Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 5298 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2   Num. 5298  Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 28/02/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 4852/2019 R.G. proposto da:
COGNOME  NOME,  elettivamente  domiciliato  in  INDIRIZZO  INDIRIZZO,  presso  lo  studio  dell’avvocato  NOME  AVV_NOTAIO  COGNOME (CODICE_FISCALE) che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati NOME COGNOME (CODICE_FISCALE), NOME COGNOME (CODICE_FISCALE).
– Ricorrente –
Contro
RAGIONE_SOCIALE,  elettivamente  domiciliata  in  INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE) che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati NOME COGNOME (CODICE_FISCALE), NOME COGNOME (CODICE_FISCALE).
– Controricorrente –
Avverso  la  sentenza  della  Corte  d’appello  di  Roma  n.  93/2018 depositata il 28/06/2018.
SANZIONI RAGIONE_SOCIALE
Udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME nella camera di consiglio del 13 febbraio 2025.
Rilevato che:
All’esito della verifica ispettiva condotta presso l’istituto di credito dal 22/04/2015 al 24/02/2016, la RAGIONE_SOCIALE, con delibera n. 19932/2017, ha applicato a NOME COGNOME, componente del CdA della Banca Popolare di Vicenza (‘BPVi’) dal 10/05/2003 al 1°/12/2015, e componente del comitato reclami dal 29/04/2014, la sanzione pecuniaria di euro 60.000,00 per effetto del cumulo giuridico tra le sanzioni di euro 40.000,00 e di euro 35.000,00, ex art. 191 TUF, per l’omissione di rilevanti informazioni nei prospetti relativi ai due aumenti di capitale deliberati nel 2014, il primo dei quali mediante l’emissione di azioni in opzione ai soci per un importo fino ad un massimo di euro 607.786.750,00 (periodo di offerta dal 12/05/2014 all’08/08/2014), il secondo, mediante l’emissione di azioni, finalizzato all’ampliamento della base sociale, da offrire esclusivamente a non soci, fino ad un importo massimo di euro 300mln, entro un triennio (periodo di offerta dal 12/05/2014 al 19/12/2014).
Nel dettaglio, la sanzione inflitta al ricorrente, e ad RAGIONE_SOCIALE ventuno esponenti della banca, riguardava la violazione dell’art. 94 comma 2 TUF  per  la  mancata  rappresentazione,  nei  prospetti  di  offerta  delle azioni, di informazioni necessarie agli investitori concernenti la determinazione del prezzo delle azioni, la concessione di finanziamenti strumentali alla sottoscrizione e all’acquisto delle azioni, la compravendita delle azioni BPVi;
NOME  COGNOME  ha  proposto  opposizione  e  ha  chiesto l’annullamento della sanzione.
La  Corte  d’appello  di  Venezia,  nella  resistenza  della  RAGIONE_SOCIALE,  ha respinto la domanda.
Questi, in sintesi, i punti chiave della decisione: (i) è priva di fondamento l’eccezione di decadenza dell’autorità di vigilanza dal potere sanzionatorio per il superamento del termine di 180 giorni ex art. 195 comma 1 TUF, e, comunque, del termine ragionevole di definizione del procedimento sanzionatorio; (ii) non opera lo ius superveniens in quanto le modifiche apportate alla parte V del d.lgs. n. 58 del 1998 dal d.lgs. n. 72 del 2015 non si applicano alle violazioni commesse prima dell’entrata in vigore delle disposizioni di attuazione adottate dalla RAGIONE_SOCIALE e dalla Banca d’Italia, secondo le rispettive competenze, poiché così dispone l’art. 6 dello stesso decreto, che è esente dai profili di incostituzionalità prospettati dall’opponente; (iii) la motivazione del provvedimento sanzionatorio è in linea con il principio di personalizzazione della misura afflittiva, ferma la considerazione che non è applicabile, per le ragioni già indicate, la sanzione di cui all’art. 194 -bis TUF di nuova introduzione; (iv) non vi è stata la lamentata grave limitazione del diritto di difesa dell’incolpato e, inoltre, la mancata ostensione della massa dei documenti esaminati dalla RAGIONE_SOCIALE in fase d’ispezione è inconferente perché la documentazione non allegata alla relazione ispettiva non costituisce il corredo probatorio delle violazioni ascritte al trasgressore; (v) infondate sono anche le censure relative ad asserite lacune del procedimento sanzionatorio (violazione del principio di imparzialità, mancanza di separazione tra funzione istruttoria e decisoria) o del giudizio poiché il rito introdotto dal d.lgs. n. 72 del 2015 prevede l’udienza pubblica e nulla vieta che l’incolpato promuova azione risarcitoria nei confronti della P.A.; (vi) con riferimento all’elemento oggettivo dell’illecito, quelle che sono state omesse erano informazioni necessarie, indispensabili agli investitori per assumere decisioni ponderate di investimento (si pensi all’informativa circa la decisione del CdA di assegnare rilievo
preminente, ai fini della determinazione del prezzo delle azioni al 31/12/2013, al criterio reddituale, senza comunicare agli investitori il divario tra il valore secondo l’ Income approach (62,5 euro) e quello secondo il Market approach (49,3 euro); alla mancanza di informazioni sull’imponente fenomeno del cosiddetto ‘capitale finanziato’ e sulla crescente richiesta di vendita delle azioni della banca, sulla mancata evasione degli ordini di vendita e sui tempi necessari al disinvestimento del titolo, illiquido); (vii) la normativa interna recante i criteri di valutazione del prezzo delle azioni, la cui predisposizione era stata demandata (nel 2011, con incarico rinnovato nel 2015) a un esperto indipendente (prof. COGNOME), prevedeva una ‘architettura metodologica’ articolata su tre criteri di stima ( Income approach , Market approach , Asset/Cost approach ), che dovevano contemperarsi senza che l’uno prevalesse sugli RAGIONE_SOCIALE. Ma ciò non avvenne in quanto, come sopra anticipato, il CdA, il 1°/04/2014, in deroga alla normativa interna, deliberò di attribuire rilievo preminente al cosiddetto Income approach , pur sapendo che l’applicazione del Market approach restituiva un valore delle azioni molto più basso (62,5 euro, il primo criterio, 49,3 euro, il secondo criterio); (viii) la fondatezza della contestazione dell’autorità di vigilanza si evince proprio dalla lettura dei ‘Prospetti 2014’ e dalla disapplicazione della combinazione dei tre diversi modelli valutativi delle azioni BPVi; (ix) l’opposizione alla delibera n. 19932 poggia, anzitutto, sull’assenza dell’elemento materiale dell’illecito in relazione alla prima e alla terzo violazione. Obiezione, questa, priva di fondamento in ragione del fatto che, al contrario di quanto rappresenta l’incolpato, non è in discussione la ragionevolezza o l’opportunità della decisione del CdA di aderire al contenuto della perizia del prof. COGNOME, bensì il deficit informativo dei Prospetti 2014 in relazione ai risultati ottenuti dal consulente a seguito dell’applicazione
di tutti e tre i criteri valutativi che l’organo amministrativo aveva deciso di adottare nel 2011, salvo poi decidere di disapplicare la normativa interna assegnando preminenza ad un unico metodo valutativo. Non costituisce motivo di legittimo affidamento la circostanza che la RAGIONE_SOCIALE avesse approvato quei prospetti, senza muovere rilievi di sorta, al pari di quelli relativi agli anni precedenti, poiché solo sugli organi sociali gravava la responsabilità di verificare la completezza del set informativo e poiché non risulta che la RAGIONE_SOCIALE fosse stata informata del divario tra i differenti criteri di valutazione delle azioni previsti dalla normativa interna e della sostanziale disapplicazione della stessa e, d’altra parte, all’atto dell’approvazione dei Prospetti 2014 la stessa autorità non poteva conoscere gli innumerevoli ordini di vendita in sospeso e il crescente numero di reclami presentati dai soci, nel 2013 e nei primi mesi dell’anno successivo; (x) con riferimento all’elemento soggettivo dell’illecito, in relazione all’assenza di disclosure nei Prospetti 2014 dell’esistenza del ‘capitale finanziato’, la colpa dell’opponente non è esclusa dal fatto che egli fosse un amministratore privo di deleghe (dato che la delega alla redazione delle informative era stata conferita ad RAGIONE_SOCIALE esponenti della banca, in primis al direttore generale COGNOME), ove si consideri che egli partecipò alla riunione del CdA del 1° aprile 2014 che conferì le deleghe agli organi di vertice e approvò il documento di registrazione relativo alle offerte al pubblico in esame, senza trascurare che, nella documentazione d’offerta, la banca si dichiarò responsabile della correttezza e veridicità delle informazioni contenute nei Prospetti 2014; (xi) non è fondata l’eccezione di difetto di conoscenza/conoscibilità, da parte dell’amministratore privo di deleghe, del fenomeno del ‘capitale finanziato’ (che consiste nell’impiego, da parte degli investitori, di finanziamenti erogati dalla banca per la sottoscrizione degli aumenti di capitale e per l’a cquisto di
azioni BPVi). Infatti, la disciplina regolamentare del settore bancario, introdotta con circolare della Banca d’Italia n. 285 del 2013 (e successivi aggiornamenti), che deriva dalle regole di corporate governance di matrice comunitaria contenute nella direttiva 2013/36/UE, che persegue la finalità di una sana e prudente gestione dell’attività bancaria ed è suscettibile di applicazione trasversale ai diversi modelli di amministrazione e di controllo previsti dal codice civile, rafforza il ruolo del CdA con r iferimento all’assetto organizzativo, amministrativo e contabile dell’ente. Se il ruolo dell’amministratore delegato nella struttura di governo è ridimensionato, al contempo gli amministratori non esecutivi assumono un ruolo centrale nella governance della banca, poiché ad essi è affidato il compito di favorire l’assunzione di decisioni che, nelle materie di supervisione strategica, siano il frutto di un confronto effettivo; (xii) spettava, quindi, all’opponente dimostrare di avere adempiuto, anzitutto, al dovere di tenersi adeguatamente informato sulla gestione e sull’organizzazione aziendale, posto che solo la conoscenza delle concrete caratteristiche della realtà aziendale può consentire agli amministratori non esecutivi di apportare un effettivo contributo all’esercizio della funzione di supervisione strategica attribuita al CdA. Sulla premessa che, in base all’art. 2381 comma 6 c.c., gli amministratori privi di deleghe hanno l’obbligo di agire informati, e che la circolare n. 285 del 2013 prevede, in via ordinaria, e dunque anche in assenza di ‘segnali di allarme’, in capo agli amministratori non esecutivi, il dovere di acquisire informazioni sulla gestione e sull’organizzazione aziendale, nel caso di specie, comunque, non mancano inequivocabili segnali di allarme. Come, ad esempio, l’intervento, all’assemblea dei soci del 26/04/2014, del socio NOME COGNOME che denunciò le carenze dei criteri di determinazione del prezzo delle azioni e la mancanza di
un’informativa chiara e completa; (xiii) l’attività ispettiva ha dimostrato la violazione dell’obbligo di indicare, nei Prospetti 2014, la sussistenza e la dimensione del ‘capitale finanziato’ (fenomeno che la banca ha riconosciuto, nella relazione semestrale al 30/06/2015, per un controvalore di 974,9mln di euro) e dei cosiddetti ‘finanziamenti correlati’, ricostruiti dalle verifiche ispettive dal punto di vista della genesi, delle ragioni della loro adozione, e delle iniziali modalità operative. Il fenomeno era conosciuto o conoscibile, a prescindere dagli obblighi imposti agli amministratori non esecutivi dalla normativa del settore bancario, e indipendentemente dall’esistenza di segnali di allarme, per le vistose anomalie nella gestione operativa della banca, desumibili dalla documentazione relativa alla concessione dei fidi, che costituiva parte integrante dei verbali del CdA e che, quindi, l’amministratore avrebbe dovuto percepire. Con la precisazione che un’analisi non superficiale di tale documentazio ne avrebbe consentito al ricorrente di avvedersi della stretta correlazione temporale e quantitativa tra i finanziamenti concessi e gli acquisti di azioni BPVi; (xiv) anche il ricorrente (tramite la società da lui controllata RAGIONE_SOCIALE) e il fratello NOME COGNOME beneficiarono di erogazioni di credito finalizzate esclusivamente all’acquisto o alla sottoscrizione di azioni BPVi; l’attività ispettiva ha messo in luce anche le omissioni di informazioni concernenti la compravendita di azioni e ha fatto emergere la consapevolezza, da parte del CdA, dell’enorme mole di richieste di cessione dei titoli da parte della clientela con i connessi reclami, esaminati dal comitato reclami (ad esempio, nella riunione del 18/02/2014), che COGNOME andò a comporre nell’aprile 2014. Analoghe considerazioni valgono per il deficit informativo sul tema del blocking period , deliberato nel corso delle riunioni del CdA alle quali il ricorrente partecipò, ben potendo cogliere gli effetti che la sospensione dell’operatività in c ontropartita
diretta poteva assumere ai fini della decisione di investimento; (xv) la condotta dell’amministratore è punibile a titolo di colpa e in relazione all’illecito amministrativo non operano i presidi che la Costituzione accorda alle sanzioni penali; (xvi) non può essere fondatamente invocata l’esimente della buona fede, in assenza di un elemento positivo idoneo ad ingenerare nell’autore della violazione l’incolpevole convinzione della liceità della propria condotta. Con l’ulteriore considerazione che il giudizio di colpevolezza è ancorato a parametri normativi estranei al dato puramente psicologico, con limitazioni dell’indagine all’elemento oggettivo dell’illecito e alla suitas della condotta inosservante, con onere per il trasgressore di provare di avere agito in assenza di colpevolezza;
NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione, articolato in diciannove motivi.
La RAGIONE_SOCIALE ha depositato controricorso. Le parti hanno depositato memorie prima dell’udienza.
Considerato che:
Il primo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 1 c.p.c., il difetto di giurisdizione del giudice ordinario per incongrua lettura del dato normativo attributivo della potestas iudicandi e, in subordine, l’incostituzionalità dell’art. 195 commi 4 -8 TUF, nella parte in cui è attribuita al GO la giurisdizione sulle opposizioni alle sanzioni amministrative, con violazione del principio del giusto processo di cui agli artt. 111 e 113 Cost., nonché dell’art. 47 par. 1, della Carta Europea dei diritti fondamentali e dell’art. 6 CEDU;
1.1. il motivo è infondato;
in  linea  con  la  consueta  giurisprudenza  della  Corte  (tra  le  altre, Sez. 2, Ordinanza n. 1740 del 20/01/2022, Rv. 664171 -02; Cass. n. 1760/2022), relative al giudizio di opposizione avverso altre delibere sanzionatorie  adottate  dalla  RAGIONE_SOCIALE  nei  confronti  degli  organi  di
vertice della BPVi, vanno riaffermati i seguenti principi, calibrati in relazione alla fattispecie concreta in esame: (a) l’opposizione all’ordinanza -ingiunzione proposta dinanzi alla Corte di appello non configura un’impugnazione dell’atto ma introduce, piuttosto, un ordinario giudizio sul fondamento della pretesa dell’autorità amministrativa, devolvendo al giudice adito la piena cognizione circa la legittimità e la fondatezza del provvedimento sanzionatorio (Cass. n. 13150 del 2020); (b) dato l’oggetto li mitato del procedimento, si realizza un sacrificio al principio di economia processuale che trova una giustificazione nella peculiare natura del giudizio di opposizione (nella specie devoluto alla cognizione in unico grado di merito della Corte di appello), sicché è proprio l’esigenza di tutela del principio del doppio grado di merito (sebbene non costituzionalizzato) per le diverse pretese scaturenti dal giudizio di opposizione che impone, in assenza di una pari previsione derogatoria da parte del legislatore, la non cumulabilità di altre diverse domande nel medesimo giudizio di opposizione. Si tratta in ogni caso di scelta rimessa alla discrezionalità del legislatore e che non determina una violazione irreparabile del diritto di difesa, stante appunto la possibilità di poter autonomamente proporre domanda per la tutela delle situazioni connesse alla vicenda sanzionatoria; (c) quanto alla giurisdizione del GO, la corretta lettura degli effetti della sentenza della Corte costituzionale n. 162 del 2012 è nel senso che, come ripetutamente affermato dalla S.C., la competenza giurisdizionale a conoscere delle opposizioni avverso le sanzioni inflitte dalla RAGIONE_SOCIALE spetta all’autorità giudiziaria ordinaria. Tale soluzione è stata ribadita da Cass., Sez. U. n. 4362/2021, che ha affermato che le controversie relative all’applicazione delle sanzioni amministrativi irrogate dalla Banca d’Italia ex artt. 145 d.lgs. n. 385 del 1993, per violazioni commesse nell’esercizio dell’attività bancaria sono devolute alla giurisdizio ne del
giudice ordinario, la cui cognizione si estende agli atti amministrativi e regolamentari presupposti che hanno condotto all’emissione del provvedimento finale, con una motivazione che, sebbene espressamente riferita alle sanzioni della Banca d’Italia, si presta adeguatamente a sorreggere identica conclusione anche per le sanzioni RAGIONE_SOCIALE (per le sanzioni RAGIONE_SOCIALE e nel medesimo senso si veda anche Cass., Sez. Un. n. 25476/2021); (d) la materia sanzionatoria può essere sottoposta alla giurisdizione del giudice amministrativo, come eccezione alla regola generale, solo in presenza di un’apposita disposizione di legge, costituendo i provvedimenti sanzionatori la reazione a comportamenti del privato assunti come illegittimi, in relazione ai quali non si pone la difficoltà – alla base della previsione della giurisdizione esclusiva – di distinguere gli aspetti concernenti diritti soggettivi da quelli riguardanti interessi legittimi, poiché la situazione giuridica di chi deduce di essere stato sottoposto a sanzione in casi e nei modi non stabiliti dalla legge, ha consistenza di diritto soggettivo perfetto (Cass. Sez. Un., n. 18040/2008). Una questione di costituzionalità sotto questo profilo, pertanto, può al più porsi in senso inverso, sulla legittimità dell’attribuzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle suddette controversie. La Corte costituzionale ha ritenuto inammissibile, in più occasioni, una pronuncia additiva, come quella invocata nel caso in esame. Si è detto, infatti, che l’introduzi one di un nuovo caso di giurisdizione esclusiva può essere effettuata solo da una legge, come prescrive l’art. 103, primo comma, Cost., e nel rispetto dei principi e dei limiti fissati dalla sentenza n. 204 del 2004, pertanto risulta inammissibile il petitum posto dal giudice rimettente, che si risolve nella richiesta di introdurre, con una sentenza additiva, un nuovo caso, che può invece essere frutto di una scelta legislativa non costituzionalmente obbligata (Corte costituzionale, sentenza n. 259
del 2009); (e) nella specie, la questione di costituzionalità posta dal ricorrente  va  disattesa  in  quanto  dichiaratamente  volta  ad  ottenere una  (non  consentita,  per  le  ragioni  sopra  evidenziate)  pronuncia additiva,  che  estenda  le  ipotesi  di  giurisdizione  esclusiva,  sino  a ricomprendervi la cognizione delle controversie relative ai provvedimenti sanzionatori emessi dalla RAGIONE_SOCIALE;
il secondo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 4 c.p.c., la violazione del diritto di difesa per illegittima compressione del contraddittorio, anche ai sensi degli artt. 24 secondo comma, 11 Cost., dell’art. 6 CEDU e dell’art. 47, par. 1 (2), della Carta dei diritti fondamentali UE.
Si  ascrive  alla  Corte  d’appello  di  avere  respinto  l’istanza  del ricorrente che, in via telematica, aveva chiesto un termine ulteriore per esercitare il proprio diritto di replica e per il deposito di documentazione;
2.1. il motivo è infondato;
in disparte la prospettabile inammissibilità della censura perché aspecifica, in mancanza della dettagliata indicazione delle prerogative difensive che sarebbero state compromesse per effetto della mancata concessione del termine a difesa, rileva il Collegio che la costituzione della RAGIONE_SOCIALE è avvenuta nel rispetto del termine predeterminato dal legislatore per la costituzione, che nella valutazione del legislatore è stato reputato idoneo ad assicurare un adeguato esercizio del diritto di difesa in capo all’incolpato;
il  terzo  motivo denuncia, ai  sensi  dell’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c., l’omesso esame di un fatto decisivo nella parte in cui la Corte d’appello ha individuato il dies  a  quo dell’acquisita  conoscenza delle condotte illecite, da cui ha inizio il termine decadenziale ex art. 195 comma 1 TUF, senza considerare una pluralità di  fatti  esposti  dalla ricorrente, con  particolare riguardo al possesso,  da  parte  della
RAGIONE_SOCIALE, di tutti gli elementi necessari all’accertamento delle pretese violazioni  sin  dall’approvazione  del  Prospetto,  avvenuta  nel  maggio 2014, e alla circostanza che il comunicato stampa del 28/08/2015 e la relazione semestrale al 30/06/2015 erano sicuramente in possesso della RAGIONE_SOCIALE al momento dell’acquisizione documentale del 17/09/2015, risultando irrilevanti e superflue le acquisizioni successive;
3.1. il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato;
è  inammissibile  perché,  discostandosi  dal  parametro  normativo dell”omesso esame circa un fatto decisivo’, sottopone all’attenzione della Corte una quaestio iuris e non (appunto) la pretermissione, da parte del giudice di merito, di un fatto storico decisivo.
È infondato alla luce della giurisprudenza di questa Corte che, anche di recente, ha affermato che, in tema di sanzioni amministrative per la violazione delle norme disciplinanti l’attività di intermediazione finanziaria, il termine di decadenza di centottanta giorni per la contestazione al trasgressore decorre non già dalla ‘constatazione del fatto’, cioè dalla data di acquisizione della notizia dell’illecito, nella sua materialità, ma dal momento dell”accertamento del fatto’, ossia dal giorno in cui l’autorità ha completato l’attività istruttoria finalizzata a verificare la sussistenza dell’infrazione (Sez. 2, Sentenza n. 26766 del 15/10/2024, Rv. 672801 – 01).
Nel  caso  all’esame,  la  Corte  d’appello,  con  giudizio  di  fatto  ad essa riservato, ha stabilito che tutte e tre le contestazioni sono state mosse al trasgressore nel rispetto del termine di 180 giorni dalla fine dell’attività di accertamento operata dall’autorità di vigilanza;
il quarto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., la violazione dell’art. 19 comma 3 della legge n. 689 del 1981.
La  sentenza  sarebbe  errata  nella  parte  in  cui  ha  negato  la decadenza  dal  potere  punitivo  per  superamento  del  termine  di
conclusione del procedimento sanzionatorio in ragione dell’inconferenza  dell’articolo  19  rispetto  all’ambito  delle  sanzioni amministrative.
4.1. il motivo è infondato;
diversamente da quanto sostiene il ricorrente, l’art. 19 comma 3 della legge n. 689 del 1981 non individua un termine finale per l’adozione del provvedimento sanzionatorio; invero, si tratta di una disposizione specificamente destinata a disciplinare l’ipotesi di adozione di misura cautelare in pendenza del procedimento sanzionatorio, che mira a scongiurare il pericolo che la misura stessa possa protrarsi a tempo indeterminato, come appunto confermato dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 8060/2007, secondo cui il potere di emanare l’ordinanza ingiunzione incontra il solo limite temporale della prescrizione quinquennale del credito, così che l’obbligo di emettere il predetto provvedimento nel termine di sei mesi dal sequestro ex art. 19 della legge n. 689 del 1981, incide esclusivamente sull’efficacia della misura cautelare). L’art. 19 citato viene quindi in considerazione nella sola evenienza che l’opposizione avverso il provvedimento di sequestro sia stata respinta e che l’amministrazione non abbia disposto la confisca o emesso ordinanza ingiunzione di pagamento della sanzione pecuniaria, senza contemplare un termine suscettibile di generalizzata applicazione, tanto più che un termine generale imposto a pena di inefficacia della sanzione è appositamente previsto dal precedente articolo 14, applicabile anche ai procedimenti relativi alle sanzioni previste dal d.lgs. n. 58 del 1998 (Cass. nn. 18031/2022, 1770/2022, 1740/2022, 19512/2020, 8326/2018, 21706/2018, 6965/2018);
5. il quinto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c.,  la  violazione  dell’art.  5  del  d.lgs.  n.  72  del  2015,  come interpretato alla luce dell’art. 7 CEDU, dell’art. 49, par. 1, e dell’art.
52, par. 5, della Carta dei diritti fondamentali UE, nella parte in cui la Corte d’appello ha ritenuto non fondata la già prospettata questione di  legittimità  costituzionale  dell’art.  6  del  d.lgs.  n.  72  del  2015  e dell’ivi contenuta previsione che esclude la retroattività della disciplina  più  favorevole  agli  illeciti  compiuti  anteriormente  alla  sua entrata in vigore;
5.1. il motivo è infondato;
innanzitutto, anche in relazione alle censure di seguito esaminate, diversamente  da  quanto  prospettato  dal  ricorrente  nella  premessa all’esposizione degli asseriti  vizi  formali  della  sentenza,  si  deve escludere  la  natura  sostanzialmente  penale  della  sanzione  oggetto dell’impugnazione.
Sicché è conforme a diritto la statuizione del giudice di merito secondo cui le sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dalla RAGIONE_SOCIALE, diverse da quelle per manipolazione del mercato ai sensi dell’art. 187 -ter TUF, non hanno natura penale, con la conseguenza che, in relazione alle prime (tra le quali rientra la sanzione oggetto di questo giudizio), non trovano applicazione le modifiche alla parte V del d.lgs. n. 58 del 1998 per le violazioni commesse prima dell’entrata in vigore delle disposizioni di attuazione adottate dalla RAGIONE_SOCIALE e dalla Banca d’Italia, poiché così è disposto dall’art. 6 del citato d.lgs. n. 72 del 2015 che non dà luogo a dubbi di legittimità.
Tale statuizione è in linea con l’interpretazione della S.C. (Sez. 2, Sentenza n. 20689 del 09/08/2018, Rv. 650004 – 03), secondo cui, in materia di intermediazione finanziaria, le modifiche alla parte V del d.lgs. n. 58 del 1998 apportate dal d.lgs. n. 72 del 2015 si applicano alle violazioni commesse dopo l’entrata in vigore delle disposizioni di attuazione adottate dalla RAGIONE_SOCIALE, in tal senso disponendo l’art. 6 del medesimo decreto legislativo, e non è possibile ritenere l’applicazione immediata della le gge più favorevole, atteso che il principio del ‘ favor
rei ‘, di matrice penalistica, non si estende, in assenza di una specifica disposizione normativa, alla materia delle sanzioni amministrative, che risponde, invece, al distinto principio del ‘ tempus regit actum ‘. Né tale impostazione viola i principi convenzionali enunciati dalla Corte EDU nella sentenza 4 marzo 2014 ( RAGIONE_SOCIALE ed RAGIONE_SOCIALE c/o Italia ), secondo la quale l’avvio di un procedimento penale a seguito delle sanzioni amministrative inflitte dalla RAGIONE_SOCIALE sui medesimi fatti violerebbe il principio del ‘ ne bis in idem ‘, atteso che tali principi vanno considerati nell’ottica del giusto processo, che costituisce l’ambito di specifico intervento della Corte, ma non possono portare a ritenere sempre sostanzialmente penale una disposizione qualificata come amministrativa dal diritto interno, con conseguente irrilevanza di un’eventuale questione di costituzionalità ai sensi dell’art. 117 Cost.;
6. il  sesto  motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c., la violazione dell’art. 6 CEDU, dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali UE, dell’art. 15 della legge n. 689 del 1981, dell’art. 195 comma  7  TUF,  per  aver  la  Corte  d’appello  negato  la  pur  patente violazione del contraddittorio insita nelle limitazioni imposte all’accesso agli atti da parte del ricorrente.
Si  ascrive  alla  sentenza di avere erroneamente affermato che la mancata globale ostensione dei documenti è stata legittimata dall’irrilevanza di quelli che non hanno formato oggetto di esame da parte della RAGIONE_SOCIALE allorché sono stati formulati gli addebiti;
6.1. il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato;
è inammissibile perché è generica l’allegazione circa la lesione del principio  del  contraddittorio,  avendo  questa  Corte  ribadito  che  per dedurre validamente la violazione del contraddittorio occorre allegare e  dimostrare  una  concreta  ed  effettiva  lesione  del  diritto  di  difesa (Cass., Sez. U. n. 20935/2009).
È infondato alla luce della giurisprudenza di questa Corte, che ha chiarito che le garanzie del contraddittorio previste per il procedimento sanzionatorio davanti alla RAGIONE_SOCIALE prima delle modifiche introdotte dalla delibera n. 29158 del 29 maggio 2015 sono da ricondurre al livello proprio del contraddittorio procedimentale, di solito di tipo verticale, svolgendosi esso tra l’amministrazione e l’interessato su un piano non di eguaglianza, ma in funzione collaborativa, partecipativa e non difensiva, non già di quello di matrice processuale, di tipo orizzontale, che riguarda due parti in posizione paritaria rispetto ad un decidente terzo e imparziale. Ne consegue che non sussiste alcun contrasto con l’art. 24 Cost. e con i principi espressi dagli artt. 195 TUF e 24 della legge n. 262 del 2005 (Sez. 2, Sentenza n. 8046 del 21/03/2019, Rv. 653405 – 02);
7. il settimo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c., la violazione dell’art. 244 c.p.c. e dell’art. 195 comma 7 TUF, nella  parte  in  cui  la  Corte  d’appello  ha  omesso  l’audizione  del ricorrente che ne aveva fatto espressa richiesta;
7.1. il motivo è infondato;
nel procedimento sanzionatorio di cui all’art. 195 TUF, il diritto di difesa dell’incolpato è garantito dalla previsione di  un  congruo termine  per  il  deposito  di  difese  scritte,  mentre  la  sua  audizione personale  non  è  un  incombente  imprescindibile,  come  risulta  dal confronto con l’art. 196 dello stesso decreto legislativo, riguardante i promotori finanziari (Cass. n. 1740/2022, cit.);
8. l’ottavo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., la violazione degli artt. 94 comma 2 e 191 comma 2 del TUF, per avere la sentenza confermato la violazione degli obblighi informativi per mancato inserimento di una notizia non prevista dagli schemi comunitari di prospetto (in relazione alla prima contestazione relativa  al  mancato  inserimento  delle  informazioni  sulle  modalità  di
svolgimento  del  processo  di  determinazione  delle  azioni  offerte)  né espressamente  richiesta  in  sede  di  approvazione  dall’autorità  di controllo. Si contesta altresì la violazione del principio di determinatezza della fattispecie illecita, di buona fede ed affidamento di cui all’art. 9 comma 1 della legge n. 180 del 2011;
il nono motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 94 comma 2 e 191 comma 2 TUF, per avere la sentenza ritenuto di poter confermare la violazione degli obblighi informativi per mancato inserimento di una notizia non prevista dagli schemi comunitari di prospetto (in relazione alla terza contestazione relativa al mancato inserimento di informazioni sull’andamento delle negoziazioni delle azioni BPVi) né espressamente richiesta in sede di approvazione dall’autorità di controllo; si contesta anche la violazione del principio di determinatezza della fattispecie illecita, di buona fede oggettiva ed affidamento;
il decimo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 94 comma 2 TUF, nonché dei principi di tipicità dell’illecito e della preventiva conoscibilità della condotta vietata, nella parte in cui la Corte d’appello (relativamente alla prima e terza contestazione) non ha verificato la rilevanza e necessità delle informazioni che si assumono omesse al fine della formazione di un giudizio sull’offerta da parte dell’investitore, ai sensi dell’art. 94 comma 2 TUF, dando per presupposto che ‘qualunque informazione’ fosse necessaria;
10.1.  l’ottavo,  il  nono  e  il  decimo  motivo,  che  possono  essere esaminati insieme perché pongono le stesse questioni, sono in parte inammissibili e in parte infondati;
le censure sono inammissibili là dove, nella sostanza, sollecitano la  Corte,  cui  è  demandato  esclusivamente  il  controllo  della  legalità
della  decisione,  a  compiere  un  nuovo  accertamento  degli  aspetti fattuali  della  vicenda,  in  precedenza  insindacabilmente  vagliati  dalla Corte d’appello, la quale ha illustrato le ragioni del proprio convincimento  con  motivazione  specifica,  completa  e  priva  di  vizi logici.
Quanto all’infondatezza delle censure, la premessa è che i motivi in  esame  pongono  l’accento  sull’incidenza,  rispetto  alle  contestate violazioni,  della  mancata  previsione  di  alcune  informazioni  negli schemi  comunitari  di  prospetto,  anche  dal  punto  di  vista  della determinatezza dell’illecito.
La tesi difensiva non è persuasiva poiché è indubitabile che detti schemi comunitari non tipizzano le ‘informazioni necessarie’, ma si limitano ad indicare le ‘informazioni minime’. Infatti, il regolamento 809 del 2004, in tema di modalità di esecuzione della direttiva 2003/71/CE, i cui secondo e sesto considerando precisano, rispettivamente, che ‘ in funzione del tipo di emittente e di strumento finanziario interessati occorre fissare la tipologia di informazioni minime corrispondenti agli schemi più frequentemente utilizzati nella pratica ‘ e che ‘ nella maggior parte dei casi, vista la varietà di emittenti, i tipi di strumenti finanziari, la partecipazione o meno di un terzo come garante, l’esistenza o meno di una quotazione, ecc., uno schema unico non fornisce tutte le informazioni di cui gli investitori hanno bisogno per assumere le loro decisioni di investimento. Pertanto, deve essere possibile la combinazione di vari schemi. Occorre elaborare una tabella di combinazione non esaustiva, che fissi le varie combinazioni di schemi e di moduli possibili per la maggior parte dei diversi tipi di strumenti finanziari e che sia di ausilio agli emittenti nella redazione dei loro prospetti’ .
Il regolamento  fornisce, quindi, unicamente  le ‘informazioni minime’, di carattere non esaustivo, che devono corredare i
prospetti, laddove l’art. 94 TUF contiene una previsione di carattere decisamente elastico e residuale, secondo cui il prospetto deve contenere ‘ tutte le informazioni che […] sono necessarie affinché gli investitori possano pervenire ad un fondato giudizio sulla situazione patrimoniale e finanziaria, sui risultati economici e sulle prospettive dell’emittente […] nonché sui prodotti finanziari e sui relativi diritti ‘ e deve essere corredato di una nota di sintesi (nella lingua in cui il prospetto è stato in origine redatto) che fornisce le ‘ informazioni chiave ‘.
Nella  specie,  il  giudice  di  merito  indica  in  maniera  puntuale  e dettagliata quali informazioni sono state omesse,  con specifico riferimento ai criteri di determinazione del valore delle azioni oggetto delle offerte di acquisto e al massiccio ricorso, da parte della banca, al  sistema  dei  finanziamenti  correlati  e  alle  rilevanti  anomalie  nella compravendita delle azioni della banca.
Da un diverso punto di vista, l’accertamento operato dalla Corte d’appello circa l’insussistenza della buona fede del ricorrente – il quale, è bene ricordarlo, faceva parte dell’organo amministrativo della banca – involge una quaestio facti che sta al di fuori del perimetro del sindacato di legittimità e che, comunque, sul piano dei principi applicati dalla Corte territoriale, è in linea con l’esegesi giurisprudenziale secondo cui, in tema di sanzioni amministrative, la buona fede rileva come causa di esclusione della responsabilità amministrativa quando sussistono elementi positivi idonei ad ingenerare nell’autore della violazione il convincimento della liceità della sua condotta e quando l’autore medesimo abbia fatto tutto quanto possibile per conformarsi al precetto di legge, onde nessun rimprovero possa essergli mosso, neppure sotto il profilo della negligenza omissiva (Sez. 2, Ordinanza n. 11977 del 19/06/2020, Rv. 658272 – 01).
La Corte d’appello ha evidenziato che l’intero CdA, non escluso il ricorrente, era a conoscenza della peculiarità del prescelto criterio di valutazione  delle  azioni,  delle  denunce  di  un deficit informativo provenienti  da  alcuno  dei  soci,  e  del  consistente  fenomeno  del capitale finanziato (del quale persino il ricorrente e un suo famigliare si avvalsero);
11. l’undicesimo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., la violazione dell’art. 191 comma 2 TUF, nella parte in cui la Corte d’appello ha confermato la sanzione applicata al ricorrente a titolo di colpa, là dove  la fattispecie prevede  la sanzionabilità esclusivamente a titolo di dolo.
La sanzione sarebbe illegittima perché è stata inflitta al ricorrente, amministratore  privo  di  deleghe,  per  una  condotta  che  presuppone non  la  colpa,  ma  il  dolo  ed  è  ascrivibile  soltanto  a  colui  che  abbia (appunto) dolosamente celato le informazioni;
11.1. il motivo è infondato;
al  contrario  di  quanto  afferma  il  ricorrente,  la  sentenza  ha correttamente rilevato che si è in presenza di un illecito amministrativo per il quale vale il principio generale, sancito dall’art. 3  della  legge  n.  689  del  1981,  secondo  cui  la  responsabilità  della violazione  amministrativa,  posta  in  essere  mediante  condotta  attiva od omissiva cosciente e volontaria, grava sull’autore della medesima, sia essa doloso o colposa;
12. il dodicesimo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 2392 comma 1 c.c., dell’art. 53 comma 1 TUB, e delle disposizioni regolamentari di attuazione  adottate  dalla  Banca  d’Italia  con  le  circolari  n.  285  del 17/12/2013 e n. 263 del 27/12/2006, nel testo applicabile all’epoca dei fatti, per aver la sentenza ritenuto di poter formulare a carico del ricorrente  un  giudizio  d’imputazione  di  omissioni,  trascurando  di
considerare  quali  sono,  a  norma  di  legge  e  di  regolamento,  le effettive  facoltà  di  controllo  del  RAGIONE_SOCIALE  e  dei  suoi  componenti  sulla struttura aziendale della banca.
Si sostiene che la sentenza avrebbe attribuito la responsabilità al ricorrente senza prendere in considerazione le stringenti regole sui rapporti tra gli organi fissate dalla Banca d’Italia, le quali escludono per gli amministratori non esecutivi (cioè, privi di deleghe) l’onere di controllare le attività delle funzioni aziendali di controllo ( compliance , risk management , internal audit ) e degli organi con funzione di gestione (amministratore delegato e/o direttore generale) e, perciò, non consentono nemmeno di ipotizzare una colpa omissiva, agevolativa dell’atto doloso altrui;
12.1. il motivo, frammentato in diversi rilievi critici, è complessivamente infondato;
12.2. la decisione, che ha ravvisato specifici profili di responsabilità del ricorrente, nonostante il suo ruolo di componente del CdA privo di deleghe, collima con la giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 21502/2024; in termini, Cass. nn. 29963/2024, 8581/2024), che ha sottoposto a un’approfondita disamina le questioni di diritto in tema di sanzioni inflitte dalla Banca d’Italia ai componenti del CdA di un ente creditizio per carenze nell’organizzazione e nei controlli interni. È stato osservato che «ai fini del contenimento del rischio creditizio nelle sue diverse configurazioni, nonché dell’organizzazione societaria e dei controlli interni, l’art. 53, lett. b) e d), del d.lgs. n. 385 del 1993 e le disposizioni attuative dettate con le istruzioni di vigilanza per le banche, mediante la circolare n. 229 del 1999 (e successive modificazioni e integrazioni), sanciscono doveri di particolare pregnanza in capo al consiglio di amministrazione delle società bancarie, che riguardano l’intero organo collegiale e, dunque, anche i
consiglieri non esecutivi, i quali sono tenuti ad agire in modo informato e, in ragione dei loro requisiti di professionalità, ad ostacolare l’evento dannoso, sicché rispondono del mancato utile attivarsi», e si è chiarito che «in caso di irrogazione di sanzioni amministrative, la Banca d’Italia, anche in virtù della presunzione di colpa vigente in materia, ha unicamente l’onere di dimostrare l’esistenza dei segnali di allarme che avrebbero dovuto indurre gli amministratori non esecutivi, rimasti inerti, ad esigere un supplemento di informazioni o ad attivarsi in altro modo, mentre spetta a questi ultimi provare di avere tenuto la condotta attiva dovuta o, comunque, mirante a scongiurare il danno (Cass. n. 22848 del 2015; Cass. n. 19556 del 2020)». La Corte aggiunge che «[i]l dovere di agire informati dei consiglieri non esecutivi delle società bancarie, sancito dagli artt. 2381, commi 3 e 6, e 2392 c.c., non va, del resto, rimesso, nella sua concreta operatività, alle segnalazioni provenienti dai rapporti degli amministratori delegati, giacché anche i primi devono possedere ed esprimere costante e adeguata conoscenza del business bancario e, essendo compartecipi delle decisioni di strategia gestionale assunte dall’intero consiglio, hanno l’obbligo di contribuire ad assicurare un governo efficace dei rischi di tutte le aree della banca e di attivarsi in modo da poter efficacemente esercitare una funzione di monitoraggio sulle scelte compiute dagli organi esecutivi, non solo in vista della valutazione delle relazioni degli amministratori delegati, ma anche ai fini dell’esercizio dei poteri, spettanti al consiglio di amministrazione, di direttiva o avocazione concernenti operazioni rientranti nella delega. Questa interpretazione non vale ad accollare una responsabilità oggettiva agli amministratori non esecutivi, essendo gli stessi perseguibili ove ricorrano comunque sia la condotta d’inerzia, sia il fatto pregiudizievole antidoveroso, sia il nesso causale tra i medesimi, sia, appunto, la colpa, consistente nel
non aver rilevato colposamente i segnali dell’altrui illecita gestione, pur percepibili con la diligenza della carica (anche indipendentemente dalle informazioni doverose ex art. 2381 c.c.), e nel non essersi utilmente attivati al fine di evitare l’evento. Sotto il profilo probatorio, ciò comporta che spetta al soggetto il quale afferma la responsabilità allegare e provare, a fronte dell’inerzia dei consiglieri non delegati, l’esistenza di segnali d’allarme (anche impliciti nelle anomale condotte gestorie) che avrebbero dovuto indurli ad esigere un supplemento di informazioni o ad attivarsi in altro modo (con la richiesta di convocazione del consiglio di amministrazione rivolta al presidente, il sollecito alla revoca della deliberazione illegittima o all’avocazione dei poteri, l’invio di richieste per iscritto all’organo delegato di desistere dall’attività dannosa, l’impugnazione delle deliberazione ex art. 2391 c.c., la segnalazione al p.m. o all’autorità di vigilanza, e così via); assolto tale onere, è, per contro, onere degli amministratori provare di avere tenuto la condotta attiva dovuta o la causa esterna, che abbia reso non percepibili quei segnali o impossibile qualsiasi condotta attiva mirante a scongiurare il danno».
In precedenza, era stato chiarito (Cass. n. 16517/2020, punto 2) che «[l]a tesi secondo cui la responsabilità dei consiglieri sarebbe predicabile solo se questi ultimi abbiano ricevuto informazioni in modo completo ed esauriente sulle singole operazioni poste in essere dai titolari di deleghe operative, è già stata motivatamente respinta, in fattispecie analoghe, da questa Corte e non trova alcun sostegno nei precedenti richiamati in ricorso. Nello specifico settore delle attività bancarie o di intermediazione finanziaria, ai fini del contenimento del rischio creditizio nelle sue diverse configurazioni, nonché dell’organizzazione societaria e dei controlli interni, l’art. 53, lettere b) e d), d.lgs. 385/1993 e le disposizioni attuative dettate con le istruzioni di vigilanza per le banche, sanciscono doveri di
particolare pregnanza in capo al Consiglio di amministrazione nel suo complesso e ai singoli consiglieri (anche se privi di deleghe operative). Questi ultimi sono sempre tenuti ad agire in modo informato e, in ragione dei requisiti di professionalità di cui sono e devono essere in possesso, ad impedire possibili violazioni. Tale dovere, sancito dall’art. 2381 c.c., commi terzo e sesto, e dall’ art. 2392 c.c., non va rimesso, nella sua concreta operatività, alle segnalazioni provenienti dai rapporti degli amministratori delegati, giacché anche i singoli consiglieri devono possedere e attivare una costante e adeguata conoscenza del business bancario e, essendo compartecipi delle decisioni di strategia gestionale assunte dall’intero Consiglio, hanno l’obbligo di contribuire ad assicurare un governo efficace dei rischi in tutti i settori di operatività della banca, oltre che ad attivarsi in modo da esercitare efficacemente la funzione di monitoraggio sulle scelte compiute, non solo in vista della valutazione delle relazioni degli amministratori delegati, ma anche ai fini dell’esercizio dei poteri di direttiva o avocazione riguardo alle attività rientranti nella delega (Cass. 2737/2013; Cass. 17799/2014; Cass. 18683/2014; Cass. 5606/2019; Cass. 24851/2019). L’àmbito entro il quale deve esprimersi la diligenza dei consiglieri non è mutato neppure a seguito della riforma del diritto societario adottata con d.lgs. 6/2006. L’art. 2381, comma sesto, c.c., nel testo in vigore, impone un dovere di agire in modo informato, disponendo infine che ‘ciascun amministratore può chiedere agli organi delegati che in consiglio siano fornite informazioni relative alla gestione della società’. Il comma terzo recita che il consiglio di amministrazione ‘può sempre impartire direttive agli organi delegati e avocare a sé operazioni rientranti nella delega’. Il comma secondo dell’art. 2392 c.c. continua a prevedere che gli amministratori ‘sono in ogni caso solidalmente responsabili se, essendo a conoscenza di fatti
pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose’ (Cass. 24851/2019). Resta da confermare che la responsabilità degli amministratori privi di deleghe operative non discende da una generica condotta di omessa vigilanza, né implica l’imputazione della responsabilità a titolo oggettivo o per le condotte altrui, ma deriva dal fatto di non aver impedito ‘fatti pregiudizievoli’ dei quali abbiano acquisito (o avrebbero potuto acquisire) conoscenza anche di propria iniziativa, ai sensi dell’obbligo previsto dall’art. 2381 c.c. (Cass. n. 17441 del 2016; Cass. 2038/2018)»;
12.3. né d’altra parte è condivisibile la lettura delle circolari della Banca d’Italia prescelta dal ricorrente che, secondo la sua prospettazione, condurrebbe all’esonero dalla responsabilità degli amministratori non esecutivi. A parte il fatto che le violazioni in esame attengono ai servizi di investimento, ai quali maggiormente si attagliano le previsioni del Regolamento congiunto Banca d’Italia/RAGIONE_SOCIALE del 29/10/2007, comunque, è indubitabile che la circolare n. 285 del 2013 non ha affatto travolto gli assetti ed i rapporti societari fissati da norme primarie, a cominciare dall’art. 2381 c.c. Milita in tal senso la circostanza che le disposizioni regolamentari sono volte a rafforzare proprio l’assetto configurato dal codice civile, con l’individuazione di regole più specifiche per il settore bancario, e nel rispetto delle fonti di derivazione comunitaria (in particolare la direttiva 2013/36/UE), ma sempre in vista di un armonico coordinamento tra la disciplina societaria di carattere generale e quella settoriale bancaria, ed il tutto in correlazione con il regolamento (UE) n. 575/2013, con il quale va a comporre il quadro normativo di disciplina delle attività bancarie, il quadro di vigilanza e le norme prudenziali per gli enti creditizi e le imprese di investimento.
Le previsioni della circolare, sebbene richiamino l’esigenza di una chiara distinzione dei ruoli e delle responsabilità degli organi, aggiungendo che l’articolazione della struttura interna deve comunque assicurare l’efficacia dei controlli e l’adeguatezza dei flussi informativi, tuttavia non possono essere intese come un’autorizzazione alla preventiva deresponsabilizzazione dei componenti del CdA. Ove anche si riconosca che la circolare della Banca d’Italia, in vista del buon funzionamento delle imprese bancarie, abbia suggerito delle strutture rigide e chiaramente individuatrici delle competenze e delle funzioni, le sue disposizioni non possono certo avallare la conclusione, erronea, secondo cui non sarebbe esigibile, da parte degli amministratori non esecutivi, la verifica di ogni singolo atto di impresa, dovendosi, quanto agli indici di allarme, fare affidamento sulle rassicurazioni offerte dagli uffici interni deputati al controllo circa la correttezza delle azioni delle singole articolazioni societarie;
il tredicesimo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., la falsa applicazione dell’art. 2729 c.c. e la violazione degli artt.  2441  comma  6,  2381  comma  6,  nonché  dell’art.  94  comma  7 TUF.
La sentenza avrebbe desunto l’accertamento della negligenza del ricorrente dalla pretesa esistenza di indici di allarme circa l’insufficienza delle informazioni fornite con riguardo alla determinazione del prezzo delle azioni (prima contestazione) postulando l’esistenza di obblighi di verifica esclusi d alle disposizioni del codice civile;
 il  quattordicesimo  motivo  denuncia,  ai  sensi  dell’art.  360 comma 1 n. 3 c.p.c., la violazione dell’art. 2729 c.c.
La sentenza avrebbe fondato l’accertamento della negligenza del ricorrente  sulla  pretesa  esistenza  di  indici  sintomatici  del  fenomeno (del quale il CdA non era stato informato) dei finanziamenti correlati.
Sotto altro profilo, oltre (come detto) alla violazione delle norme sulla  prova  per  presunzioni,  si  denuncia  che  la  sentenza  avrebbe recepito, in maniera acritica, la ricostruzione dei fatti proposta dalla RAGIONE_SOCIALE,  e  non  avrebbe  considerato  RAGIONE_SOCIALE  elementi  che,  viceversa, deponevano nel senso che la mancanza di conoscenza, da parte del ricorrente, del fenomeno del capitale finanziato o correlato (nozione coniata dalla BCE e ripresa dalla RAGIONE_SOCIALE) non gli era addebitabile a titolo di colpa;
15. il quindicesimo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., la falsa applicazione dell’art. 2729 c.c. e la violazione di legge  (testuale  a  pag.  101)  ‘in  relazione  all’art.  2392,  comma  6, c.c.’.
La sentenza avrebbe fondato l’accertamento della negligenza del ricorrente sulla pretesa consapevolezza dell’ingente numero di richieste di cessione dei titoli non quotati sul mercato regolamentato (cosiddetti titoli illiquidi) facendo leva su mere asserzioni provenienti dalla RAGIONE_SOCIALE;
15.1. il  tredicesimo,  il  quattordicesimo  e  il  quindicesimo  motivo, che  possono  essere  esaminati  congiuntamente  per  la  loro  stretta connessione, sono in parte inammissibili e in parte infondati;
innanzitutto, è indubitabile che alla RAGIONE_SOCIALE non può essere chiesto di ripetere  il  giudizio  di  fatto  della  Corte  d’appello ,  poiché  una  simile attività non è consentita nel giudizio di cassazione.
Ciò  precisato,  si  deve  escludere  che  la  sentenza  sia  viziata  da falsa  applicazione  della  disposizione  codicistica  in  tema  di  prova presuntiva  (art.  2729  c.c.).  Infatti,  il  giudice  di  merito  ha  ritenuto fondata le contestazioni alla luce di specifiche circostanze di fatto che,
secondo la sua insindacabile ricostruzione della vicenda, dimostravano  la  violazione,  da  parte  dell’amministratore  (benché privo di deleghe), degli obblighi informativi nei confronti degli investitori in relazione agli aumenti di capitale deliberati dalla banca.
In particolare, per il giudice di merito, l’agire negligente e imprudente del ricorrente trova riscontro nel fatto che egli era a conoscenza o avrebbe dovuto essere a conoscenza di macroscopiche anomalie concernenti i criteri di stima delle azioni (la cui mancanza di chiarezza era stata portata all’attenzione degli organi di vertice da un socio nel corso di una assemblea dei soci), nonché del fenomeno dei finanziamenti correlati (dei quali, tra l’altro, avevano beneficiato persino una società e un famigliare del ricorrente), e della corsa della clientela alla vendita dei titoli azionari illiquidi, e nella constatazione che, conseguentemente, al pari degli RAGIONE_SOCIALE componenti del CdA, egli avrebbe dovuto attivarsi al fine di compiere gli approfondimenti del caso;
16. il sedicesimo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., la violazione dell’art. 3 della legge n. 689 del 1981, come interpretato alla luce dell’art. 6 CEDU, nonché dell’art. 7 comma 10 del  d.lgs.  150  del  2011,  per  essere  stato  disatteso  il  principio  di presunzione di innocenza.
Si sostiene che la sentenza sarebbe in contrasto con i principi del contraddittorio  paritario  e  della  distribuzione  dell’onere  della  prova che caratterizzano il rapporto giuridico processuale contenzioso, come interpretati alla luce dell’art. 6 CEDU.
Inoltre,  la  Corte  territoriale  avrebbe  pretermesso  l’art.  7  del decreto citato che esclude che alla RAGIONE_SOCIALE vengano accordate preferenze o  agevolazioni  sul  piano  probatorio,  in  coerenza  con  la  natura  del processo di opposizione;
16.1. il motivo è infondato;
il giudice di merito, nel disattendere l’eccezione del ricorrente relativa alla carenza dell’elemento soggettivo della violazione, ha fatto corretta applicazione del principio di diritto (Cass. n. 24081/2019) secondo cui l’art. 3 della legge n. 689 del 1981 pone una presunzione di colpa a carico dell’autore del fatto vietato, gravando sul trasgressore l’onere di provare di aver agito senza colpa (nella specie, la RAGIONE_SOCIALE ha applicato il sopraindicato principio in relazione al provvedimento sanzionatorio adotta to, ai sensi dell’art. 190 del d.lgs. n. 58 del 1998, dalla RAGIONE_SOCIALE nei confronti dei componenti del consiglio di amministrazione di una banca, affermando che spetta ad essi, in presenza di accertate carenze procedurali ed organizzative, dimostrare di aver adempiuto diligentemente agli obblighi imposti dalla normativa di settore). Infatti, sia pure con riferimento a sanzioni amministrative irrogate dalla Banca d’Italia (Cass. n. 9546/2018), si è precisato che il legislatore individua una serie di fattispecie, destinate a salvaguardare procedure e funzioni ed incentrate sulla mera condotta, secondo un criterio di agire o di omettere doveroso, ricollegando il giudizio di colpevolezza a parametri normativi estranei al dato puramente psicologico e limitando l’indagine sull’elemento oggettivo dell’illecito all’accertamento della ‘suità’ della condotta inosservante sicché, integrata e provata dall’autorità amministrativa la fattispecie tipica dell’illecito, grava sul trasgressore, in virtù della presunzione di colpa posta dall’art. 3 della legge n. 689 del 1981, l’onere di provare di aver agito in assenza di colpevolezza. Ne consegue che (Cass. n. 1529/2018) sebbene l’onere di provare i fatti costitutivi della pretesa sanzionatoria sia posto a carico dell’Amministrazione, la quale è pertanto tenuta a fornire la prova della condotta illecita, nel caso dell’illecito omissivo di pura condotta, essendo il giudizio di colpevolezza ancorato a parametri normativi
estranei al dato puramente psicologico, è sufficiente la prova dell’elemento oggettivo dell’illecito comprensivo della ‘suità’ della condotta inosservante, in assenza di elementi tali da rendere inesigibile la condotta o imprevedibile l’evento (conf. Cass. Sez. U., n. 20930/2009). Così intesa la ‘presunzione di colpa’ non si pone in contrasto con gli artt. 6 CEDU e 27 Cost. E ciò anche nel caso (diverso da quello di specie) in cui la sanzione abbia natura sostanzialmente penale in quanto afflittiva. Non è quindi necessaria la concreta dimostrazione del dolo o della colpa in capo all’agente, sul quale grava, pertanto, l’onere della dimostrazione di aver agito senza colpa (Cass. n. 11777/2020).
La  sentenza  impugnata,  come  detto,  si  uniforma  ai  principi  in tema di interpretazione dell’articolo 3;
17. il diciassettesimo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., che la Corte d’appello avrebbe giudicato sulla base della cd. presunzione di colpevolezza ex art. 3 delle legge n. 689 del 1981, senza valorizzare il limite all’operatività della presunzione, individuato dalla giurisprudenza della Cassazione; ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c., che la sentenza non avrebbe esaminato la circostanza, pacifica, che alcuni membri dell’alta dirigenza della banca avrebbero posto in essere una convincente, seria e ben organizzata messa in scena di liceità, difficilmente smascherabile attraverso i normali flussi informativi;
17.1. il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato;
dal  primo  punto  di  vista  (inammissibilità  del  motivo),  rileva  il Collegio che la  censura  di  omesso  esame  di  una  determinata circostanza si risolve, in realtà, nell’indebita sollecitazione, rivolta alla RAGIONE_SOCIALE, a compiere un nuovo scrutinio dei fatti di causa, già esaminati dalla Corte territoriale.
Sul punto, è solo il caso di ricordare che, ad esempio, la sentenza (pag.  54)  non  ravvisa  che  il  ricorrente  abbia  ‘offerto  la  prova  di manovre dirette a occultare il fenomeno del ‘capitale finanziato”.
La prospettata violazione dell’art. 3 della legge n. 689 del 1981 è priva di fondamento sia per le ragioni sopra evidenziate (punto 16.1.) a  proposito  dell’elemento  soggettivo  dell’illecito  amministrativo,  sia alla  luce  dei  principi  in  tema  di  doveri  a  carico  degli  amministratori non esecutivi (punto 12.2.);
18. il diciottesimo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c., l’omesso esame di un fatto decisivo.
La sentenza, lì dove ha riconosciuto in capo a COGNOME una situazione di colpa grave avendo egli beneficiato di un ‘finanziamento baciato’, avrebbe trascurato di considerare le pertinenti giustificazioni addotte dal ricorrente al fine di dimostrare le ragioni -assolutamente non correlato all’acquisto di azioni BPVi, ma ad un piano industriale che successivamente non si era concretizzato -sottese ai finanziamenti ricevuti, non da lui direttamente, ma dalla RAGIONE_SOCIALE, della quale era socio;
18.1. il motivo è inammissibile;
la  censura  si  sostanzia  nella  prospettazione  di  una  ricostruzione dei fatti di causa alternativa rispetto a quella che, in base all’insindacabile valutazione del giudice di merito, comprova  la responsabilità del ricorrente;
 il  diciannovesimo  motivo  denuncia ,  ai  sensi  dell’art.  360 comma 1 n. 4 c.p.c., la violazione dell’art. 91 c.p.c.
La  sentenza  avrebbe  erroneamente  liquidato,  a  favore  della RAGIONE_SOCIALE,  le  spese  processuali  nella  misura  di  euro  9.000,00  per compenso professionale, nonostante che, qualora (come nel caso di specie)  la  P.A.  stia  in  giudizio  a  mezzo  di  un  proprio  funzionario appositamente delegato e risulti vittoriosa, debbano esserle
riconosciute esclusivamente le spese vive, adeguatamente documentate, con esclusione del pagamento dei diritti di procuratore e degli onorari di avvocato;
19.1. il motivo è infondato;
la  doglianza  fa  leva  su  un ‘erronea lettura degli atti di causa dai quali risulta che il patrocinio dell’autorità di vigilanza è stato svolto da avvocati (dipendenti della Commissione), iscritti nella sezione speciale  dell’albo  degli  avvocati  di  Roma,  e  non  da  funzionari  della RAGIONE_SOCIALE.
In continuità con la giurisprudenza di questa Corte, va riaffermato il principio di diritto secondo cui, qualora la P.A. sia rappresentata in giudizio non da un funzionario delegato ma da un difensore iscritto nell’apposito albo, ai sensi degli artt. 82 e 87 c.p.c., il diritto dell’amministrazione al rimborso delle spese di lite, ex art. 91 c.p.c., comprende anche i relativi compensi, ancorché lo stesso difensore sia anche un suo dipendente, atteso che quel diritto sorge per il solo fatto che la parte vittoriosa è stata in giudizio con il ministero di un difensore tecnico (Cass. nn. 24374/2024, 23825/2023, 16274/2022, 1740/2022, cit.);
20. nella memoria da ultimo depositata il ricorrente chiede che il Collegio, con rinvio pregiudiziale, sottoponga alla Corte di giustizia UE alcuni  quesiti  al  fine  di  verificare  se  le  sanzioni  per  le  violazioni  in questione  (art.  191  comma  2  TUF)  siano  o  meno  compatibili  con  i principi  e  la  normativa  europea  (Carta  dei  diritti  fondamentali  UE, artt. 6 e 7 CEDU): l’istanza, manifestamente infondata, va respinta.
Innanzitutto,  è  utile  mettere  in  evidenza  che  l’oggetto  della domanda di pronuncia pregiudiziale rivolta alla Corte di giustizia deve riguardare l’interpretazione o la validità del diritto dell’Unione, e non (come nel caso di specie pare sostanzialmente intendere il ricorrente) l’interpretazione delle norme del diritto nazionale o questioni di fatto
sollevate nel procedimento principale (così C. giust., Raccomandazioni  all’attenzione  dei  giudici  nazionali,  relative  alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale, 2018/C 257/01, in Gazzetta ufficiale dell’Unione europea del 20/07/2018).
Inoltre, per la giurisprudenza di questa Corte «non v’è diritto della parte all’automatico rinvio pregiudiziale ogniqualvolta la Corte di cassazione non ne condivida le tesi difensive (Cass., S.U., 08/07/2016, n. 14043), bastando che le ragioni siano espresse (Corte EDU, in caso NOME COGNOME e Rezabek c. Belgio), ovvero implicite laddove la questione pregiudiziale sia manifestamente inammissibile o manifestamente infondata (Corte EDU, in caso RAGIONE_SOCIALE c. Italia, par. 36), ovverosia quando l’interpretazione della norma e del caso siano evidenti (Cass., S.U., 24/05/2007, n. 12067). Infatti, un organo giurisdizionale di ultima istanza non è tenuto a presentare alla Corte di giustizia una domanda di pronuncia pregiudiziale (art. 267 comma 3 TFUE), qualora esista già una giurisprudenza consolidata in materia o qualora la corretta interpretazione della norma di diritto di cui trattasi non lasci spazio a nessun ragionevole dubbio (Raccomandazioni 2016. C. – 439.01, par. 6)» (Cass. Sez. U., 19/06/2018, n. 16157, in motivazione, p. 5.5.; nello stesso senso, tra le tante, Cass. 07/06/2018, n. 14828; Cass. 16/06/2017, n. 15041, secondo cui il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione Europea presuppone il dubbio interpretativo su una norma comunitaria, che non ricorre allorché l’interpretazione sia auto-evidente oppure il senso della norma sia già stato chiarito da precedenti pronunce della Corte, non rilevando, peraltro, il profilo applicativo di fatto, che è rimesso al giudice nazionale). Ed anche la Corte costituzionale (sentenza n. 28 del 2010, in motivazione al p. 6) ha ritenuto che sia da escludere il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea, non «necessario quando il significato
della norma comunitaria sia evidente, anche per essere stato chiarito dalla giurisprudenza della Corte di giustizia».
Come ricorda da ultimo Cass. Sez. 1, Ord. interloc. 30/12/2024, n. 34898, la Corte di giustizia (C. giust., 06/10/2021, C-561/19), dopo aver rimarcato che il rinvio pregiudiziale costituisce la chiave di volta del sistema giurisdizionale istituito dai trattati, ha ribadito e sviluppato i criteri (già espressi nella sentenza Cilfit) al ricorrere dei quali viene meno l’obbligo dei giudici di ultima istanza di rivolgersi alla Corte in presenza di questioni di interpretazione del diritto eurounitario. Si tratta, oltre ai casi di irrilevanza della questione, dell’ acte éclairé , ovverosia quando la questione sia materialmente identica ad altra già decisa o vi sia una giurisprudenza consolidata della Corte sul punto, e dell’ acte clair , quando l’interpretazione del diritto dell’Unione si imponga con evidenza tale da non dare adito a ragionevoli dubbi. Per la Corte di giustizia l’iniziativa delle parti nel giudizio di ultima istanza non può privare il giudice della propria indipendenza nel vagliare se ricorra una delle ipotesi di cui alla sentenza Cilfit, obbligandolo così a presentare un rinvio pregiudiziale.
Tornando alla fattispecie concreta in esame, ritiene il Collegio che non vi sia necessità di disporre il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia in quanto, per la consolidata giurisprudenza di legittimità (della quale si è dato conto nelle pagini precedenti), le sanzioni amministrative pecuniarie applicate dalla RAGIONE_SOCIALE per violazione in materia di offerta al pubblico di titoli ex art. 94 TUF, non sono sanzioni amministrative di carattere punitivo, non pongono un problema di compatibilità con le garanzie riservate ai processi penali dall’art. 6 CEDU (secondo l’interpretazione della sentenza della Corte EDU del 04/03/2014, RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE c. Italia), nel senso che non sono equiparabili, per tipologia, severità, incidenza patrimoniale e personale, alle sanzioni RAGIONE_SOCIALE relative all’abuso di informazioni
privilegiate (Cass. nn. 12031/2022, 4524/2021) e alla manipolazione del mercato (Cass. nn. 17209/2020, 24850/2019), entrambe ritenute sostanzialmente penali;
in conclusione, il ricorso deve essere rigettato;
 le  spese  del  giudizio  di  cassazione,  liquidate  in  dispositivo, seguono la soccombenza;
23 . ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115/2002, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis del citato art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in euro 8.000,00, a titolo di compenso, più euro 200,00, per esborsi, oltre alle spese generali e agli accessori di legge.
Ai  sensi  dell’art.  13,  comma  1 -quater ,  del  d.P.R.  n.  115/2002, dichiara  che  sussistono  i  presupposti  processuali  per  il  versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis del citato art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione