
3. Il quarto motivo denuncia la violazione degli art. 2381, comma sesto, e m 2392, comma secondo, c.c. e l’erron ea applicazione dei principi in tema di dovere di agire informati dei titolari di amministratori privi di deleghe, lamentando che la Corte di merito non abbia considerato che il COGNOME era consigliere non esecutivo della BMPS e non era titolare di deleghe operative per cui, in difetto di qualsiasi comunicazione o di altro segnale di allarme, non aveva alcuna possibilità di adottare iniziative per superare le problematiche rilevate in sede ispettiva e di impedire la consumazione delle violazioni contestate. Si assume che gli artt. 2381, comma sesto, e 2392, comma secondo, c.c., come modificato dal d.lgs. 6/2003, impongono agli amministratori di riferire periodicamente al Consiglio di amministrazione sul generale andamento della gestione e sulle operazioni di maggior rilievo, conseguendone che i membri del Consiglio sarebbero tenuti a valutare l’adeguatezza delle operazioni solo sulla base delle specifiche informazioni ricevute, rispondendo del danno verso la società se -a conoscenza dei rischi -non abbiano fatto quanto di loro competenza per impedire la commissione di illeciti.
Detta responsabilità potrebbe quindi profilarsi non sulla base del generico dovere di agire informati sancito dall’art. 2381, comma
sesto, c.c., ma solo se il singolo componente sia stato posto al corrente delle irregolarità e sia stato adeguatamente informato dai titolari dei poteri di gestione (o degli altri organi deputati al controllo).
Il motivo è infondato.
La complessa articolazione della struttura organizzativa di una società che agisce nel settore del credito non può comportare l’esclusione od anche il semplice affievolimento del potere-dovere di controllo riconducibile a ciascuno dei componenti dell’organo di gestione, i quali, in caso di accertate carenze delle procedure aziendali predisposte per la corretta gestione societaria, sono sanzionabili a titolo di concorso omissivo ” quoad functione “, gravando sugli stessi, da un lato, l’obbligo di vigilanza – in funzione non soltanto della salvaguardia degli interessi degli azionisti nei confronti di atti di abuso di gestione da parte degli amministratori, ma anche della verifica dell’adeguatezza delle metodologie finalizzate al controllo interno della società di investimenti, secondo parametri procedimentali dettati dalla normativa regolamentare Consob, a garanzia degli investitori – e, dall’altro lato, il dovere di denuncia immediata alla Banca d’Italia ed alla Consob (Cass. 1602/2021; Cass. 6037/2016).
L’obbligo imposto dall’art. 2381, ultimo comma, c.c. agli amministratori delle società per azioni di «agire in modo informato», pur quando non siano titolari di deleghe, si declina, da un lato, nel dovere di attivarsi, esercitando tutti i poteri connessi alla carica, per prevenire, eliminare o attenuare le situazioni di criticità aziendale di cui siano, o debbano essere, a conoscenza, dall’altro, in quello di informarsi, affinché tanto la scelta di agire quanto quella di non agire risultino fondate sulla conoscenza della situazione aziendale che gli stessi possono procurarsi esercitando tutti i poteri di iniziativa connessi alla carica, con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze. Tali obblighi si connotano in termini particolarmente incisivi per gli amministratori
di società che esercitano l’attività bancaria, prospettandosi, in tali ipotesi, non solo una responsabilità di natura contrattuale nei confronti dei soci della società, ma anche quella, di natura pubblicistica, nei confronti dell’Autorità di vigilanza (Cass. n. 19556/2020).
E’ stato precisato che il dovere di agire informati dei consiglieri non esecutivi delle società bancarie non va rimesso, nella sua concreta operatività, alle segnalazioni provenienti dai rapporti degli amministratori delegati, giacché anche i primi devono possedere ed esprimere costante e adeguata conoscenza del “business” bancario e, essendo compartecipi delle decisioni di strategia gestionale assunte dall’intero consiglio, hanno l’obbligo di contribuire ad assicurare un governo efficace dei rischi e di attivarsi in modo da poter efficacemente esercitare una funzione di monitoraggio sulle scelte compiute dagli organi esecutivi non solo in vista della valutazione delle relazioni degli amministratori delegati, ma anche ai fini dell’esercizio dei poteri, spettanti al consiglio di amministrazione, di direttiva o avocazione per le operazioni rientranti nella delega.
Ne consegue che il consigliere di amministrazione non esecutivo di società per azioni, in conformità al disposto dell’art. 2392, comma 2, c.c., che concorre a connotare le funzioni gestorie tanto dei consiglieri non esecutivi, quanto di quelli esecutivi, è solidalmente responsabile della violazione commessa quando non intervenga per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose (Cass. 24851/2019; Cass. 5606/2019).
Ne consegue che in caso di irrogazione di sanzioni amministrative da parte della Banca d’Italia, anche in virtù della presunzione di colpa vigente in materia, l’autorità di vigilanza ha unicamente l’onere di dimostrare l’esistenza dei segnali di allarme che avrebbero dovuto indurre gli amministratori non esecutivi, rimasti inerti, ad esigere un supplemento di informazioni o ad attivarsi in altro modo, mentre spetta a questi ultimi provare di avere tenuto la condotta attiva
dovuta o, comunque, mirante a scongiurare il danno (Cass. n. 22848/2015).
4. Il quinto motivo denuncia la violazione degli artt. 2381, comma sesto, 2392, comma secondo, c.c. e 184 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma primo nn. 3 e 4 c.p.c., per aver la Corte di merito ritenuto irrilevanti le prove orali articolate dalla ricorrente e giudicato inammissibile l’acquisizione degli atti del procedimento penale a carico del Presidente e del Direttore generale, pur trattandosi di richieste istruttorie volte a dimostrare che non si erano affatto manifestati segnali di allarme tali da imporre ai consiglieri di amministratori di attivarsi, dato inoltre che i suddetti consiglieri avevano ottenuto rassicurazioni circa l’insussistenza di irregolarità sia dagli organi di controllo della banca, che dalla società di revisione.
Il sesto motivo denuncia la violazione degli artt. 6 CEDU, 24, 11 Cost., 115,187 e 202 c.p.c. , in relazione all’art. 360, comma primo, n. 4 c.p.c., sollevando questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma cinquantatreesimo, d.lgs. 72/2015 e dell’art. 145, d.lgs. 385/1993, come modificato dall’art. 1, comma 53, lettere E -L, d.lgs. 72/2015, per contrasto con gli artt. 6 CEDU, 24 e 111 Cost, per aver la Corte distrettuale definito la causa senza valutare la rilevanza ed ammissibilità delle prove articolate dalla ricorrente, mostrando di ritenere che il giudizio di opposizione si esaurisca in una verifica sul corretto svolgimento del procedimento amministrativo e in un controllo sulla legittimità dell’atto piuttosto che in un giudizio sul rapporto, tale da non richiedere lo svolgimento di una vera e propria istruttoria. Tale interpretazione risulterebbe lesiva del diritto di difesa e dei principi fissati dalla giurisprudenza comunitaria, secondo cui l’opposizione deve aver la funzione di colmare even tuali carenze del procedimento amministrativo sotto il profilo del rispetto dell’effettività del contraddittorio.
Si deduce inoltre che: a) la disciplina del giudizio di opposizione risulterebbe lesiva dei principi di terzietà del giudice, di parità delle
armi e del contraddittorio, differendo il controllo giudiziale ad una fase in cui l’accertamento si è già definitivamente esaurito; b) le suddette norme processuali, così come intese dal giudice di merito, darebbero luogo ad un contrasto tra la disciplina interna (art. 145, d.lgs. 385/1993) e la CEDU e alla violazione delle norme costituzionali, nella parte in cui il rito non contempla il dovere del giudice di acquisire e di esaminare tutta la documentazione della fase amministrativa e di ammettere le prove richieste dalle parti, conferendo inammissibilmente alla Corte d’appello il potere discrezionale di rifiutare la rinnovazione dell’accertamento dei fatti svolto nel procedimento amministrativo.
Il settimo motivo denuncia la violazione degli artt. 6 CEDU e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, in relazione all’art. 360, comma primo, n. 4 c.p.c., chiedendo di sollevare dinanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, la questione pregiudiziale di interpretazione dell’art. 145, d.lgs. 385/1993 in relazione all’art. 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, asserendo che, dato il carattere afflittivo delle sanzioni applicate dalla Banca d’Italia, occorrer ebbe garantire il pieno diritto di difesa anche nel procedimento amministrativo, come già riconosciuto dalla Corte EDU in analoghe fattispecie contemplate dagli ordinamenti degli altri Stati membri; che le norme comunitarie riconoscono, in sede contenziosa, il diritto di esaminare o far esaminare i testimoni – sia a carico che a discarico dell’incolpato imponendo che la causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un giudice posto in posizione di terzietà; che le suddette garanzie sono riconosciute dalla giurisprudenza comunitaria anche per le sanzioni minori, il cui accertamento non può essere rimesso ad organi amministrativi; che, nel giudizio di opposizione, non può pregiudicarsi il principio della full jurisdiction, intesa come capacità di un organo di avere piena giurisdizione sul merito della questione, di accertare i fatti e valutare gli elementi di prova, senza vincoli derivanti dai precedenti accertamenti
amministrativi e con possibilità di riformare qualsiasi punto, in fatto e in diritto, del provvedimento impugnato, il che imporrebbe lo svolgimento di un’istruttoria piena, sottratta a qualsivoglia limitazione. In subordine, si chiede di sollevare la questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di Giustizia sul seguente quesito: se la sanzione di cui si discute debba essere considerata come avente natura penale ai sensi degli ‘Engels criteria’ elaborati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e fatti propr i dalla Corte di Giustizia, e se l’art. 195 d.lgs. 58/1998, come modificato dall’art, 6, comma ottavo, d.lgs. 72/2015, ovvero dall’art. 5, comma quindicesimo, del medesimo decreto, interpretati nel senso che il giudice può non dare accesso ad alcun mezzo di prova anche quando la parte ne faccia richiesta per accertare compiutamente i fatti di causa, siano compati bili con l’art. 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in relazione al diritto all’istruttoria e ad un processo equo.
I tre motivi, che richiedono un esame congiunto per la loro stretta connessione, sono infondati.
Non si ha ragione di ripensare l’orientamento di questa Corte circa la natura non penale delle sanzioni irrogate dalla Banca d’Italia ai sensi dell’art. 144 e ss., d.lgs. 385/1993 nel testo applicabile ratione temporis, essendo irrilevante la circostanza dedotta in memoria riguardo alla pendenza di ricorsi alla Corte EU, giudicati ammissibili, aventi ad oggetto primo la natura delle sanzioni applicate.
Appaiono irrilevanti anche le deduzioni proposte in memoria circa l’avvenuta assoluzione in sede penale dell’ex Presidente di MPS, dell’ex Direttore Generale e di altri dirigenti , deduzioni che riguardano il merito delle responsabilità e che non sollevano -in disparte ogni altro rilievo – profili di illegittimità della sentenza, scrutinabili in cassazione.
Quanto alla questione proposta con le censure, le contrarie osservazioni sollevate dal ricorrente non adducono elementi ulteriori rispetto a quanto già motivatamente affermato dai precedenti di
questa Corte, cui si ritiene di dover dare continuità, secondo cui dette fattispecie sanzionatorie non sono assimilabili a quelle contemplate dall’art. 187 ter TUF, in tema di manipolazione del mercato, su cui si è pronunciata la Corte EDU nella sentenza del 4.3.2014 (cd. caso Grande Stevens ed altri contro Italia).
Secondo la giurisprudenza comunitaria -per stabilire la sussistenza di un’accusa di natura penale, occorre impiegare (in via alternativa e non cumulativa) tre criteri: la qualificazione giuridica della misura in causa nel diritto nazionale, la natura stessa di quest’ultima, e la natura e il grado di severità della “sanzione”.
Nel caso esaminato dalla Corte europea, le sanzioni ex art. 187 ter TUF risultavano incomparabilmente più gravose da un punto di vista economico rispetto a quelle di cui si discute, determinando inoltre l’applicazione delle sanzioni accessorie di cui all’art. 187 quater (interdizione dallo svolgimento di funzioni di amministrazione, direzione e controllo presso soggetti autorizzati, interdizione temporanea dallo svolgimento di funzioni di amministrazione, direzione e controllo di società quotate e di società appartenenti al medesimo gruppo di società quotate, la perdita temporanea dei requisiti di onorabilità per i partecipanti al capitale dei soggetti indicati alla lettera a, etc. etc.), così da incidere su diritti e libertà fondamentali riguardo alle concrete estrinsecazioni professionali, imprenditoriali e manageriali della persona.
Deve -invece – ribadirsi che, in considerazione della natura delle sanzioni, applicabili ratione temporis, ex art. 144 e ss. d.lgs. 385/1993, non si pone un problema di compatibilità con le garanzie riservate ai processi penali dall’art. 6 CEDU (Cass. 24370/2024; Cass. 21142/2024; Cass. 20974/2024; Cass. 26983/2022, Cass. 15210/2023; Cass. 4/2019; Cass. pen. 12777/2018; Cass. 3656/2016; Cass. 24723/2018; Cass. 21553/2018; Cass. 16720/2018; Cass. 19219/2016; Cass. 3656/2016).
Quanto al fatto che il procedimento sanzionatorio non garantirebbe adeguatamente il diritto di difesa dell’incolpato, va posto in rilievo
che, sebbene l’art. 24, comma primo, L. 262/2005 disponga che “i procedimenti sanzionatori sono svolti nel rispetto dei principi della piena conoscenza degli atti istruttori, del contraddittorio, della verbalizzazione, nonché della distinzione tra funzioni istruttorie e funzioni decisorie, è tuttavia esclusa la diretta applicabilità -in tale ambito – dei precetti costituzionali degli artt. 24 e 111 Cost., invocabili solo con riferimento al processo che si svolge dinanzi al giudice (Cass. s.u. 20935/2009; Cass. 15019/2013; Cass. 18683/2014; Cass. 23782/2004).
E’ difatti – rimesso al legislatore nazionale la scelta di anticipare le garanzie del giusto processo già nella fase amministrativa o di assicurarle nel successivo sindacato giurisdizionale pieno, di natura tendenzialmente sostitutiva, attuato attraverso un procedimento conforme alle prescrizioni dell’art. 6, CEDU.
Quest’ultima soluzione, cui è conforme l’ordinamento interno, non inficia la legittimità del procedimento amministrativo in relazione ai parametri fissati dell’art. 6 della Convenzione, essendo garantito il ricorso ad un giudice imparziale e con la più piena garanzia del diritto di difesa e di contraddittorio.
Appaiono -in ogni caso – infondate le doglianze rivolte ad affermare che alla ricorrente sarebbe stato negato il diritto alla prova o che l’opposizione sarebbe stata intesa dalla Corte (o si configuri nell’attuale disciplina) come giudizio, da definire all o stato degli atti, vertente sul solo riscontro della mancanza di violazioni nella fase amministrativa.
In nessun passaggio della decisione impugnata si rinviene un giudizio d’incompatibilità delle caratteristiche del rito con l’espletamento di un’istruttoria piena, né tantomeno l’esame giudiziale si è esaurito nello scrutinio di legittimità (formale) della sanzione.
In realtà, la Corte di merito si è limitata a formulare -del tutto legittimamente -una valutazione di irrilevanza della prova orale (in quanto vertente su circostanze ritenute inidonee ad escludere la colpa della ricorrente) e di inammissibilità dell’ist anza di acquisizione
degli atti penali (in quanto rivolta a finalità meramente esplorative), con statuizioni che, anziché escluderla, presuppongono la piena compatibilità del rito con l’esercizio del diritto alla prova, se utile all’accertamento dei fatti.
Non può predicarsi, né alla stregua delle norme di rango costituzionale, né ai sensi dell’art. 6 CEDU, un obbligo incondizionato del giudice di dar corso all’assunzione di qualsivoglia mezzo istruttorio, a prescindere da una valutazione di rilevanza dei fatti da provare.
L’articolo 6, CEDU, pur garantendo il diritto a un processo equo, non contiene alcuna disposizione riguardante il regime di ammissibilità delle prove o sul modo in cui esse dovrebbero essere valutate, questioni che sono rimesse alla legge interna e all’apprezzamento dei tribunali nazionali (cfr. Corte EDU, ricorso n. 1874/2018 –COGNOME contro Spagna; Corte EDU, sentenza 13.10.2005, COGNOME contro Italia; Corte EDU, sentenza 27.2.2001, COGNOME contro Italia; Corte EDU, sentenza 12.7.1988, Schenk c. Svizzera; Corte EDU, sentenza 12.7.1988, Corte EDU, ricorso n. 30544/1996, COGNOME c. Spagna).
Riguardo poi alla richiesta di esibizione, si è già stabilito che i limiti all’ammissibilità previsti dal codice di rito valgono per l’opposizione ex art. 145 TUB (Cass. 10415/2003).
La necessità -da parte del giudice – di scrutinare la rilevanza ed ammissibilità dei singoli mezzi proposti dalla parte si coniuga ed è coerente con i principi della ragionevole durata del processo, con cui collide l’espletamento di attività processuali n on necessarie o superflue ai fini della pronuncia.
Per le ragioni evidenziate, non occorre sollevare la questione pregiudiziale sulla natura (penale) delle ipotesi regolate dall’art. 144 TUB in rapporto ai cd. criteri Engels, e sulla compatibilità con la disciplina comunitaria delle norme processuali che disciplinano il giudizio di opposizione (nel punto non consentirebbero il pieno accertamento della responsabilità degli incolpati e l’assunzione di
mezzi di prova richiesti dalla parte), muovendo la richiesta da un’errata qualificazione delle sanzioni e dall’infondato presupposto che detta opposizione sia strutturata come giudizio sull’atto e non sull’accertamento della responsabilità, con cognizione estesa a qualunque profilo di merito, con piena garanzia del contradditorio e del diritto alla prova.
Su tali premesse deve rammentarsi, al riguardo, che il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia europea ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea non costituisce un rimedio giuridico esperibile automaticamente a richiesta delle parti (Cass. 20701/2013).
Detto rinvio ha la funzione di verificare la legittimità di una legge nazionale rispetto al diritto dell’Unione Europea e se la normativa interna sia pienamente rispettosa dei diritti fondamentali della persona, quali risultanti dall’evoluzione giurisprudenziale della Corte di Strasburgo e recepiti dal Trattato sull’Unione Europea.
Ogni valutazione in proposito è rimessa al giudice nazionale, che non è obbligato a sollevare la pregiudiziale per il fatto che la parte ne abbia fatto richiesta (Cass. 13603/2011), occorrendo che la questione di interpretazione della norma comunitaria appaia rilevante e non si sia in presenza ” acte claire ” in ragione dell’esistenza di precedenti pronunce della Corte o dell’evidenza dell’interpretazione (Cass. s.u. 12067/2007, Cass. 22103/2007; Cass. 4776/2012; Cass. 26924/2013; Cass. 6862/2014).
5 . L’ottavo motivo denuncia – testualmente – la violazione degli artt. 2, comma terzo, D.LGS. 72/2015, in relazione ai principi generali del diritto europeo e all’art. 2, comma secondo, ultimo aliena, REG. 2988/98/CE, in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3 c.p.c., prospettando l’obbligo di sollevare dinanzi alla Corte di giustizia europea la pregiudiziale di interpretazione dell’art. 2, comma terzo, d.lgs. 72/2015, in relazione al principio di irretroattività della legge penale, esponendo che, con l’introduzione delle modifiche all’art. 144 ter TUB, è stata rimodulata -in concreto -l’entità delle sanzioni
secondo i criteri dell’art. 144 quater, tra cui particolare valenza assume la considerazione delle capacità finanziarie del responsabile; che, essendosi in presenza di un trattamento in astratto più favorevole ed essendo consentita, dall’art. 3, comma 1, L . 154/2014, la possibilità di valutare l’estensione del principio del favor rei, la Corte capitolina avrebbe dovuto operare un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 1, comma cinquantaduesimo, d.lgs. 72/2015, quantificando la sanzione in base alla legge successiva.
Secondo la ricorrente, l’art. 2, comma terzo, d.lgs. 72/2015 ha adottato una disciplina transitoria delle modifiche al titolo ottavo del TUB, che assume come discrimine l’adozione delle misure attuative e regolamentari da parte della Banca d’Italia, disponendo che per quelle anteriori, si applica la norma vigente al momento della violazione, benché le sanzioni di cui l’art. 144 ter e quater non necessitassero di alcuna integrazione o attuazione mediante norme secondarie.
La Corte avrebbe dovuto -perciò -applicare il regime transitorio alle sole norme procedurali, ritenendo immediatamente applicabile il novellato trattamento sanzionatorio anche alle violazioni consumate in precedenza.
In alternativa, la disposizione transitoria doveva essere disapplicata per contrasto con l’art. 2, comma secondo, ultimo aliena, REG. 2988/98/CE, che appunto prevede, in caso di successione di leggi in materia di sanzioni, la retroattività della legge più favorevole. Nel dubbio la questione andrebbe rimessa alla Corte di Giustizia ai sensi dell’art. 267 del Trattato fondativo dell’Unione Europea.
Il motivo è infondato.
Il regime transitorio delle modifiche alla disciplina contenuta nel capo VIII, D.LGS. 385/1993, introdotte dal D.LGS. 72/2015, è oggetto dell’espressa previsione di cui al comma terzo, dell’art. 2, che ne esclude l’applicabilità alle violazioni commesse prima dell’entrata in
vigore delle disposizioni adottate dalla Banca d’Italia ai sensi dell’articolo 145-quater, D.LGS. 385/1993 (Cass. 23814/2019).
Analoga disposizione è contemplata dall’art.6, comma secondo, D.LGS. 72/2015, per il quale le modifiche apportate alla parte V, D.LGS. 58/1998, si applicano alle violazioni commesse dopo l’entrata in vigore delle disposizioni adottate dalla Consob e dalla Banca d’Italia, secondo le rispettive competenze ai sensi dell’art. 196-bis, D.LGS. 58/1998.
Alla luce del tenore testuale delle norme transitorie, non è dunque consentito distinguere tra disposizioni sostanziali immediatamente applicabili e norme procedurali ad entrata in vigore differita, essendo chiaro l’intento del legislatore di far decorrere l’efficacia delle nuove disposizioni dal momento del completamento, in sede attuativa, del nuovo quadro normativo, fermo peraltro che l’art. 3 delle legge delega non imponeva affatto la generalizzata applicazione del principio del favor rei , rimettendo al legislatore delegato la facoltà di estenderne l’ambito applicativo anche per il periodo anteriore.
In assenza di una connotazione penale delle sanzioni di cui si discute e al pari di quanto già affermato da questa Corte con riferimento alle sanzioni Consob, deve tenersi fermo il principio generale dell’irretroattività della legge più favorevole che vige in materia di sanzioni amministrative, non senza osservare che nessun argomento è esposto in ricorso riguardo alla concreta possibilità della ricorrente di beneficiare di circostanze idonee a contenere la sanzione al di sotto dell’importo irrogato (Cass. 4114/2016; Cass. 20689/2017; Cass. 13433/2016; Cass. 4114/2016).
Quanto affermato è coerente con le indicazioni della Corte costituzionale, secondo cui la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo in tema di retroattività della legge penale più favorevole ha riguardato non l’intero sistema sanzionatorio unitariamente considerato, ma le singole e specifiche discipline sanzionatorie (Corte cost. 193/2016; Corte Cost. 43/2017).
Nel quadro delle garanzie apprestato dalla CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo, non si rinviene -dunque – un vincolo di matrice convenzionale in ordine alla previsione generalizzata, da parte degli ordinamenti interni dei singoli Stati aderenti, del principio di retroattività della legge più favorevole, da trasporre nel sistema delle sanzioni amministrative.
Né sussiste un analogo vincolo di matrice costituzionale poiché rientra nella discrezionalità del legislatore, nel rispetto del limite della ragionevolezza, modulare le proprie determinazioni secondo criteri di maggiore o minore rigore.
Il differente e più favorevole trattamento riservato ad alcune sanzioni trova fondamento nelle peculiarità che caratterizzano le singole materie e non è automaticamente estensibile ad ipotesi diverse (cfr. Cass. 23814/2019, in tema di intermediazione finanziaria; Cass. 20689/2018).
E’ infine inconferente il richiamo alle disposizioni del Reg. 2988/95/CE, laddove dispone che ‘in caso di successiva modifica delle disposizioni relative a sanzioni amministrative si applicano retroattivamente le disposizioni meno rigorose’.
La norma disciplina il trattamento sanzionatorio delle irregolarità -contemplate dal diritto comunitario – derivanti da un’azione o un’omissione di un operatore economico che abbia o possa avere come conseguenza un pregiudizio al bilancio generale delle Comunità o ai bilanci da queste gestite, attraverso la diminuzione o la soppressione di entrate provenienti da risorse proprie percepite direttamente per conto delle Comunità, ovvero una spesa indebita (cfr. 1, comma secondo), restando inoperante riguardo alle sanzioni oggetto di giudizio.
6 . Il nono motivo deduce che l’incompatibilità dell’art. 3 L. 689/1981 con i principi di cui all’art. 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Sul presupposto che le s anzioni di cui si discute abbiano natura penale, il ricorrente sostiene che non si giustificherebbe alcuna presunzione di colpa, occorrendo che tutti gli
elementi costitutivi dell’ illecito siano puntualmente accertati mediante un’istruttoria piena, sollecitando un ripensamento dei principi secondo cui alle sanzioni di natura penale andrebbero ricono sciute solo le garanzie dell’art. 6 CEDU, interpretazione che non terrebbe conto del fatto che molte sanzioni amministrative erano sottoposte ad un diverso trattamento per effetto di depenalizzazione, sicché una volta riconosciuto il loro carattere afflittivo, tale diversità di garanzie sarebbe immotivata, come ritenuto dalla Corte costituzionale con sentenza n. 49/2015. La presunzione di colpa di cui all’art. 3 L. 689/1981 colliderebbe con la presunzione di innocenza, profilo su cui si richiede si sollevare la pregiudiziale interpretativa dinanzi alla Corte di giustizia.
Il motivo è per più aspetti infondato.
Le doglianze partono dalla comune premessa -non condivisa da questa Corte – della natura sostanzialmente penale delle sanzioni applicate, al fine di invocare le garanzie predisposte dalla Costituzione e dalle fonti sovranazionali per le sanzioni penali. Data -per contro – la natura puramente amministrativa delle misure adottate, nessuna delle conseguenze auspicate dal ricorrente sulla base di tale presupposto può ricevere avallo.
Riguardo all’art. 3, L. 689/1981, occorre porre in rilievo in aggiunta a quanto già osservato in merito alla natura delle sanzioni applicate – che la fattispecie soggettiva dell’illecito amministrativo è ricalcata su quella dei reati penali contravvenzionali e che la norma non contempla propriamente un’inversione dell’onere della prova, prescrivendo invece che, ai fini della sussistenza della colpa del trasgressore, è sufficiente che sia dimostrata la consumazione di una condotta (anche omissiva) in violazione di norme specifiche di legge o di precetti generali di comune prudenza, gravando l’incolpato esclusivamente della prova dell’inesigibilità del comportamento volto ad impedire la violazione (Cass. s.u. 20930/2009).
Anche le ipotesi regolate dagli artt. 144 e ss., D.LGS. 385/1993 contemplano illeciti cd. “di mera trasgressione” e appaiono
strutturate in modo che l’azione, esaurendosi nella oggettiva difformità rispetto alla fattispecie astratta, si identifica con la condotta inosservante (cd. suitas ), che è neutra sotto l’ulteriore profilo del dolo o della colpa del responsabile (Cass. 9546/2018).
L’onere di provare i fatti costitutivi della pretesa sanzionatoria resta quindi a carico dell’Amministrazione (Cass. 1921/2019), ma, nel caso dell’illecito omissivo di pura condotta, essendo il giudizio di colpevolezza ancorato a parametri normativi estranei al dato puramente psicologico, è sufficiente la dimostrazione dell’elemento oggettivo dell’illecito comprensivo della ” suità ” della condotta inosservante, in assenza di elementi tali da rendere inesigibile la condotta o imprevedibile l’evento.
In definitiva, la Banca d’Italia, anche in base ai principi ricavabili dall’art. 3, L. 689/1981, ha unicamente l’onere di dimostrare l’esistenza dei segnali di allarme che avrebbero dovuto indurre gli amministratori non esecutivi, rimasti inerti, ad esigere un supplemento di informazioni o ad attivarsi in altro modo, mentre spetta a questi ultimi provare di avere tenuto la condotta attiva idonea mirante a scongiurare il danno (Cass. 22848/2015). Sulla scorta di tali argomentazioni -già sostenute da questa Corte anche con riferimento a sanzioni amministrative ritenute di natura penale -non è legittimo ravvisare alcun contrasto tra l’art. 3, L. 689/1981 e la presunzione di non colpevolezza sancita dall’art. 6, comma secondo, CEDU (Cass. 1529/2018; Cass. 17395/2022; Cass. 17381/2022).
Il ricorso è respinto, con aggravio delle spese processuali.
Si dà atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano in complessivi € 8700 ,00, di cui € 200,00 per esborsi, oltre spese generali, pari al 15% sui compensi, ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, inserito dall’art. 1, co. 17, L. n. 228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato per il ricorso principale a norma dell’art. 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda sezione