Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 21220 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 21220 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 24/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 1850/2019 R.G. proposto da :
COGNOME , elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati COGNOME (CODICE_FISCALE, COGNOME (CODICE_FISCALE);
-ricorrente-
contro
CO MMISSIONE NAZIONALE RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME NOME COGNOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati COGNOME (CODICE_FISCALE, COGNOME NOME (CODICE_FISCALE);
-controricorrente-
avverso la sentenza della CORTE D’APPELLO di VENEZIA n. 76/2018 depositata il 05/06/2018.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 13/02/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con delibera n. 19933/2017, la Consob applicò a NOME COGNOME componente del Consiglio di Amministrazione della Banca popolare di Vicenza (BPVi), in carica dal 25.4.2009, la sanzione pecuniaria di euro 10.000,00 per l’effetto del cumulo giuridico tra la sanzione prevista per il prospetto 2015, pari ad euro 7.500,00 e quella prevista per il prospetto 2014, pari ad euro 5.000,00 sulla base delle contestazioni per violazione dell’art. 94, comma 2, del d.lgs. n. 58 del 1998 in relazione al periodo 9.5.2014 (data in cui il documento di registrazione 2014 fu incorporato mediante riferimento nel prospetto base 2014 attraverso la pubblicazione del secondo supplemento) e 31.7.2015 (data in cui fu chiusa l’ultima offerta priva di diritto di revoca in capo all’investitore).
Le sanzioni furono originate dalla contestazione mossa dalla Consob al ricorrente che, nella sua qualità di componente del CDA, omise di riportare nei Prospetti di base 2014 e 2105 le informazioni relative alla sussistenza, all’entità e agli effetti del ‘capitale finanziato’ vale a dire de i finanziamenti erogati dalla stessa banca alla clientela nel periodo 1.1.2012-28.2.2015 per la sottoscrizione o per l’acquisto delle azioni BPVi.
Si appurò in particolare che tra il 2014 ed il 2015, la Banca Popolare di Vicenza, intendendo effettuare un’offerta al pubblico di strumenti finanziari (obbligazioni), predispose, ai sensi dall’ articolo 94 TUF, i relativi Prospetti di Base, rispettivamente pubblicati il 7.2.14
(PB 2014) e il 5.2.15 (PB 2015); in tali Prospetti di Base vennero rispettivamente incorporati, mediante supplemento, il Documento di Registrazione pubblicato il 9.5.14 (DR 2014, approvato dalla Consob l’8.5.14) e il Documento di Registrazione pubblicato l’8.5.2015 (DR 2015, approvato dalla Consob il 7.5.15).
In particolare, nell’ambito dell’aumento di capitale deliberato in data 16.4.2013 per un importo fino a un massimo di 100 euro/mln, volto all’ampliamento della base sociale, la Banca aveva previsto l’erogazione di finanziamenti per l’acquisto di azioni proprie ai sensi dell’art. 2358 c.c., entro il limite dell’importo necessario per la sottoscrizione di 100 azioni, da parte di soggetti privi della qualità di socio.
La possibilità di finanziamento da parte della banca non era, invece, prevista per l’aumento di capitale destinato ai titolari di diritto di opzione o al pubblico indistinto per un importo complessivo massimo di 253 euro/mln deliberato dal CdA in data 28.5.2013.
L’autorità di vigilanza, quindi, sulla premessa che l’offerta al pubblico di strumenti finanziari deve essere preceduta, ai sensi dell’art. 94 t.u.f. dalla pubblicazione di un adeguato prospetto informativo, che il ricorrente, nella sua qualità di componente del Cda, dovesse essere edotto del fenomeno di finanziamenti correlati all’acquisto di azioni donde la sua responsabilità. Ciò in quanto le informazioni omesse nei DR 2014 e 2105 erano indispensabili per la formazione di un fondato giudizio di investimento da parte dei risparmiatori, in ragione di significative ricadute che il capitale finanziato aveva sull’effettiva situazione patrimoniale e finanziaria dell’emittente sui risultati economici, sulle prospettive della stessa e sui prodotti offerti.
2.La Corte d’Appello di Venezia con la sentenza qui impugnata ha rigettato l’opposizione proposta dall’opponente, con condanna al
rimborso delle spese di lite. Disattese le questioni preliminari relative alla pretesa decadenza dal potere sanzionatorio per il decorso del termine di cui all’art. 195 co. 1 t.u.f. e per il superamento del termine ragionevole di definizione del procedimento sanzionatorio, il giudice di merito ha escluso che le modifiche alla parte V del d.lgs. n. 58/1998 possano applicarsi alle violazioni commesse prima dell’entrata in vigore delle disposizioni di attuazione adottate dalla Consob e dalla Banca d’Italia in forza del contenuto testuale dell’art. 6 del d.lgs. n. 72 del 2015 , escludendo al contempo che la predetta disposizione presenti i profili di incostituzionalità denunziati dal ricorrente.
Si è osservato come ‘nonostante la legge delega prevedesse la possibilità di valutare se estendere il favor rei ai casi di modifica della disciplina vigente al momento in cui è stata commessa la violazione, dalla relazione illustrativa risulta con chiarezza l’esclusione di tale opzione, innanzi tutto perché detto principio non è mai stato introdotto nella legge 24.11.1981 n. 689, che rappresenta l’architrave delle sanzioni amministrative e che invece accoglie il principio di legalità solo nell’accezione del principio di irretroattività della legge ‘.
È stata esclusa, al contempo, l’applicabilità alla fattispecie dell’art. 194-bis t.u.f. stante il disposto dell’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72 del 2015.
Sono state respinte inoltre tutte le istanze istruttorie formulate, tra cui quella relativa alla invalidità del procedimento per grave limitazione posta all’attività difensiva in ordine alla compressione del diritto di accesso alle prove raccolte dall’autorità di vigilanza e, quanto a quella di audizione del ricorrente, è stata respinta per insanabile genericità della sua formulazione non essendo state indicate circostanze specifiche, è stata altresì osservato che gli atti in lingua inglese utilizzati erano indirizzati alla banca e che erano stati compresi tanto dall’essere stato oggetto di specifici rilievi . Quindi,
riassunte le vicende del gruppo Banca Popolare di Vicenza, con il richiamo ai vari aumenti di capitale deliberati nel 2014, la Corte d’appello di Venezia ha ritenuto sussistenti tutte le violazioni oggetto di contestazione, alla luce del complesso materiale istruttorio raccolto dalla Consob nella fase ispettiva. Quanto all’elemento soggettivo delle violazioni, la pronuncia ha dato atto che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 109 del 2017, aveva ribadito la riconducibilità al principio di legalità formale di tutte le misure a carattere punitivo-afflittivo, pur avendo parimenti escluso che all’illecito amministrativo potessero essere applicati i presidi che la Costituzione italiana assicura alle sanzioni (formalmente) penali. Da punto di vista fattuale, inoltre, ha rilevato che sino al 12.02.2015 all’interno del CDA non erano state ripartite deleghe operative, così che tutti i consiglieri erano onerati di verificare che la società fosse munita di un governo efficace dei rischi, esercitando una funzione dialettica e di monitoraggio sulle scelte compiute dagli organi esecutivi. Né poteva invocarsi la buona fede sottolineando la pretesa esistenza di un disegno da parte dei vertici societari volto ad occultare le numerose irregolarità operative poi riscontrate in sede ispettiva, ciò avuto riguardo al livello di diligenza richiesto ai componenti del CdA, designati sulla base di elevati e specifici requisiti previsti dall’art. 13 t.u.f.
Si è così affermato che nella specie sussisteva la violazione del dovere di informarsi, anche tramite interlocuzione con le strutture interne della società, onde poter poi richiamare l’attenzione dell’organo amministrativo circa il rispetto delle regole che governano la corretta esecuzione dei servizi di investimento.
Si è inoltre statuito che con la riforma del diritto societario è stato espressamente sancito dall’art. 2381, comma 6, c.c. l’obbligo di agire informati in capo agli amministratori privi di deleghe, ‘ mal'(in) adempimento viene commisurato alla effettiva possibilità da parte di
costoro di ottenere le necessarie informazioni, pur in presenza di segnali di allarme ‘.
Attraverso poi un’analisi della normativa rilevante sul punto nonché della giurisprudenza di legittimità, si è poi escluso che il ruolo degli amministratori deleganti potesse relegarsi a quello di meri destinatari passivi delle informazioni provenienti da strutture interne, obliterando in tal modo il ruolo attivo degli amministratori non esecutivi di una banca nell’acquisizione di informazioni sulla gestione aziendale dei numerosi organi interni in essa esistenti.
Si è chiarito quindi che nelle sedute del CdA del 28.4.2015 e del 15.5.2015, tenutesi nel pieno svolgimento delle indagini della BCE nel febbraio 2015 e conclusesi il 3 luglio del medesimo anno, il fenomeno capitale finanziato fosse sottoposto in maniera esplicita dalla Funzione Internal Audit all’attenzione del CdA.
Si è concluso che dalla delibera adottata il 15.5.2015 era emersa ‘nitidamente’ la prova della conoscenza in capo al ricorrente e agli altri componenti del CdA dell’esistenza e della rilevante entità del fenomeno del capitale finanziato che aveva interessato gli acquisti in contropartita diretta sul mercato secondario così come, dalla difesa del ricorrente, erano emerse significative anomalie che dimostravano ‘la conoscenza o la conoscibilità in capo all’opponente del fenomeno del capitale finanziato’ (tra le altre, le dichiarazioni rese dal socio COGNOME nel corso dell’assemblea del 26.4.2014 nonché quelle rese dal Consigliere COGNOME).
Si è escluso che l’art. 191, comma 2, TUF dovesse interpretarsi nel senso di prevedere la punibilità della condotta solo a titolo di dolo in considerazione del principio affermato dall’art. 3 della l. n. 689 del 1981; si è esclusa la possibilità di estendere all’illecito amministrativo la presunzione stabilita dall’art. 27 Cost. nonché la sussistenza dell’esimente della buona fede, non essendovi la prova di manovre
poste in essere dagli esponenti aziendali miranti a occultare il fenomeno del capitale finanziato.
Infine, si è esclusa l’applicabilità dell’art. 8 -bis della l. n. 689 del 1981 essendo indimostrata l’esistenza di un disegno unitario .
Avverso la prefata decisione ricorre NOME COGNOME con 14 motivi. La Consob resiste con controricorso.
In prossimità dell’udienza le parti hanno depositato memorie ex art. 380-bis c.p.c.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1 .Con il primo motivo il ricorrente denuncia il difetto di giurisdizione del GO per incongrua lettura del dato normativo attributivo della potestas iudicandi e comunque in subordine l’incostituzionalità dell’art. 195 commi 4-8 t.u.f., nella parte in cui attribuisce al GO la giurisdizione sulle opposizioni alle sanzioni amministrative con violazione del principio del giusto processo di cui agli artt. 111 e 113 Cost., nonché dell’art. 47 par. 1della Carta Europea dei diritti fondamentali (CDFUE) e dell’art. 6 CEDU.
Sostiene il ricorrente che sin dall’atto di opposizione era stato sottolineato come il procedimento di opposizione di cui all’art. 195, nel porre limiti all’introduzione di eventuali ulteriori domande, anche di carattere risarcitorio, non garantisce la piena ed effettiva tutela prevista dalle norme costituzionali e da quelle di carattere internazionale. Infatti, la limitazione dell’oggetto della cognizione alla sola contestazione della legittimità dell’atto sanzionatorio preclude la cumulabilità anche della domanda risarcitoria.
Parimenti nella prospettazione del ricorrente si palesa l’illegittimità della previsione in rapporto ad altri procedimenti sanzionatori per i quali l’opposizione è invece riservata dalla legge alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
1.2 . Il motivo è manifestamente infondato.
In linea con la consueta giurisprudenza della Corte (tra le altre, Sez. 2, n. 1740/2022; Cass. n. 1760/2022) relativa al giudizio di opposizione avverso altre delibere sanzionatorie adottate dalla Consob nei confronti degli organi di vertice della BPVi, vanno riaffermati i seguenti principi, calibrati in relazione alla fattispecie concreta in esame: (a) l’opposizione all’ordinanza -ingiunzione proposta dinanzi alla Corte di appello non configura un’impugnazione dell’atto ma introduce, piuttosto, un ordinario giudizio sul fondamento della pretesa dell’autorità amministrativa, devolvendo al giudice adito la piena cognizione circa la legittimità e la fondatezza del provvedimento sanzionatorio (Cass. n. 13150 del 2020); (b) dato l’oggetto limitato del procedimento, si realizza un sacrificio al principio di economia processuale che trova una giustificazione nella peculiare natura del giudizio di opposizione (nella specie devoluto alla cognizione in unico grado di merito della Corte di appello), sicché è proprio l’esigenza di tutela del principio del doppio grado di merito (sebbene non costituzionalizzato) per le diverse pretese scaturenti dal giudizio di opposizione che impone, in assenza di una pari previsione derogatoria da parte del legislatore, la non cumulabilità di altre diverse domande nel medesimo giudizio di opposizione. Si tratta in ogni caso di scelta rimessa alla discrezionalità del legislatore e che non determina una violazione irreparabile del diritto di difesa, stante appunto la possibilità di poter autonomamente proporre domanda per la tutela delle situazioni connesse alla vicenda sanzionatoria; (c) quanto alla giurisdizione del GO, la corretta lettura degli effetti della sentenza della Corte costituzionale n. 162 del 2012 è nel senso che, come ripetutamente affermato dalla S.C., la competenza giurisdizionale a conoscere delle opposizioni avverso le sanzioni inflitte dalla Consob spetta all’autorità giudiziaria ordinaria. Tale soluzione è stata ribadita da Cass., Sez. U. n. 4362/2021, che ha
affermato che le controversie relative all’applicazione delle sanzioni amministrativi irrogate dalla Banca d’Italia ex artt. 145 d.lgs. n. 385 del 1993, per violazioni commesse nell’esercizio dell’attività bancaria sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario, la cui cognizione si estende agli atti amministrativi e regolamentari presupposti che hanno condotto all’emissione del provvedimento finale, con una motivazione che, sebbene espressamente riferita alle sanzioni della Banca d’Italia, si presta adeguatamente a sorreggere identica conclusione anche per le sanzioni Consob (per le sanzioni Consob e nel medesimo senso si veda anche Cass., Sez. Un. n. 25476/2021); (d) la materia sanzionatoria può essere sottoposta alla giurisdizione del giudice amministrativo, come eccezione alla regola generale, solo in presenza di un’apposita disposizione di legge, costituendo i provvedimenti sanzionatori la reazione a comportamenti del privato assunti come illegittimi, in relazione ai quali non si pone la difficoltà alla base della previsione della giurisdizione esclusiva – di distinguere gli aspetti concernenti diritti soggettivi da quelli riguardanti interessi legittimi, poiché la situazione giuridica di chi deduce di essere stato sottoposto a sanzione in casi e nei modi non stabiliti dalla legge, ha consistenza di diritto soggettivo perfetto (Cass. Sez. Un., n. 18040/2008). Una questione di costituzionalità sotto questo profilo, pertanto, può al più porsi in senso inverso, sulla legittimità dell’attribuzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle suddette controversie. La Corte costituzionale ha ritenuto inammissibile, in più occasioni, una pronuncia additiva, come quella invocata nel caso in esame. Si è detto, infatti, che l’introduzione di un nuovo caso di giurisdizione esclusiva può essere effettuata solo da una legge, come prescrive l’art. 103, primo comma, Cost., e nel rispetto dei principi e dei limiti fissati dalla sentenza n. 204 del 2004, pertanto risulta inammissibile il petitum posto dal giudice rimettente,
che si risolve nella richiesta di introdurre, con una sentenza additiva, un nuovo caso, che può invece essere frutto di una scelta legislativa non costituzionalmente obbligata (Corte costituzionale, sentenza n. 259 del 2009); (e) nella specie, la questione di costituzionalità posta dal ricorrente va disattesa in quanto dichiaratamente volta ad ottenere una (non consentita, per le ragioni sopra evidenziate) pronuncia additiva, che estenda le ipotesi di giurisdizione esclusiva, sino a ricomprendervi la cognizione delle controversie relative ai provvedimenti sanzionatori emessi dalla Consob.
2 . Con il secondo motivo si denuncia la violazione del contraddittorio, violazione del diritto di difesa per illegittima compressione del contraddittorio anche ai sensi dell’art. 24 co. 2 e 11 Cost., dell’art. 6 CEDU e dell’art. 47, par.1 (2), della Carta dei diritti fondamentali UE, in relazione all’art. 360, n. 4 c.p.c.
NOME COGNOME evidenzia di avere presentato, in via telematica ed in vista dell’udienza del 8.5.2018, una nota scritta rappresentando la necessità di poter disporre di un termine ulteriore per esercitare il proprio diritto di replica nonché per il deposito di documentazione di supporto ma la Corte d’appello avrebbe disatteso l’istanza senza giustificazione alcuna. Ciò avrebbe comportato la lesione del diritto di difesa per il tramite della lesione del diritto di replica.
Ad avviso del ricorrente il diniego di un termine per la replica sostanzierebbe una palese lesione del diritto di difesa garantito sia dalla Carta fondamentale sia dal diritto UE. La tutela del contraddittorio avrebbe dovuto implicare che alla parte, a cui sia stato contrapposto un nuovo atto, fosse data la possibilità di controdedurre, avvalendosi di mezzo – lo scritto – che non poteva certo essere ricondotto alle note d’udienza.
2.1 . Il motivo è privo di pregio.
In primo luogo la doglianza difetta evidentemente di specificità, nella parte in cui genericamente si duole di una lesione del diritto al contraddittorio, senza però esplicare quali specifiche prerogative difensive siano state compromesse dalla mancata concessione del rinvio dell’udienza, non avendo in questa sede individuato quali argomenti o deduzioni non siano stati tempestivamente sottoposti all’attenzione del giudice di merito e che non fossero già stati sviluppati nelle note difensive di udienza, che sebbene non previste dalla legge, sono state nondimeno ritenute ammissibili dalla Corte d’Appello. Inoltre, non va trascurato che la costituzione della Consob è avvenuta nel rispetto del termine predeterminato dal legislatore per la costituzione, che nella valutazione del legislatore è stato reputato idoneo ad assicurare un adeguato esercizio del diritto di difesa in capo all’opponente. Infatti, va ribadito che dalla disposizione di cui all’art. 127 c.p.c. – che riguarda i poteri discrezionali del giudice nella direzione dell’udienza – non deriva l’obbligo del giudice stesso di accogliere una richiesta di rinvio congiuntamente formulata da entrambe le parti (Cass. n. 2008 del 2001; Cass. n. 285 del 1986).
Con il terzo motivo si denuncia la falsa applicazione dell’art. 195, comma 1, TUF in relazione all’art. 360, n. 3 c.p.c. nella parte in cui la Corte d’appello ha operato una valutazione della complessità dell’accertamento avulsa dal caso concreto, contrariamente alle indicazioni della giurisprudenza di legittimità; si denuncia altresì l’omesso esame di fatto decisivo nella parte in cui la Corte d’appello ha giustificato la protrazione dei tempi di accertamento senza considerare che il documento dalla stessa ritenuto decisivo, il verbale del CdA del 28.4.2015, era stato acquisito già in data 30.6.2015 ed altresì omettendo di verificare in concreto la sussistenza della presunta complessità dello stesso.
In giurisprudenza è consolidato il principio per cui, in tema di sanzioni amministrative previste per la violazione delle norme che disciplinano l’attività di intermediazione finanziaria, il momento dell’accertamento, dal quale decorre il termine di decadenza per la contestazione degli illeciti da parte della Consob, va individuato in quello in cui la constatazione si è tradotta, o si sarebbe potuta tradurre, in accertamento, dovendosi a tal fine tener conto, oltre che della complessità della materia, delle particolarità del caso concreto anche con riferimento al contenuto ed alle date delle operazioni (Cass. 3 maggio 2016 n. 8687). La ricostruzione e la valutazione delle circostanze di fatto inerenti ai tempi occorrenti per la contestazione rispetto all’acquisizione informativa, e in particolare la stima della congruità del tempo utilizzato in relazione alla maggiore o minore difficoltà del caso, sono, poi, elementi rimessi al giudice del merito, il cui apprezzamento è incensurabile in sede di legittimità, se non limitatamente al vizio motivazionale ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (nei ridotti limiti in cui il relativo scrutinio è oggi ammesso: cfr. Cass., Sez. Un., n. 8053/2014 cit.). Precisamente, in relazione al sindacato sulla tempistica degli atti di indagine, questa Corte ha affermato: (a) che il giudice deve limitarsi a rilevare se vi sia stata un’ingiustificata e protratta inerzia durante o dopo la raccolta dei dati di indagine, tenuto anche conto che ragioni di economia possono indurre a raccogliere ulteriori elementi atti a dimostrare la sussistenza, accanto a violazioni già risultanti dagli atti raccolti, di altre violazioni amministrative, al fine di emettere un unico provvedimento sanzionatorio; (b) che la valutazione della superfluità degli atti di indagine va effettuata con un giudizio ex ante (e in tal senso il giudice deve rilevare l’evidente superfluità, per essere manifestamente già accertati tempi, entità e altre modalità delle violazioni, senza omettere di considerare anche la possibile
connessione con altre violazioni ancora da accertare), essendo irrilevante che indagini potenzialmente fruttuose in via prognostica si rivelino, ex post, inutili (Cass. 30 ottobre 2017 n. 25730; Cass. 16 aprile 2018 n. 9261).
Orbene, la Corte territoriale, facendo puntuale applicazione dei suesposti principi, ha dato, con giudizio ad essa riservato, ampiamente conto delle ragioni che l’hanno portata a ritenere tempestiva la contestazione – avvenuta il 4 aprile 2016 – delle violazioni in questione al Zuccato.
Inoltre, in relazione all’omesso esame di un fatto decisivo, il ricorrente indica come fatto di cui sarebbe stata omessa la disamina l’insussistenza di una connessione interna tra i vari illeciti contestati, ma risulta evidente che in tal modo individui come fatto quello che è invece la risultanza di un giudizio, il che denota l’inammissibilità della censura in parte qua.
4 . Con il quarto motivo si denuncia la violazione dell’art. 19, comma 3, della l. n. 689/1981, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c. nella parte in cui la Corte d’appello ha negato la decadenza del potere punitivo per superamento del termine di conclusione del procedimento sanzionatorio opinando l’inconferenza della norma rispetto all’ambito delle sanzioni amministrative.
4.1. il motivo è infondato.
Non coglie, infatti, nel segno la difesa della parte ricorrente, là dove invoca il termine dell’art. 19, comma 3 legge n. 689 del 1981: si tratta di termine che attiene specificamente al tempo massimo di efficacia della misura ablatoria del sequestro amministrativo e, dunque, norma specialissima che non può essere applicata a fattispecie diversa da quella contemplata. L’art. 19 citato viene quindi in considerazione nella sola evenienza che l’opposizione avverso il provvedimento di sequestro sia stata respinta e che l’amministrazione
non abbia disposto la confisca o emesso ordinanza-ingiunzione di pagamento della sanzione pecuniaria, senza contemplare un termine suscettibile di generalizzata applicazione, tanto più che un termine generale imposto a pena di inefficacia della sanzione è appositamente previsto dal precedente articolo 14, applicabile anche ai procedimenti relativi alle sanzioni previste dal d.lgs. n. 58 del 1998 (Cass. nn. 18031/2022, 1770/2022, 1740/2022, cit., 19512/2020, 8326/2018, 21706/2018, 6965/2018).
5 . Con il quinto motivo si denuncia la violazione dell’art. 5 del d.lgs. n. 72 del 2015, come interpretato alla luce dell’art. 7 CEDU, dell’art. 49, par. 1, e art. 52, part. 5 della Carta dei diritti fondamentali UE, in relazione all’art. 360, n. 3 c.p.c. nella parte in cui la Corte d’appello ha ritenuto non fondata la già prospettata questione di illegittimità costituzionale dell’art. 6 del d.lgs. n. 72 del 2015 e dell’ivi contenuta previsione che esclude la retroattività della disciplina più favorevole a illeciti compiuti anteriormente alla sua entrata in vigore.
Si evidenza che il ricorrente aveva sottolineato come a seguito della novella del 2015 fosse tendenzialmente esclusa la punibilità in via amministrativa delle persone fisiche, essendo la società il soggetto passivo della pretesa punitiva (fatte salve alcune specifiche ipotesi derogatore). Si assume che in tal modo sarebbe intervenuta una norma più favorevole che, in virtù del principio della lex mitior avrebbe dovuto trovare immediata applicazione. Stante il carattere afflittivo, e quindi sostanzialmente penale delle sanzioni oggetto di causa, la norma de qua dovrebbe quindi trovare immediata applicazione, essendo quindi illegittima la diversa soluzione del giudice di merito che ha richiamato i precedenti che negano l’immediata applicazione del principio invocato alle sanzioni di carattere amministrativo.
5.1. Il motivo è infondato. In primo luogo, in relazione alla censura in esame, deve affermarsi che, diversamente da quanto rimarcato dal ricorrente nella premessa all’esposizione dei vizi formali di cui sarebbe affetta la decisione gravata, deve escludersi per le sanzioni oggetto di causa la loro natura sostanzialmente penale.
Sicché è conforme a diritto la statuizione del giudice di merito secondo cui le sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dalla Consob, diverse da quelle per manipolazione del mercato ai sensi dell’art. 187 -ter TUF, non hanno natura penale, con la conseguenza che, in relazione alle prime (tra le quali rientra la sanzione oggetto di questo giudizio), non trovano applicazione le modifiche alla parte V del d.lgs. n. 58 del 1998 per le violazioni commesse prima dell’entrata in vigore delle disposizioni di attuazione adottate dalla Consob e dalla Banca d’Italia, poiché così è disposto dall’art. 6 del citato d.lgs. n. 72 del 2015 che non dà luogo a dubbi di legittimità.
Tale statuizione è in linea con l’interpretazione della S.C. (Sez. 2, Sentenza n. 20689 del 09/08/2018, Rv. 650004 – 03), secondo cui, in materia di intermediazione finanziaria, le modifiche alla parte V del d.lgs. n. 58 del 1998 apportate dal d.lgs. n. 72 del 2015 si applicano alle violazioni commesse dopo l’entrata in vigore delle disposizioni di attuazione adottate dalla Consob, in tal senso disponendo l’art. 6 del medesimo decreto legislativo, e non è possibile ritenere l’applicazione immediata della legge più favorevole, atteso che il principio del ‘ favor rei ‘, di matrice penalistica, non si estende, in assenza di una specifica disposizione normativa, alla materia delle sanzioni amministrative, che risponde, invece, al distinto principio del ‘ tempus regit actum ‘. Né tale impostazione viola i principi convenzionali enunciati dalla Corte EDU nella sentenza 4 marzo 2014 ( COGNOME ed altri c/o Italia ), secondo la quale l’avvio di un procedimento penale a seguito delle sanzioni amministrative inflitte dalla Consob sui medesimi fatti
violerebbe il principio del ‘ ne bis in idem ‘, atteso che tali principi vanno considerati nell’ottica del giusto processo, che costituisce l’ambito di specifico intervento della Corte, ma non possono portare a ritenere sempre sostanzialmente penale una disposizione qualificata come amministrativa dal diritto interno, con conseguente irrilevanza di un’eventuale questione di costituzionalità ai sensi dell’art. 117 Cost.
Trattasi di principio già affermato in precedenza (cfr. Cass. n. 8855 del 2017; Cass. n. 1621 del 2018;) e confermato anche dalla successiva giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. n. 4 del 2019; Cass. n. 5 del 2019; Cass. n. 31632 del 2019 Cass. n. 15685 del 2024; in argomento altresì Cass. n. 27833 del 2023, Cass. n. 30046 del 2024).
6 . Con il sesto motivo si denuncia la ‘violazione dell’art. 6 CEDU, dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali UE, dell’art. 15 della l. n. 689/1981, dell’art. 195, comma 7, TUF, in relazione all’art. 360, n. 4 c.p.c., per aver la Corte negato la pur patente violazione del contraddittorio insita nelle limitazioni imposte all’accesso agli atti da parte del ricorrente.’
Si censura la decisione nella parte in cui la Corte d’appello ha respinto il rilievo affermando che la mancata globale ostensione dei documenti è stata legittimata dalla irrilevanza di quelli che non hanno formato oggetto di esame da parte della Divisione competente allorché sono stati formulati gli addebiti.
Il giudice di merito sarebbe andato in ‘frontale collisione con i principi del giusto procedimento’ effettuando una ostensione selettiva dei documenti.
6.1 . Il motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.
In primo luogo, il motivo si palesa inammissibile in quanto risulta del tutto generica l’allegazione circa la lesione del principio del
contraddittorio, avendo questa Corte ribadito che per validamente allegare la violazione del contraddittorio occorre allegare e dimostrare una concreta ed effettiva lesione del diritto di difesa (Cass., Sez. Un., n. 20935 del 2009).
Trattasi di una ricaduta del principio secondo cui (Cass, n. 8046/2019) le garanzie del contraddittorio previste per il procedimento sanzionatorio davanti alla CONSOB prima delle modifiche introdotte dalla delibera n. 29158 del 29 maggio 2015 della medesima CONSOB sono da ricondurre al livello proprio del contraddittorio procedimentale, di solito di tipo verticale, svolgendosi esso tra l’amministrazione e l’interessato su un piano non di eguaglianza, ma in funzione collaborativa, partecipativa e non difensiva, non già di quello di matrice processuale, di tipo orizzontale, che riguarda due parti in posizione paritaria rispetto ad un decidente terzo e imparziale (nella specie, la S.C., dissentendo dall’interpretazione offerta dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 1596 del 2015, ha ritenuto che le menzionate garanzie fossero soddisfatte dalla previa contestazione dell’addebito e dalla valutazione, prima dell’adozione della sanzione, delle eventuali controdeduzioni dell’interessato, non essendo necessarie né la trasmissione a quest’ultimo delle conclusioni dell’Ufficio sanzioni amministrative della CONSOB né la sua personale audizione) (conf. Cass. n. 20689 del 2018). Infatti, è opinione consolidata quella secondo, cui, soprattutto in caso di sanzioni non penali dal punto di vista sostanziale, il procedimento sanzionatorio della Banca d’Italia, ai sensi dell’art. 195 TUF, non viola l’art. 6, par. 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, perché questo esige solo che, ove il procedimento amministrativo sanzionatorio non offra garanzie equiparabili a quelle del processo giurisdizionale, l’incolpato possa sottoporre la questione della fondatezza dell'”accusa penale” a un
organo indipendente e imparziale, dotato di piena giurisdizione, come la disciplina nazionale gli consente di fare tramite l’opposizione alla corte d’appello (Cass. n. 25141 del 2015, che richiama anche Corte europea dei diritti dell’uomo, 4 marzo 2014, COGNOME e altri c. Italia; Cass. n. 9371 del 2020; Cass. n. 16517 del 2020, per la quale è esclusa la diretta applicabilità, in tale ambito, dei precetti costituzionali degli artt. 24 e 111 Cost., invocabili solo con riferimento al processo che si svolge davanti al giudice, innanzi al quale l’incolpato può impugnare il provvedimento sanzionatorio con piena garanzia del diritto di difesa e del contraddittorio.
6.2 . Il motivo è, altresì, infondato alla luce della giurisprudenza di questa Corte, che ha chiarito che le garanzie del contraddittorio previste per il procedimento sanzionatorio davanti alla Consob prima delle modifiche introdotte dalla delibera n. 29158 del 29 maggio 2015 sono da ricondurre al livello proprio del contraddittorio procedimentale, di solito di tipo verticale, svolgendosi esso tra l’amministrazione e l’interessato su un piano non di eguaglianza, ma in funzione collaborativa, partecipativa e non difensiva, non già di quello di matrice processuale, di tipo orizzontale, che riguarda due parti in posizione paritaria rispetto ad un decidente terzo e imparziale. Ne consegue che non sussiste alcun contrasto con l’art. 24 Cost. e con i principi espressi dagli artt. 195 TUF e 24 della legge n. 262 del 2005 (Sez. 2, Sentenza n. 8046 del 21/03/2019, Rv. 653405 – 02).
Risulta poi del tutto inconferente rispetto alla fattispecie il richiamo alla previsione di cui all’art. 15 della legge n. 689/1981, essendosi nel caso in esame al cospetto di prove documentali, per le quali non è dato invocare la diversa previsione dettata in materia di accertamenti su campioni.
7 . Con il settimo motivo si denuncia la violazione dell’art. 244 c.p.c. e dell’art. 195, comma 7, TUF, in relazione all’art. 360, n. 4 c.p.c. nella parte in cui la Corte d’appello ha omesso l’audizione del ricorrente che ne aveva fatto espressa richiesta.
Palese sarebbe la violazione della norma citata come riformulata dopo la sentenza Grande Stevens.
7.1 . Il motivo è privo di pregio.
La doglianza, infatti, si fonda sulla pretesa di qualificare le sanzioni oggetto di causa quali penali in senso sostanziale, presupposto che appunto legittimerebbe l’efficacia modificativa della sentenza COGNOME sulla precedente interpretazione della norma.
Ma le superiori considerazioni in merito alla natura esclusivamente amministrativa delle sanzioni irrogate rendono evidente come venga in tal modo attinta in radice la fondatezza della censura. Occorre quindi dare continuità all’insegnamento di questa Corte secondo cui (Cass. n. 1065 del 2014) nel procedimento sanzionatorio di cui all’art. 195 del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, il diritto di difesa dell’incolpato è garantito dalla previsione di un congruo termine per il deposito di difese scritte, mentre la sua audizione personale non è un incombente imprescindibile, come risulta dal confronto con l’art. 196 dello stesso T.U.F., riguardante i promotori finanziari. Infatti, la previsione di cui all’art. 195 co. 7, prevede che all’udienza la corte d’appello dispone, anche d’ufficio, i mezzi di prova che ritiene necessari, nonché l’audizione personale delle parti che ne abbiano fatto richiesta, senza che però la formulazione lasci intendere l’esistenza di un diritto soggettivo all’audizione, trattandosi anche in tal caso, purché vi sia la richiesta dell’interessato, di un mezzo istruttorio rimesso alla valutazione di necessarietà del Giudice, occorrendo in ogni caso ancorare
l’ammissione delle prove alla valutazione di rilevanza ed ammissibilità dei singoli mezzi proposti dalla parte (così Cass. n. 16517 del 2020; da ultimo Cass. n. 1740/2022).
8 . Con l’ottavo motivo si censura la sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 2392 comma 1 c.c., nonché dell’art. 53, comma 1, TUB, e delle disposizioni regolamentari di attuazione adottate dalla banca d’Italia con le circolari n. 285 del 17.12.13 e n. 263 del 27.12.2006 nel testo applicabile all’epoca dei fatti in relazione all’art. 360, n. 3 c.p.c. per aver la sentenza impugnata ritenuto di poter formulare un giudizio d’imputazione di omissioni al ricorrente, pretermettendo la considerazione di quali sono a norma di legge e regolamento le effettive facoltà di controllo del Cda e dei suoi componenti sulla struttura aziendale di una Banca. Deduce il ricorrente che è stata affermata la sua responsabilità nella veste di componente del CdA, essendo venuto meno al dovere di agire informato ovvero di informarsi, trascurando la rigida compartimentazione delle attribuzioni all’interno delle aziende bancarie. Peraltro, sarebbero proprio le prescrizioni regolamentari adottate dalla Banca d’Italia che confermano come gli amministratori privi di delega non possano essere onerati del controllo sull’attività comportamentale delle strutture, essendo la trasmissione delle informazioni sempre veicolata dal Presidente del CdA.
8.1 . Il motivo, frammentato in diversi rilievi critici, è manifestamente infondato.
La decisione, che ha ravvisato specifici profili di responsabilità del ricorrente, nonostante il suo ruolo di componente del CdA privo di deleghe, collima con la giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 21502/2024; in termini, Cass. nn. 29963/2024, 8581/2024), che ha sottoposto a un’approfondita disamina le questioni di diritto in tema di sanzioni inflitte dalla Banca d’Italia ai componenti del CdA di un
ente creditizio per carenze nell’organizzazione e nei controlli interni. È stato osservato che «ai fini del contenimento del rischio creditizio nelle sue diverse configurazioni, nonché dell’organizzazione societaria e dei controlli interni, l’art. 53, lett. b) e d), del d.lgs. n. 385 del 1993 e le disposizioni attuative dettate con le istruzioni di vigilanza per le banche, mediante la circolare n. 229 del 1999 (e successive modificazioni e integrazioni), sanciscono doveri di particolare pregnanza in capo al consiglio di amministrazione delle società bancarie, che riguardano l’intero organo collegiale e, dunque, anche i consiglieri non esecutivi, i quali sono tenuti ad agire in modo informato e, in ragione dei loro requisiti di professionalità, ad ostacolare l’evento dannoso, sicché rispondono del mancato utile attivarsi», e si è chiarito che «in caso di irrogazione di sanzioni amministrative, la Banca d’Italia, anche in virtù della presunzione di colpa vigente in materia, ha unicamente l’onere di dimostrare l’esistenza dei segnali di allarme che avrebbero dovuto indurre gli amministratori non esecutivi, rimasti inerti, ad esigere un supplemento di informazioni o ad attivarsi in altro modo, mentre spetta a questi ultimi provare di avere tenuto la condotta attiva dovuta o, comunque, mirante a scongiurare il danno (Cass. n. 22848 del 2015; Cass. n. 19556 del 2020)». La Corte aggiunge che «l dovere di agire informati dei consiglieri non esecutivi delle società bancarie, sancito dagli artt. 2381, commi 3 e 6, e 2392 c.c., non va, del resto, rimesso, nella sua concreta operatività, alle segnalazioni provenienti dai rapporti degli amministratori delegati, giacché anche i primi devono possedere ed esprimere costante e adeguata conoscenza del business bancario e, essendo compartecipi delle decisioni di strategia gestionale assunte dall’intero consiglio, hanno l’obbligo di contribuire ad assicurare un governo efficace dei rischi di tutte le aree della banca e di attivarsi in modo da poter efficacemente
esercitare una funzione di monitoraggio sulle scelte compiute dagli organi esecutivi, non solo in vista della valutazione delle relazioni degli amministratori delegati, ma anche ai fini dell’esercizio dei poteri, spettanti al consiglio di amministrazione, di direttiva o avocazione concernenti operazioni rientranti nella delega. Questa interpretazione non vale ad accollare una responsabilità oggettiva agli amministratori non esecutivi, essendo gli stessi perseguibili ove ricorrano comunque sia la condotta d’inerzia, sia il fatto pregiudizievole antidoveroso, sia il nesso causale tra i medesimi, sia, appunto, la colpa, consistente nel non aver rilevato colposamente i segnali dell’altrui illecita gestione, pur percepibili con la diligenza della carica (anche indipendentemente dalle informazioni doverose ex art. 2381 c.c.), e nel non essersi utilmente attivati al fine di evitare l’evento. Sotto il profilo probatorio, ciò comporta che spetta al soggetto il quale afferma la responsabilità allegare e provare, a fronte dell’inerzia dei consiglieri non delegati, l’esistenza di segnali d’allarme (anche impliciti nelle anomale condotte gestorie) che avrebbero dovuto indurli ad esigere un supplemento di informazioni o ad attivarsi in altro modo (con la richiesta di convocazione del consiglio di amministrazione rivolta al presidente, il sollecito alla revoca della deliberazione illegittima o all’avocazione dei poteri, l’invio di richieste per iscritto all’organo delegato di desistere dall’attività dannosa, l’impugnazione delle deliberazione ex art. 2391 c.c., la segnalazione al p.m. o all’autorità di vigilanza, e così via); assolto tale onere, è, per contro, onere degli amministratori provare di avere tenuto la condotta attiva dovuta o la causa esterna, che abbia reso non percepibili quei segnali o impossibile qualsiasi condotta attiva mirante a scongiurare il danno».
In precedenza, era stato chiarito (Cass. n. 16517/2020) che «a tesi secondo cui la responsabilità dei consiglieri sarebbe predicabile solo se questi ultimi abbiano ricevuto informazioni in modo completo
ed esauriente sulle singole operazioni poste in essere dai titolari di deleghe operative, è già stata motivatamente respinta, in fattispecie analoghe, da questa Corte e non trova alcun sostegno nei precedenti richiamati in ricorso. Nello specifico settore delle attività bancarie o di intermediazione finanziaria, ai fini del contenimento del rischio creditizio nelle sue diverse configurazioni, nonché dell’organizzazione societaria e dei controlli interni, l’art. 53, lettere b) e d), d.lgs. 385/1993 e le disposizioni attuative dettate con le istruzioni di vigilanza per le banche, sanciscono doveri di particolare pregnanza in capo al Consiglio di amministrazione nel suo complesso e ai singoli consiglieri (anche se privi di deleghe operative). Questi ultimi sono sempre tenuti ad agire in modo informato e, in ragione dei requisiti di professionalità di cui sono e devono essere in possesso, ad impedire possibili violazioni. Tale dovere, sancito dall’art. 2381 c.c., commi terzo e sesto, e dall’ art. 2392 c.c., non va rimesso, nella sua concreta operatività, alle segnalazioni provenienti dai rapporti degli amministratori delegati, giacché anche i singoli consiglieri devono possedere e attivare una costante e adeguata conoscenza del business bancario e, essendo compartecipi delle decisioni di strategia gestionale assunte dall’intero Consiglio, hanno l’obbligo di contribuire ad assicurare un governo efficace dei rischi in tutti i settori di operatività della banca, oltre che ad attivarsi in modo da esercitare efficacemente la funzione di monitoraggio sulle scelte compiute, non solo in vista della valutazione delle relazioni degli amministratori delegati, ma anche ai fini dell’esercizio dei poteri di direttiva o avocazione riguardo alle attività rientranti nella delega (Cass. 2737/2013; Cass. 17799/2014; Cass. 18683/2014; Cass. 5606/2019; Cass. 24851/2019). L’àmbito entro il quale deve esprimersi la diligenza dei consiglieri non è mutato neppure a seguito della riforma del diritto societario adottata con d.lgs. 6/2006. L’art.
2381, comma sesto, c.c., nel testo in vigore, impone un dovere di agire in modo informato, disponendo infine che ‘ciascun amministratore può chiedere agli organi delegati che in consiglio siano fornite informazioni relative alla gestione della società’. Il comma terzo recita che il consiglio di amministrazione ‘può sempre impartire direttive agli organi delegati e avocare a sé operazioni rientranti nella delega’. Il comma secondo dell’art. 2392 c.c. continua a prevedere che gli amministratori ‘sono in ogni caso solidalmente responsabili se, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose’ (Cass. 24851/2019). Resta da confermare che la responsabilità degli amministratori privi di deleghe operative non discende da una generica condotta di omessa vigilanza, né implica l’imputazione della responsabilità a titolo oggettivo o per le condotte altrui, ma deriva dal fatto di non aver impedito ‘fatti pregiudizievoli’ dei quali abbiano acquisito (o avrebbero potuto acquisire) conoscenza anche di propria iniziativa, ai sensi dell’obbligo previsto dall’art. 2381 c.c. (Cass. n. 17441 del 2016; Cass. 2038/2018)».
Né d’altra parte è condivisibile la lettura delle circolari della Banca d’Italia prescelta dal ricorrente che condurrebbe all’esonero dalla responsabilità degli amministratori non esecutivi. A parte il fatto che le violazioni in esame attengono ai servizi di investimento, ai quali maggiormente si attagliano le previsioni del Regolamento congiunto Banca d’Italia/Consob del 29/10/2007, comunque, è indubitabile che la circolare n. 285 del 2013 non ha affatto travolto gli assetti ed i rapporti societari fissati da norme primarie, a cominciare dall’art. 2381 c.c. Milita in tal senso la circostanza che le disposizioni regolamentari sono volte a rafforzare proprio l’assetto configurato dal codice civile, con l’individuazione di regole più specifiche per il settore
bancario, e nel rispetto delle fonti di derivazione comunitaria (in particolare la direttiva 2013/36/UE), ma sempre in vista di un armonico coordinamento tra la disciplina societaria di carattere generale e quella settoriale bancaria, ed il tutto in correlazione con il regolamento (UE) n. 575/2013, con il quale va a comporre il quadro normativo di disciplina delle attività bancarie, il quadro di vigilanza e le norme prudenziali per gli enti creditizi e le imprese di investimento.
Le previsioni della circolare, sebbene richiamino l’esigenza di una chiara distinzione dei ruoli e delle responsabilità degli organi, aggiungendo che l’articolazione della struttura interna deve comunque assicurare l’efficacia dei controlli e l’adeguatezza dei flussi informativi, tuttavia non possono essere intese come un’autorizzazione alla preventiva deresponsabilizzazione dei componenti del CdA. Ove anche si riconosca che la circolare della Banca d’Italia, in vista del buon funzionamento delle imprese bancarie, abbia suggerito delle strutture rigide e chiaramente individuatrici delle competenze e delle funzioni, le sue disposizioni non possono certo avallare la conclusione, erronea, secondo cui non sarebbe esigibile, da parte degli amministratori non esecutivi, la verifica di ogni singolo atto di impresa, dovendosi, quanto agli indici di allarme, fare affidamento sulle rassicurazioni offerte dagli uffici interni deputati al controllo circa la correttezza delle azioni delle singole articolazioni societarie.
Con il nono motivo si denuncia la violazione dell’art. 191, comma 2, TUF, in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. nella parte in cui la Corte d’appello ha confermato la sanzione applicata al ricorrente a titolo di colpa là dove la fattispecie prevede la sanzionabilità solo a titolo di dolo.
Il ricorrente afferma di aver nel proprio ricorso in opposizione denunciato l’illegittimità della determinazione Consob per aver inteso
punirlo, quale amministratore privo di deleghe per una condotta che non può essere a lui riferita ostandovi una corretta esegesi della disposizione punitiva. La norma, nella prospettazione del ricorrente, punirebbe coloro che pubblicano prospetti non completi a titolo di dolo, stigmatizzandone il comportamento.
Il motivo è infondato.
Al contrario di quanto afferma il ricorrente, la sentenza ha correttamente rilevato che si è in presenza di un illecito amministrativo per il quale vale il principio generale, sancito dall’art. 3 della legge n. 689 del 1981, secondo cui la responsabilità della violazione amministrativa, posta in essere mediante condotta attiva od omissiva cosciente e volontaria, grava sull’autore della medesima, sia essa doloso o colposa.
10. Con la decima censura (rubricata come motivo n. 11) si denuncia la violazione del principio di immutabilità della sanzione in sede di suo controllo giurisdizionale, dell’art. 195, comma 7 bis TUF, nonché dell’art. 6, comma 12, del d.lgs. n. 150 del 2011 e dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. nella parte in cui la Corte d’appello ha confermato la sanzione irrogata ex art. 94, comma 2, del TUF per aver il ricorrente violazione la disposizione di cui all’art. 94 comma 7 Tuf, omesso esame di fatto decisivo in relazione alla violazione accertata.
Con la predetta doglianza il ricorrente si duole che la Corte d’appello abbia respinto l’opposizione ‘perché ritiene concretato un illecito pacificamente ed indiscutibilmente diverso da quello che è stato contestato dall’autorità amministrativa’.
In particolare, il ricorrente afferma che il giudice di merito nel confermare la sanzione irrogata avrebbe accertato un fatto diverso da quello oggetto della delibera attribuendo al ricorrente una responsabilità ex art. 94, comma 7 per non aver, alla pari degli altri
membri del CDA, provveduto, una volta venuto a conoscenza del capitale finanziato, a richiedere l’emissione di una integrazione al prospetto informativo laddove la condotta contestata era quella di cui all’art. 94, comma 2.
Il giudice inoltre non avrebbe considerato che la Consob era venuta a conoscenza delle notizie poste a fondamento dell’accertamento e avrebbe irrogato la sanzione per coprire una propria grave inerzia istituzionale.
10.1. Il motivo è infondato. Per quanto concerne il fatto omesso, più che un fatto è una mera illazione che comunque non risponde ai requisiti di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c. per cui sotto questo profilo il motivo è privo di pregio.
Sotto diverso profilo il motivo è infondato poiché la motivazione della decisione, in punto di responsabilità del ricorrente, è chiaramente contenuta non a pag. 58 ma nell’ampia ed analitica ricostruzione contenuta a pag. 56 ove si afferma che la condotta ascrivibile allo Zuccato è consistita non nell’omessa integrazione del prospetto ma nella omessa, necessaria, informazione nei DR 2014 e 2015.
Infatti si afferma testualmente ‘ Ricordato che la diligenza esigibile dall’opponente è ancorata agli elevati, peculiari requisiti di professionalità prescritti dall’art.13 t.u.f. e dal d.m. 11.11.1998 n. 468 del Ministero del Tesoro, occorre anzitutto muovere dal rilievo che dalla dichiarazione della Emittente circa l’assunzione della ‘responsabilità della veridicità e completezza dei dati e delle notizie contenuti nel presente Documento di Registrazione’, discende che della omissione nei DR 2014 e 2015 della necessaria informazione che avrebbe dovuto essere offerta agli investitori circa l’entità del ‘capitale finanziato’, la cui esistenza era nota all’opponente dal 28.4.2015 e certamente conoscibile per il periodo anteriore
decorrente dal 9.5.2014, questo è tenuto a rispondere, se solo si considera che i componenti del CdA avrebbe dovuto rappresentarsi, con l’impiego della elevata diligenza loro richiesta, i rilevanti effetti determinati dal ‘capitale finanziato’ sul patrimonio di vigilanza, posto che dalle verifiche ispettive svolte dalla BCE e dalla Funzione Internal Audit risulta che su un controvalore di 506 euro/mln di azioni distribuite nel corso dell’aumento di capitale del 2013 la Banca finanziò acquisiti o sottoscrizioni del complessivo, considerevole importo di 133 euro/mln , riferibile a ben 364 posizioni, e che nel corso dell’aumento di capitale del 2014 su un controvalore di azioni distribuite pari a 607,8 euro/mln l’Emittente finanziò acquisti o sottoscrizioni del valore complessivo di 114,7 euro/mln, riferibile a 192 posizioni (cfr. tabella alla pagina 304 della relazione ispettiva )’.
O, ancora più chiaramente, è stato affermato a pag. 56 ‘.. si consideri, altresì, che con le delibere del 1.4.2014 e del 31.3.2015 il CdA approvò i due Documenti di Registrazione, come risulta dall’istanza di approvazione del DR 2014 datata 16.4.2016 e dall’istanza di approvazione del DR 2015 e del 2° Supplemento al PB 2015 datata 21.4.2015 (cfr. la pagina 7 dell’atto di accertamento). Ne discende che la responsabilità, a titolo di colpa, per le violazioni concernenti l’omissione di tali informazioni nella documentazione d’offerta riguarda tutti i componenti del CdA, trattandosi di irregolarità compiute nell’esecuzione di attribuzioni proprie degli stessi, con riferimento tanto alle deliberazioni relative all’emissione dei prodotti finanziari quanto alla direzione dei connessi adempimenti’.
La censura, pertanto, è destituita di fondamento.
Con la undicesima censura ( in rubrica motivo n. 12) si denuncia la violazione dell’art. 2729 c.c. in relazione all’art. 360, n. 3 c.p.c. nella parte in cui la sentenza ha fondato l’accertamento della
negligenza del ricorrente su una pretesa esistenza di indici sintomatici del fenomeno nei finanziamenti correlati, pur taciuto dal CdA, omesso esame di un fatto decisivo, idoneo a demolire la coerenza logica dell’argomentazione fatta propria dalla Corte d’appello nel valorizzare i predetti indici sintomatici.
Il giudice di merito sarebbe incorso nella violazione di norme in materia di presunzione per ciò che attiene alla ritenuta impossibilità di escludere la colpa, sulla base della asserzione di Consob della percepibilità di una serie di elementi sintomatici e significativi tali da innescare il dovere d’attivazione di ogni singolo consigliere, tra cui l’opponente.
Il giudice di merito nel violare la predetta disposizione avrebbe quindi omesso di ‘considerare l’astratta riconducibilità ad unità dei singoli elementi indicati da Consob’ affidandosi all’esame delle singole posizioni.
Il motivo è inammissibile.
Non sussiste il vizio di violazione di legge, che consiste nella deduzione di una erronea ricognizione da parte del provvedimento impugnato della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; non sussiste neppure il vizio di falsa applicazione di legge, che consiste o nell’assumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che non le si addice, perché la fattispecie astratta da essa prevista -pur rettamente individuata e interpretata- non è idonea a regolarla, o nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che contraddicano la corretta interpretazione; invece non rientra nell’ambito applicativo dell’art. 360 co.1 n.3 cod. proc. civ. l’allegazione di una erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, che è esterna all’esatta interpretazione della disposizione e inerisce alla tipica valutazione del
giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità (Cass. Sez. 1 14-1-2019 n. 640 Rv. 652398-01, Rv. 652398-01, Cass. Sez. 1 1310-2017 n. 24155 Rv. 645538-03, Cass. Sez. L. 11-1-2016 n. 195 Rv. 638425-01).
Nulla di tutto ciò si è verificato nella specie.
Il giudice di merito ha, infatti, ritenuto fondata la contestazione alla luce delle specifiche circostanze di fatto che, secondo la sua insindacabile ricostruzione della vicenda, dimostravano la violazione da parte dell’amministratore (benché privo di deleghe), degli obblighi informativi nei confronti degli investitori.
12 . Con il motivo n. 13 (in ordine dodicesima censura) si denuncia la violazione dell’art. 3, l. n. 689 del 1981 come interpretato alla luce dell’art. 6 CEDU nonché dell’art. 7, comma 10, del d.lgs. 150 del 2011, in relazione all’art. 360, n. 3 c.p.c. per essere stato disatteso il principio di presunzione di innocenza.
La decisione della Corte sarebbe contraria ai principi di contraddittorio paritario e della distribuzione dell’onere della prova che caratterizzano il rapporto giuridico processuale contenzioso, come letti alla luce dell’art. 6 CEDU. Il giudice di merito errerebbe mostrando di ignorare il richiamato art. 7 che esclude qualsiasi forma di preferenza o agevolazione probatoria a favore della p.a. Trattasi di conclusione erronea e che non si confronta con il dettato dell’art. 7 co. 10 del D. Lgs. n. 150/2011, che esclude ogni agevolazione probatoria per la PA nel giudizio di opposizione a sanzione amministrativa. La sentenza impugnata, nel ritenere che la colpa si presuma una volta fornita la prova del fatto nella sua oggettività, ha erroneamente applicato l’art. 3 citato. Il motivo è infondato poiché la doglianza non di confronta con il dettato di cui al citato art. 7, comma 10, del d.lgs. n. 150/2011, che esclude ogni agevolazione probatoria per la PA nel giudizio di opposizione a sanzione amministrativa.
Con il motivo n. 14 (in ordine tredicesima censura), si denuncia, ex art. 360 n.3 c.p.c. violazione di legge per aver la Corte d’appello giudicato sulla base della cd. presunzione ritraibile dell’art. 3 l. n. 689/1981, omettendo di valorizzare il limite all’operare della stessa, quale individuato nella giurisprudenza di legittimità; omesso esame di un fatto decisivo in merito alla circostanza dell’occultamento della propria condotta illecita da parte di un gruppo di dirigenti al livello di Direzione Generale, e ciò pur in presenza di fatti accertati e incontroversi in tal senso risultanti dallo stesso atto di accertamento.
13.1 . Le ultime due doglianze, testé riportate, possono essere trattate congiuntamente, stante l’evidente connessione, e sono in parte inammissibili ed in parte infondate.
Le censure partono, anche in questo caso, dalla non condivisibile premessa della natura sostanziale penale delle sanzioni oggetto di causa, al fine di invocare le garanzie predisposte dalla Costituzione e dalle fonti sovranazionali per le sanzioni penali.
Dal primo punto di vista (inammissibilità del motivo), rileva il Collegio che la censura di omesso esame di una determinata circostanza si risolve, in realtà, nell’indebita sollecitazione, rivolta alla S.C., a compiere un nuovo scrutinio dei fatti di causa, già esaminati dalla Corte territoriale.
Sul punto, è solo il caso di ricordare che, ad esempio, la sentenza (pag. 58) afferma che non vi è alcuna traccia di manovre dirette a occultare il fenomeno del ‘capitale finanziato’.
La prospettata violazione dell’art. 3 della legge n. 689 del 1981 è priva di fondamento sia per le ragioni sopra evidenziate a proposito dell’elemento soggettivo dell’illecito amministrativo, sia alla luce dei principi in tema di doveri a carico degli amministratori non esecutivi (anch’esse oggetto di precedente disamina). E, invero, questa Corte ha anche di recente ribadito che (Cass. n. 24081/2019) l’art. 3 della l.
n. 689 del 1981 pone una presunzione di colpa a carico dell’autore del fatto vietato, gravando sul trasgressore l’onere di provare di aver agito senza colpa (Nella specie, la S.C. ha applicato il sopraindicato principio in relazione al provvedimento sanzionatorio adottato, ai sensi dell’art. 190 del d.lgs. n. 58 del 1998, dalla Consob nei confronti dei componenti del consiglio di amministrazione di una banca, affermando che spetta ad essi, in presenza di accertate carenze procedurali ed organizzative, dimostrare di aver adempiuto diligentemente agli obblighi imposti dalla normativa di settore).
Infatti, sia pure con riferimento a sanzioni amministrative irrogate dalla Banca d’Italia (Cass. n. 9546/2018), si è precisato che il legislatore individua una serie di fattispecie, destinate a salvaguardare procedure e funzioni ed incentrate sulla mera condotta, secondo un criterio di agire o di omettere doveroso, ricollegando il giudizio di colpevolezza a parametri normativi estranei al dato puramente psicologico e limitando l’indagine sull’elemento oggettivo dell’illecito all’accertamento della “suità” della condotta inosservante sicché, integrata e provata dall’autorità amministrativa la fattispecie tipica dell’illecito, grava sull’autore dell’illecito, in virtù della presunzione di colpa posta dall’art. 3 della I. n. 689 del 1981, l’onere di provare di aver agito in assenza di colpevolezza. Ne consegue che (Cass. n. 1529/2018) sebbene l’onere di provare i fatti costitutivi della pretesa sanzionatoria sia posto a carico dell’Amministrazione, la quale è pertanto tenuta a fornire la prova della condotta illecita, nel caso dell’illecito omissivo di pura condotta, essendo il giudizio di colpevolezza ancorato a parametri normativi estranei al dato puramente psicologico, è sufficiente la prova dell’elemento oggettivo dell’illecito comprensivo della “suità” della condotta inosservante, in assenza di elementi tali da rendere inesigibile la condotta o imprevedibile l’evento (conf. Cass. S.U. n.
20930/2009). Così intesa la “presunzione di colpa” non si pone in contrasto con gli artt. 6 CEDU e 27 Cost. E ciò anche nel caso in cui la sanzione abbia natura sostanzialmente penale in quanto afflittiva, circostanza che, come si è detto, non ricorre con riferimento alle sanzioni in esame. La sentenza impugnata ha, quindi, fatto corretta applicazione dei principi in tema di interpretazione dell’art. 3 citato.
14 . Con l’ultimo motivo si denuncia la violazione dell’art. 91 in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c. nella parte in cui è stata disposta la condanna alle spese del ricorrente nonostante quest’ultima si sia difesa con funzionari interni e non con avvocati del libero foro, senza pertanto incorrere in alcuna spesa.
Il motivo è evidentemente destituito di fondamento. Il funzionario che assista la PA non rivesta nella specie la qualità di avvocato, in quanto non iscritto, come invece i difensori di parte controricorrente, all’elenco speciale in passato disciplinato dall’art. 3 co. 4 lett. B del RD n. 1578/1933, ed oggi dall’art. 15 lett. C) della legge n. 247/2012. Pur dovendosi ribadire le peculiarità della disciplina approntata per tale categoria di professionisti (si veda Cass., Sez. Un., n. 19547 del 2010, secondo cui l’iscrizione nell’albo speciale degli avvocati e procuratori legali dipendenti da enti pubblici richiede, quale presupposto imprescindibile, la “esclusività” dell’espletamento, da parte degli stessi, dell’attività di assistenza, rappresentanza e difesa dell’ente pubblico, presso il quale prestano la propria opera, nelle cause e negli affari dell’ente stesso, essendo l’esclusività negata qualora accanto a compiti riconducibili alla attività di assistenza e rappresentanza e difesa dell’ente svolgano mansioni amministrative o, comunque di natura diversa; conf. Cass., Sez. Un., n. 3733 del 2002), risulta tuttavia evidente, in ragione dell’iscrizione all’albo circondariale, sebbene in un elenco speciale, che si tratta di soggetti legittimamente esercenti la professione forense, la cui assistenza
impone a favore della parte vittoriosa che si sia avvalsa delle loro prestazioni, che la liquidazione avvenga sulla base delle tariffe forensi vigenti.
15 . Nella memoria da ultimo depositata il ricorrente chiede che il Collegio, con rinvio pregiudiziale, sottoponga alla Corte di giustizia UE alcuni quesiti (compendiati a pag. 32) al fine di verificare se le sanzioni per le violazioni in questione (art. 191 comma 2 TUF) siano o meno compatibili con i principi e la normativa europea (Carta dei diritti fondamentali UE, artt. 6 e 7 CEDU): l’istanza, manifestamente infondata, va respinta.
15.1 . Innanzitutto, è utile mettere in evidenza che l’oggetto della domanda di pronuncia pregiudiziale rivolta alla Corte di giustizia deve riguardare l’interpretazione o la validità del diritto dell’Unione, e non (come nel caso di specie pare sostanzialmente intendere il ricorrente) l’interpretazione delle norme del diritto nazionale o questioni di fatto sollevate nel procedimento principale (così C. giust., Raccomandazioni all’attenzione dei giudici nazionali, relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale, 2018/C 257/01, in Gazzetta ufficiale dell’Unione europea del 20/07/2018).
Inoltre, per la giurisprudenza di questa Corte «non v’è diritto della parte all’automatico rinvio pregiudiziale ogniqualvolta la Corte di cassazione non ne condivida le tesi difensive (Cass., S.U., 08/07/2016, n. 14043), bastando che le ragioni siano espresse (Corte EDU, in caso COGNOME e Rezabek c. Belgio), ovvero implicite laddove la questione pregiudiziale sia manifestamente inammissibile o manifestamente infondata (Corte EDU, in caso RAGIONE_SOCIALE, par. 36), ovverosia quando l’interpretazione della norma e del caso siano evidenti (Cass., S.U., 24/05/2007, n. 12067). Infatti, un organo giurisdizionale di ultima istanza non è tenuto a presentare alla Corte di giustizia una domanda
di pronuncia pregiudiziale (art. 267 comma 3 TFUE), qualora esista già una giurisprudenza consolidata in materia o qualora la corretta interpretazione della norma di diritto di cui trattasi non lasci spazio a nessun ragionevole dubbio (Raccomandazioni 2016. C. – 439.01, par. 6)» (Cass. Sez. U., 19/06/2018, n. 16157, in motivazione, p. 5.5.; nello stesso senso, tra le tante, Cass. 07/06/2018, n. 14828; Cass. 16/06/2017, n. 15041, secondo cui il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione Europea presuppone il dubbio interpretativo su una norma comunitaria, che non ricorre allorché l’interpretazione sia auto-evidente oppure il senso della norma sia già stato chiarito da precedenti pronunce della Corte, non rilevando, peraltro, il profilo applicativo di fatto, che è rimesso al giudice nazionale). Ed anche la Corte costituzionale (sentenza n. 28 del 2010, in motivazione al p. 6) ha ritenuto che sia da escludere il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea, non «necessario quando il significato della norma comunitaria sia evidente, anche per essere stato chiarito dalla giurisprudenza della Corte di giustizia».
Come ricorda da ultimo Cass. Sez. 1, Ord. interloc. 30/12/2024, n. 34898, la Corte di giustizia (C. giust., 06/10/2021, C-561/19), dopo aver rimarcato che il rinvio pregiudiziale costituisce la chiave di volta del sistema giurisdizionale istituito dai trattati, ha ribadito e sviluppato i criteri (già espressi nella sentenza Cilfit) al ricorrere dei quali viene meno l’obbligo dei giudici di ultima istanza di rivolgersi alla Corte in presenza di questioni di interpretazione del diritto eurounitario. Si tratta, oltre ai casi di irrilevanza della questione, dell’acte éclairé, ovverosia quando la questione sia materialmente identica ad altra già decisa o vi sia una giurisprudenza consolidata della Corte sul punto, e dell’acte clair, quando l’interpretazione del diritto dell’Unione si imponga con evidenza tale da non dare adito a ragionevoli dubbi. Per la Corte di giustizia l’iniziativa delle parti nel
giudizio di ultima istanza non può privare il giudice della propria indipendenza nel vagliare se ricorra una delle ipotesi di cui alla sentenza Cilfit, obbligandolo così a presentare un rinvio pregiudiziale.
Tornando alla fattispecie concreta in esame, ritiene il Collegio che non vi sia necessità di disporre il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia in quanto, per la consolidata giurisprudenza di legittimità (della quale si è dato conto nelle pagini precedenti), le sanzioni amministrative pecuniarie applicate dalla Consob per violazione in materia di offerta al pubblico di titoli ex art. 94 TUF, non sono sanzioni amministrative di carattere punitivo, non pongono un problema di compatibilità con le garanzie riservate ai processi penali dall’art. 6 CEDU (secondo l’interpretazione della sentenza della Corte EDU del 04/03/2014, COGNOME RAGIONE_SOCIALE cRAGIONE_SOCIALE), nel senso che non sono equiparabili, per tipologia, severità, incidenza patrimoniale e personale, alle sanzioni Consob relative all’abuso di informazioni privilegiate (Cass. nn. 12031/2022, 4524/2021; da ultimo Cass. n. 15685/2024) e alla manipolazione del mercato (Cass. nn. 17209/2020, 24850/2019), entrambe ritenute sostanzialmente penali.
In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.
Le spese del giudizio di cassazione, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
A i sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115/2002, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis del citato art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in euro 4.300,00, a
titolo di compenso, più euro 200,00, per esborsi, oltre alle spese generali e agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115/2002, dichiara che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis del citato art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda