Sentenza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 18126 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 1 Num. 18126 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 03/07/2025
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 16620/2024 R.G. proposto da:
COGNOME NOMECOGNOME rappresentate e difese dagli avvocati COGNOME (CODICE_FISCALE), COGNOME (CODICE_FISCALE),
-ricorrenti- contro
A.C.A.R., rappresentata e difesa da ll’avvocato COGNOME NOME COGNOME (CODICE_FISCALE) unitamente all’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE),
-controricorrente-
nonchè contro
COGNOME COGNOME NOME COGNOME rappresentati e difesi da ll’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE ,
-controricorrenti- nonchè contro
COGNOME COGNOME rappresentati e difesi dall’avvocato COGNOME (PFNDRA73B13C933W),
-controricorrenti-
nonchè contro
COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME
-intimati- avverso la SENTENZA di CORTE D’APPELLO PERUGIA n. 254/2024 depositata il 16/04/2024.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/06/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
Sentito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dr. NOME COGNOME che ha chiesto che la Corte di Cassazione rigetti tutti i motivi di ricorso siccome infondati ( terzo e ottavo) o inammissibili (secondo, quarto, quinto, sesto, settimo, nono e decimo) ad eccezione del primo di cui si chiede l’accoglimento.
Sentiti gli avv.ti COGNOME e NOME COGNOME per le ricorrenti, i quali insistono per l’accoglimento del ricorso riportandosi agli scritti difensivi per quanto riguarda le questioni di diritto.
Sentit o l’avv.to NOME COGNOME sostituito dall’avv.to NOMECOGNOME difensore dei controricorrenti NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME, NOME COGNOME che ha chiesto l’ accoglimento del controricorso, non condividendo la tesi della Procura, inammissibilità del ricorso.
Sentito l’avv. NOME COGNOME difensore dei controricorrenti NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME che ha chiesto l’a ccoglimento del controricorso, l’inammissibilità del ricorso non condividendo la tesi della Procura Generale.
Sentito l’avv. NOME COGNOME COGNOME difensore della controricorrente RAGIONE_SOCIALE che si riporta agli scritti difensivi, insiste sul concetto di prescrizione decennale, è applicabile l ‘ art 2941 n7 cc.
FATTI DI CAUSA
La Corte d’appello di Perugia, con sentenza n. 254/2024, pubblicata il 16/4/2024, ha confermato integralmente la sentenza a n. 49/2022 del Tribunale di Perugia in composizione monocratica, con la quale, all’esito di consulenza tecnica d’ufficio, era stata accolta l’azione di responsabilità promossa da RAGIONE_SOCIALE Associazione culturale ricreativa ed assistenziale tra i dipendenti della Banca dell’Umbria 1462 S.p.A., con atto di citazione in data 10/12/2014, nei confronti di NOME COGNOME e NOME COGNOME quali eredi del loro, rispettivamente, coniuge e padre Sig. NOME COGNOME il quale aveva ricoperto la carica di Presidente del Consiglio di Amministrazione della RAGIONE_SOCIALE, per gli anni dal 2004 al 2011, accertata la mala gestio del de cuius in ordine alla asserita dismissione parziale del fondo mutualistico per l’acquisto di un immobile, da destinare a sede dell’Associazione, e per l’acquisto del centro sportivo di San Martino in Campo, da destinare, previa sua ristrutturazione, ad attività ricreative, sociali e sportive degli associati, con condanna delle convenute al pagamento della somma di € 331.814,00 ciascuna, con rivalutazione dal 26.10.2016 alla pronuncia, con interessi compensativi calcolati sulla somma via via rivalutata, oltre agli interessi legali ex art. 1284 co. 1 c.c., dalla pronuncia al saldo.
In particolare, in punto di chiamata in causa, richiesta dalle convenute in sede di costituzione e autorizzata dal giudice, in garanzia, dei terzi componenti del consiglio di amministrazione, che avevano amministrato, insieme al Presidente NOME COGNOME l’Associazione non riconosciuta RAGIONE_SOCIALE, deliberando ed approvando tutte le operazioni che l’Associazione, poi, aveva
addebitato a titolo di pretesa mala gestio allo stesso Presidente, il Tribunale, in sede di decisione, aveva ritenuto inammissibile la domanda per carenza di legittimazione attiva; il Tribunale aveva, tuttavia, affermato che restava salva la possibilità per le convenute, in separato e successivo giudizio, di agire « in regresso pro quota (in ragione del diverso contributo causale e del grado di colpa di ognuno dei consiglieri ai singoli atti gestori) nei confronti di coloro che, insieme al de cuius hanno concorso alle condotte lesive, votando in senso favorevole in occasione delle delibere di cui al paragrafo precedente oppure, pur non avendo partecipato alla votazione favorevole, erano comunque a conoscenza dell’atto che si stava per compiere e non hanno manifestato il loro dissenso; nonché nei confronti di coloro che sono stati nominati membri delle commissioni ristrette con poteri decisori e/o di controllo sulle opere in esecuzione che tali poteri/doveri abbiano malamente esercitato ». Nel merito, il Tribunale non aveva condiviso le conclusioni delle convenute (che richiamavano sul punto le valutazioni del consulente tecnico d’ufficio, dott.ssa COGNOME), nel senso dell’esclusione di un danno risarcibile, in relazione all’acquisto, al prezzo di € 300.000,00, della sede in INDIRIZZO avvenuta nel 2004, mediante il parziale utilizzo della liquidità esistente nel fondo mutualistico, che aveva solo subito unicamente una diversa composizione patrimoniale, senza essere per nulla dismesso e/o distratto, essendo passato da una composizione in denaro infruttifero ad una composizione in denaro ed immobile (fruttifero perché rivalutabile e perché utilizzato a sede dell’Associazione, senza così la necessità di esborso di canoni), il tutto conformemente allo Statuto all’epoca vigente, nonché nel senso dell’assenza di alcun danno risarcibile quanto all’acquisto, al prezzo di € 400.000,00, con le risorse dell’associazione e del suo fondo patrimoniale, nonché attraverso un mutuo concesso da Unicredit, del Centro Sportivo di San Martino in Campo, rientrante
nell’oggetto delle attività previste dallo Statuto (art. 3, lett. b) « attività ludico-ricreativa dei soci ») e in ordine al quale, peraltro, le asserite spese di ristrutturazione erano rimaste indimostrate.
Il Tribunale, a fronte dell’accertamento contabile compiuto dal consulente del Pubblico Ministero, Dott. COGNOME, in un procedimento penale e nella fase delle indagini preliminari, aveva accertato, invece, la responsabilità per mala gestio dell’ex Presidente dell’ente, stante la distrazione del fondo mutualistico, dapprima mediante l’acquisto dell’immobile adibito a sede dell’associazione, già in comodato d’uso gratuito, e poi mediante l’acquisto, con demolizione e ristrutturazione, del Centro Sportivo in San Martino in Campo e aveva liquidato il danno patrimoniale nella misura, in linea capitale, di complessivi € 663.628,00.
La Corte d’appello ha respinto tutti i motivi di gravame.
In particolare, è stato respinto il sesto motivo di appello in punto di declaratoria del difetto di legittimazione passiva nei confronti dei terzi chiamati in causa componenti del Consiglio di amministrazione, essendosi rilevato che le convenute non avevano agito in regresso nei loro confronti ma, erroneamente, ne avevano chiesto la condanna diretta al pagamento in favore dell’attrice, in solido con le convenute, il che era loro precluso, ai sensi dell’art.2393 c.c., in quanto la legittimazione attiva alla proposizione di azione di responsabilità ex art. 2393 c.c., compete esclusivamente all’ente che può far valere la responsabilità di uno o di tutti gli amministratori per atti di mala gestio , ben potendo agire per l’intero nei confronti di uno solo degli amministratori, che avevano partecipato alla delibera consiliare; alle convenute iure hereditatis per fatti dell’amministratore competeva unicamente, l’azione di regresso diretta ad accertare la quota di responsabilità ascrivibile a ciascuno dei corresponsabili e a ottenere contestuale condanna al pagamento di quanto anticipatamente corrisposto in qualità di condebitore solidale, da esperirsi nel medesimo ovvero in
successivo giudizio, mentre non gli competeva alcuna azione che ampliasse il novero dei soggetti passivi della domanda attorea.
E’ stato respinto il secondo motivo di appello, rilevandosi che nella specie si era esercitata, ai sensi dell’art. 2393 c.c., un’ azione di responsabilità dell’associazione nei confronti delle eredi dell’amministratore, Presidente del Consiglio di Amministrazione, Sig. COGNOME tenuto ad adempiere il proprio mandato con la diligenza del buon padre di famiglia, ai sensi degli artt. 18 e 1710 c.c., azione sociale di responsabilità che si configura quale azione contrattuale, soggetta a prescrizione decennale, nella specie sospesa, in ragione del rapporto fra le parti, fin tanto che gli amministratori erano in carica, ai sensi dell’art. 2941, n. 7, c.c.
In punto di onere della prova, ai sensi dell’art. 1218 c.c., ricadeva sull’associazione attrice l’onere della prova del conferimento dell’incarico all’amministratore e dell’allegazione dell’inadempimento del medesimo e, sulle eredi convenute in giudizio, l’onere della prova liberatoria dell’esatto adempimento ovvero dell’impossibilità dell’inadempimento per causa non imputabile. E trattandosi di atto gestorio soggetto a sindacato solo in relazione al vaglio di diligenza nell’esecuzione del mandato, le allegazioni dell’attrice, di inadempimento del Presidente del C.d.A., basate anche sulla « pregressa, minuziosa ed esaustiva » Consulenza tecnica svolta dalla Consulente del Pubblico Ministero, che aveva integrato le lacune contabili, erano sufficienti e idonee a comprovare la distrazione del Fondo Mutualistico dalle finalità meramente assistenziali cui era destinato, l’omessa adozione delle dovute cautele nella fase prodromica dell’investimento immobiliare e l’ostinata prosecuzione delle opere demolitorie, nella fase successiva all’acquisto del compendio immobiliare in San Martino in Campo, benché l’investimento fosse finanziariamente insostenibile, già in ottica ex ante , anche avuto riguardo alle complessive risorse patrimoniali dell’Associazione. L’inadempimento era fondato in
ragione della distrazione del fondo mutualistico, dapprima, mediante l’acquisto di immobile in INDIRIZZO adibito a sede dell’associazione, già in comodato d’uso gratuito della medesima, e successivamente, mediante « l’improvvido progetto di acquisto, demolizione e ristrutturazione » del Centro Sportivo in San Martino in Campo. Invero, « a norma dello Statuto e del Regolamento, il Fondo Mutualistico non poteva certamente essere impiegato in investimenti immobiliari non produttivi di alcun reddito, rispondenti a mere logiche di investimento immobiliare (come nel caso dell’acquisto dell’immobile, già deputato a sede dell’Associazione e detenuto in comodato d’uso gratuito) ovvero a finalità meramente culturali e ricreative (come nel caso dell’acquisto di RAGIONE_SOCIALE in San Martino in Campo) ed inidonei a consentire uno smobilizzo repentino onde far fronte alla precipua finalità assistenziale in vista della quale il Fondo stesso è stato costituito e cui le finanze del Fondo erano destinate ».
In punto di quantificazione erronea del danno, per aver il Giudice di prime cure erroneamente liquidato una somma pari alla differenza tra il valore del Centro Sportivo di San Martino in Campo e le somme ricavate all’esito della vendita dello stesso, pur trattandosi di beni non omogenei, in ragione dell’omesso completamento della pianificata ristrutturazione, nonché dell’omessa valutazione dell’abbattimento dei costi di finanziamento, da € 596.379,71 ad € 130.000,00 in sede transattiva, la doglianza era infondata. Si doveva, invero, imputare al COGNOME non solo l’incauto acquisto di compendio immobiliare in violazione delle norme statutarie e regolamentari, nel difetto di adeguata copertura economica in prospettiva già ex ante , ma anche la demolizione delle opere murarie nel difetto di risorse idonee a garantirne la successiva ricostruzione, e il grave decremento di valore che aveva imposto la vendita alla cifra di € 130.000,00, onde evitare un aggravamento della posizione debitoria; né assumeva alcun rilievo l’abbattimento
dei costi di finanziamento iniziali, neppure considerati in sede di quantificazione del danno.
Avverso la suddetta pronuncia, NOME COGNOME e NOME COGNOME, quali eredi di NOME COGNOME, propongono ricorso per cassazione, notificato 12/7/2024, affidato a dieci motivi, nei confronti di RAGIONE_SOCIALE tra i dipendenti della Banca dell’Umbria spa (che resiste con controricorso), di NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME (che resistono con controricorso), di NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOMEche resistono con controricorso) e di NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOMEche non svolgono difese).
Il P.G. ha depositato memoria, chiedendo l’accoglimento del primo motivo, assorbiti i restanti.
Tutte le parti hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Le ricorrenti lamentano: a) con il primo motivo, la violazione o falsa applicazione dell’art. 106 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4), c.p.c.; b) con il secondo motivo, la nullità della sentenza ex art. 132, n. 4), c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4) c.p.c.; c) con il terzo motivo, la falsa applicazione dell’art. 2941, comma 1, n. 7, c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3) c.p.c., in punto di asserita sospensione della prescrizione decennale relativa all’azione di responsabilità ex art. 2393 c.c.; d) con il quarto motivo, la falsa applicazione dell’art. 2117 c.c. alla fattispecie, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3) c.p.c., quanto alla pretesa distrazione del fondo mutualistico istituito dall’Associazione e disciplinato ratione temporis dal relativo Regolamento: e) con il quinto motivo, la violazione dell’art. 2697 c.c., con riguardo all’art. 2393 c.c. (azione sociale di
responsabilità), in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.; f) con il sesto motivo, la nullità della sentenza ex art. 132, n. 4), c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4) c.p.c., quanto all’assolvimento dei carichi probatori in tema di azione di responsabilità ex art. 2393 c.c.; g) con il settimo motivo, la violazione del diritto alla prova e quindi, dell’art. 115 c.p.c., tutelato anche a livello comunitario, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4) c.p.c. o, in subordine, la nullità della sentenza, ex art. 132 n. 4) c.p.c., per manifesta illogicità, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4), c.p.c.; h) con l’ottavo motivo, la falsa applicazione dell’art. 1223 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c. con riferimento alla statuizione in punto di risarcimento del danno da preteso inadempimento contrattuale per difetto dei suoi presupposti; i) con il nono motivo, la nullità della sentenza ex art. 132 n. 4) c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4) c.p.c., con riguardo all’entità del risarcimento del danno disposta dal Tribunale di Perugia e dalla Corte di Appello; l) con il decimo motivo, la violazione dell’art. 1227 c.c., in relazione all’art. 360, c 1, n. 3) c.p.c.., e, in subordine, la nullità della sentenza ex art. 132 n. 4 c.p.c., in relazione all’art. 360, c. 1, n. 4), c.p.c.
Le prime due censure sono fondate.
2.1. Deducono le ricorrenti, con il primo motivo, di avere formulato domanda di chiamata in causa e in garanzia dei componenti del C.d.A, che, all’epoca, insieme al Presidente del C.d.A., avevano compiuto collegialmente le operazioni che l’attrice assumeva illegittime, per sentire (coma da conclusioni ritrascritte) « in via subordinata, nella denegata ipotesi in cui tale domanda dovesse essere, in tutto o in parte, accolta, dichiarare i chiamati in causa tenuti in solido con le comparenti (che peraltro rispondono, quali eredi, pro quota ex art. 1295 c.c.) al pagamento di tutte le eventuali somme che dovessero risultare dovute agli attori, per sorte, accessori e spese ».
In sede di memoria, ex art. 183, n. 1, c.p.c. in data 20/11/2017, e già prima nelle note autorizzate del 3/6/2017, tali conclusioni erano state ribadite, deducendosi che la chiamata dei suddetti amministratori era a titolo di c.d. garanzia propria, atteso che quanto addebitato in citazione, senza fondamento , al COGNOME aveva ricevuto l’approvazione dei membri del C.d.A. (e anche dell’assemblea dei soci) per tutti gli anni di riferimento nei quali sarebbero state realizzate le operazioni censurate come illegittime.
Si precisa che le originarie convenute, non negando la loro legittimazione passiva, ma solo contestando il fondamento nel merito della domanda di responsabilità promossa da ACAR nei confronti del loro de cuius , quale. Presidente dell’Associazione non riconosciuta, avevano invece piena legittimazione attiva, tant’è che la loro domanda di chiamata in causa e in garanzia era stata accolta dal precedente G.I., con ordinanza 20/10/2015.
Vero che chi agisce per responsabilità ex art. 2393 c.c. può scegliersi il responsabile, ma è altrettanto vero che il prescelto possa chiamare in causa, a ciò essendo abilitato dall’art. 106 c.p.c., colui o coloro che ritiene essere con lui corresponsabili e quindi obbligati in solido (art. 1292 e 2055 c.c.), il tutto a prescindere dall’azione di regresso, che rappresenta un posterius che presuppone la previa affermazione della responsabilità solidale del soggetto chiamato (art. 1292 c.c.), in relazione al fatto dannoso ascritto al convenuto principale.
Ammessa la chiamata in causa del terzo, quand’anche ritenendo non operante l’estensione automatica della domanda attrice nei suoi confronti, restava ferma la facoltà dell’attore di estendere la domanda nei confronti degli stessi corresponsabili.
2.2. Con il secondo motivo, si denuncia il difetto di motivazione in punto di statuizione di inammissibilità della domanda in garanzia per avere le convenute originarie, allegando la responsabilità dei terzi chiamati in causa, non agito in regresso nei loro confronti, ma
chiesto la loro « condanna diretta » al pagamento in favore dell’attrice in solido con le convenute.
Le convenute hanno, invece, inteso esperire, non una domanda diretta di condanna, che competenza solo alla parte attrice, ma un’azione di « garanzia propria », nei confronti di tutti coloro che avevano deliberato, approvato e condiviso le operazioni censurate come atti di pretesa mala gestio , chiedendo che tali soggetti ne rispondessero solidalmente con il Presidente.
2.3. Le ricorrenti hanno richiesto in primo grado ed in appello la chiamata in causa dei terzi, art. 106 c.p.c. nella veste di coamministratori della società, affinché fosse accertata la loro corresponsabilità rispetto al danno « dovendo rispondere coloro che hanno operato insieme al presidente a titolo di garanzia propria » (chiamata per comunanza di causa ex art. 106, prima parte, c.p.c.), allegando quindi la compartecipazione degli altri amministratori al fatto lesivo denunciato dalla società.
Tale prospettazione è stata chiarita quale « chiamata in causa propria al fine di tenere indenni le convenute », anche a seguito della richiesta ex art. 164 VI c.p.c. del giudice di prime cure di chiarimento in ordine all’esatto tenore della domanda dispiegata.
Orbene, questa Corte ha chiarito (Cass. 157/1976) che ricorre l’ipotesi di « garanzia propria » quando l’azione di regresso proposta contro il garante si basa sullo stesso titolo dedotto a fondamento della domanda principale, ovvero quando sussiste una connessione obbiettiva di titoli fra la domanda principale e quella accessoria, mentre si ha garanzia impropria quando la chiamata in causa sia diretta a riversare sul terzo gli effetti della domanda dello attore, in base ad un titolo distinto, autonomo ed indipendente da quello principale.
Ai sensi dell’art. 106 c.p.c., si può operare la chiamata di un terzo in giudizio, estendendo a questi la domanda svolta dall’attore di maniera che lo stesso venga individuato come effettivo unico
responsabile o come corresponsabile del fatto lesivo denunciato dall’attore.
Quando si invoca una garanzia propria del terzo chiamato non si contesta la propria legittimazione passiva, contestazione che è presupposta invece qualora il convenuto, nel dedurre il difetto della propria legittimazione passiva, chiami un terzo, indicandolo come il vero legittimato.
Si è poi discusso dell’estensione o meno automatica della domanda attorea al terzo chiamato.
Il principio dell’estensione automatica della domanda dell’attore al chiamato in causa da parte del convenuto trova applicazione solo allorquando la chiamata del terzo sia effettuata al fine di ottenere la liberazione dello stesso convenuto dalla pretesa dell’attore, in ragione del fatto che il terzo s’individui come unico obbligato nei confronti dell’attore e « in vece » dello stesso convenuto, realizzandosi in tal caso un ampliamento della controversia in senso soggettivo (divenendo il chiamato parte del giudizio in posizione alternativa con il convenuto) e oggettivo (inserendosi l’obbligazione del terzo dedotta dal convenuto verso l’attore in alternativa rispetto a quella individuata dall’attore), ferma restando, tuttavia, in ragione di detta duplice alternatività, l’unicità del complessivo rapporto controverso.
Il suddetto principio, invece, non opera allorquando il chiamante faccia valere nei confronti del chiamato un rapporto diverso da quello dedotto dall’attore come « causa petendi » (Cass. 13131/2006; Cass. 13374/2007; Cass. 20610/2011; Cass. 5580/2018).
In linea, si è ribadito che « il principio dell’estensione automatica della domanda dell’attore nei confronti del terzo chiamato in causa dal convenuto opera solo quando tale chiamata sia effettuata dal convenuto per ottenere la sua liberazione dalla pretesa attorea, individuandosi il terzo come l’unico obbligato nei confronti
dell’attore, in posizione alternativa con il convenuto ed in relazione ad un unico rapporto, mentre non opera in caso di chiamata in garanzia impropria, attesa l’autonomia dei rapporti », ma che tuttavia, « anche in caso di rapporto oggettivamente unico, la presunzione su cui si fonda il principio dell’estensione automatica della domanda dell’attore al terzo chiamato (ossia che l’attore voglia la condanna del chiamato, pur avendo agito nei confronti del solo convenuto) non può operare se l’attore escluda espressamente che la propria domanda sia stata proposta nei confronti del terzo chiamato » (Cass. 8411/2016).
E si è affermato che il principio dell’estensione automatica della domanda principale al terzo, chiamato in causa dal convenuto, non opera quando lo stesso terzo venga evocato in giudizio come obbligato solidale o in garanzia propria od impropria, essendo in questo caso necessaria la formulazione di un’espressa ed autonoma domanda da parte dell’attore (Cass. 23308/2007).
Si è ulteriormente chiarito che « qualora il convenuto in un giudizio di risarcimento dei danni, chiami in causa un terzo indicandolo come soggetto (cor)responsabile della pretesa fatta valere dall’attore e chieda di essere manlevato in caso di accoglimento della pretesa attorea, senza porre in dubbio la propria legittimazione passiva, si versa in una ipotesi di chiamata in garanzia, nella quale non opera la regola della automatica estensione della domanda al terzo chiamato, atteso che la posizione assunta dal terzo nel giudizio non contrasta, ma anzi coesiste, con quella del convenuto rispetto all’azione risarcitoria, salvo che l’attore danneggiato proponga nei confronti del chiamato (quale coobbligato solidale) una nuova autonoma domanda di condanna » (Cass. 30601/2018).
Nella recentissima Cass. n. 7332/2025, si è ribadito che « In materia di responsabilità civile, la parte evocata in giudizio per il risarcimento del danno può chiamare in causa, in via preventiva,
un altro corresponsabile, al fine di esercitare il regresso contro questo per il caso di esito positivo dell’azione intrapresa dal danneggiato » (in una fattispecie relativa al danno cagionato ad un appartamento dalle infiltrazioni provenienti dalle unità immobiliari poste ai piani superiori, al cui risarcimento erano stati condannati in solido per l’intero i diversi titolari di diritti reali su di essi, uno dei quali si era doluto della responsabilità ascrittagli anche per la parte di danno riconducibile ad altri, senza avere però preventivamente proposto nei confronti di questi ultimi domanda di regresso).
Ma questo tema specifico (l’estensione, automatica o meno, della pretesa attorea ai terzi chiamati) non attiene a quello controverso nel presente giudizio, in cui la domanda di garanzia verso i terzi chiamati, indicati dai convenuti quali corresponsabili, in ipotesi di fondatezza della domanda attorea, nell’illecito contestato, dopo essere stata autorizzata la chiamata ex art.106 c.p.c., è stata dichiarata inammissibile per difetto di legittimazione attiva delle chiamanti.
Orbene, non è in discussione il diritto della società di agire ex art. 2393 c.c. nei confronti di ciascuno degli amministratori.
Ma, se, da un lato, la società è libera di agire nei confronti di un singolo amministratore, e non degli altri, quale unico responsabile del fatto lesivo, è altrettanto ammissibile che quell’amministratore possa difendersi in giudizio individuando altri soggetti come corresponsabili dell’illecito ovvero quali unici responsabili.
Nella specie, la chiamata del terzo era formulata dalle convenute, in qualità di eredi dell’ex amministratore, nei confronti di coloro che erano ritenuti corresponsabili, al fine di fare accertare la loro responsabilità solidale in relazione allo stesso fatto dannoso imputabile a più persone.
Non è corretto affermare, invece, come ritenuto dalla Corte d’appello, che l’unica difesa disponibile per il convenuto sia il regresso verso i condebitori solidali, a giudizio concluso.
E, d’altronde, se il giudice avesse ritenuto radicalmente inammissibile la chiamata del terzo in causa, sulla base dei principi da lui esposti, rientrava nei suoi poteri non procedere al differimento dell’udienza per permetterne al convenuto la chiamata ex art. 269 II c.p.c. (Cass. SS.UU. 4309/10 e Cass. n. 3692/20).
3. Si lamenta, con il terzo motivo, che si sia rigettata, decidendo sul secondo motivo di gravame, l’eccezione di prescrizione dell’azione, promossa con citazione del dicembre 2014 (perché decorso il termine decennale dalla data della delibera di dismissione del fondo mutualistico, del giugno 2004, non impugnata nel termine quinquennale ai sensi degli artt.23 e 1442 c.c.), essendosi affermato, nella sentenza impugnata, che nella specie, operava la prescrizione decennale, ex art.2941, comma 1 n. 7, c.c. e che il termine era sospeso fino alla cessazione della carica di Presidente dell’associazione, avvenuta nel 2011.
Si denuncia la falsa applicazione di norma che, essendo riferita agi amministratori di persone giuridiche ed essendo di stretta interpretazione quale norma eccezionale, non si può applicare alle associazioni non riconosciute.
La censura è infondata.
3.1.I casi di sospensione della prescrizione sono tassativamente indicati dalla legge e sono insuscettibili di applicazione analogica e di interpretazione estensiva, in quanto il legislatore regola inderogabilmente le cause di sospensione, limitandole a quelle che consistono in veri e propri impedimenti di ordine giuridico, con esclusione degli impedimenti di mero fatto (Cass 11004/2018, ove si è ritenuto che la espressa previsione della interdizione per infermità di mente come causa di sospensione impedisce l’estensione della medesima disciplina alla incapacità naturale; Cass. n. 4191/1975).
Questa Corte (Cass. n. 4603/1985) ha affermato che « poiché la norma di cui all’art. 2949 cod. civ. -che stabilisce la prescrizione
quinquennale dei diritti che derivano dai rapporti sociali, se la società è iscritta nel registro delle imprese – si pone in rapporto di specialità rispetto alla disciplina generale in tema di prescrizione, essa trova applicazione anche con riguardo alle società in accomandita semplice, essendo tale società soggetta all’obbligo di registrazione, senza che, con riguardo all’azione di responsabilità intentata dalla detta società (e da uno dei soci accomandatari) nei confronti di altro socio accomandatario in relazione alla vendita di beni sociali, possa invocarsi la sospensione del termine di prescrizione stabilita dal n. 7 dell’art. 2941 cod. civ. tra le persone giuridiche ed i loro amministratori finché sono in carica, operando detta statuizione soltanto per le società di capitali e non per quelle di persone ».
Il P.G. osserva che l’art. 2941 c.c. esprime un principio di carattere generale per cui qualsiasi soggetto giuridico è impedito nella effettiva percezione del danno attuato dal soggetto posto in posizione apicale e/o dirigenziale fintanto che lo stesso è in carica (vedi sull’occultamento del danno il punto n. 8 dell’art. 2941 c.c.).
Ed evidenzia come la Corte Costituzionale abbia, di fatto, interpretato la norma come applicabile anche agli amministratori di società in accomandita semplice (Corte Cost. 24.7.1998, n. 322) e, da ultimo, anche agli amministratori di società in nome collettivo (Corte Cost. 11.12.2015, n. 262), sulla base della considerazione per cui la ratio della norma sulla sospensione si rinviene nelle esigenze di tutela della società, nel senso che durante la permanenza in carica degli amministratori è più difficile per la società acquisire compiuta conoscenza degli illeciti dagli stessi commessi e quindi promuovere azioni di responsabilità.
3.2.In generale, si è ritenuto che l’associazione non riconosciuta, ancorché sfornita di personalità giuridica, è considerata dall’ordinamento come centro di imputazione di situazioni giuridiche distinto dagli associati, cui sono analogicamente
applicabili, in mancanza di diversa previsione di legge o degli accordi associativi, le norme stabilite in materia di associazioni riconosciute o di società, cosicché, in caso di unificazione di due associazioni non riconosciute, può farsi riferimento alle norme sulla fusione, con la conseguenza che la sopravvenuta unificazione non incide sull’ammissibilità del ricorso per cassazione proposto a nome di una delle associazioni unificate in quanto parte del giudizio di merito; infatti, a seguito della nuova formulazione dell’art. 2504-bis cod. civ., in base al cui primo comma la società che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione, proseguendo in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione, la fusione configura una vicenda meramente evolutivo-modificativa del medesimo soggetto giuridico, senza la produzione di alcun effetto successorio ed estintivo (Cass. 1476/2007).
L’associazione non riconosciuta, ancorché sfornita di personalità giuridica, deve comunque essere considerata come un centro di imputazione di situazioni giuridiche distinto dagli associati, cui sono analogicamente applicabili, in mancanza di diversa previsione di legge o degli accordi associativi, le norme stabilite in materia di associazioni riconosciute o di società (Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 664 del 12/01/2023).
Ne discende l’applicabilità alle associazioni non riconosciute dell’art. 18 c.c., a mente del quale « gli amministratori sono responsabili verso l’ente secondo le norme del mandat o», sia pure escluse le disposizioni incompatibili dettate dagli artt.1712 e 1713 c.c. (Cass. n. 664/2023e Cass. n. 13092/2025).
In punto di prescrizione dell’azione di responsabilità per inadempimento dell’amministratore dell’associazione non riconosciuta, in Cass. n. 13092/2025 si è ribadito che la natura dell’illecito quale fonte di danno incide sul dies a quo prescrizionale attraverso le caratteristiche, in essa insite, della sua
conoscibilità/percepibilità da parte del danneggiato (così Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 24270 del 03/11/2020) e che la regola, per la quale il termine di prescrizione decorre da quando il danneggiato ha avuto o avrebbe potuto avere conoscenza della ingiustizia del danno, ossia del fatto che esso si è prodotto e che va attribuito a taluno, non muta a seconda del titolo di responsabilità, se contrattuale o extracontrattuale, valendo anche in caso di responsabilità contrattuale (Cass. n. 29328 del 13/11/2024; Cass. n. 31919 del 28/10/2022).
Nel presente giudizio, l’azione di responsabilità, proposta nel 2014, è stata ritenuta tempestiva, essendosi ritenuto applicabile il termine decennale di prescrizione, termine sospeso fin tanto che gli amministratori erano in carica. Nella specie, il COGNOME è cessato dalla carica di Presidente del C.d.A. nel 2011.
3.2. Oggetto di doglianza non è tanto il dies a quo individuato per la decorrenza del termine, quanto la ritenuta applicazione dell’art.2941 n. 7 c.c., quale ipotesi normativa eccezionale (« tra le persone giuridiche e i loro amministratori finché sono in carica per le azioni di responsabilità contro di essi ») non estensibile in via analogica.
Invero, sotto il primo profilo, le ricorrenti si limitano solo a dedurre, del tutto genericamente, che il decorso della prescrizione dovrebbe iniziare dalla data « della delibera del 26/6/2004 (con la quale sarebbe avvenuta «la asserita dismissione parziale del fondo mutualistico) », in relazione quindi al solo acquisto dell’immobile sede dell’associazione, laddove la condotta contestata e accertata nel merito attiene all’acquisto sia di tale immobile, nel 2004, sia del complesso immobiliare relativo al Centro sportivo, negli anni 20072008.
In relazione al secondo, e principale, profilo di doglianza, occorre rilevare che la Corte costituzionale, con sentenza n. 86 del 26 giugno 2025, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per
contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., dell’art. 2941, primo comma, n. 7, c.c., nella parte in cui non prevede la sospensione della prescrizione tra le associazioni non riconosciute e i loro amministratori, finché sono in carica, per le azioni di responsabilità contro di essi. La Corte Costituzionale ha osservato, in premessa, che si tratta di una norma che non è suscettibile di applicazione analogica, in quanto connotata da eccezionalità, e che la stessa Corte ha già dichiarato costituzionalmente illegittima, nella parte in cui non trova applicazione a due tipologie di società prive della personalità giuridica: le società in accomandita semplice (sentenza n. 322 del 1998) e quelle in nome collettivo (sentenza n. 262 del 2015). La ratio della disciplina è stata individuata in un’esigenza di natura sostanziale, costituita dalla difficoltà che l’ente incontra sia nell’avere piena cognizione dell’operato degli amministratori, sì da poter acquisire informazioni idonee a evidenziare una loro eventuale responsabilità, sia nel promuovere l’azione, fintantoché i destinatari della stessa conservino l’incarico gestionale e una posizione di preminenza decisionale (ancora le sentenze n. 262 del 2015 e n. 322 del 1998).
La Corte ha evidenziato che la persistenza di una disciplina che subordina alla titolarità della personalità giuridica dell’ente la sospensione del termine prescrizionale per l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori determina un’irragionevole disparità di trattamento rispetto alle associazioni riconosciute, in quanto il riconoscimento giuridico, diversamente da quanto si riteneva nell’epoca in cui è stato emanato il codice civile del 1942, non determina una linea di demarcazione correlata alla dimensione della soggettività e anche gli enti privi di personalità giuridica, fra cui le associazioni non riconosciute, sono autonomi centri di imputazione di situazioni giuridiche soggettive, la cui differenza rispetto alle compagini dotate di personalità giuridica non opera sui
rapporti interni fra gli amministratori e l’ente ma riguarda essenzialmente il piano dei rapporti esterni (art. 38 cod. civ.).
La Corte Costituzionale ha, inoltre, soggiunto che l’irragionevole disparità di trattamento si verifica anche nei riguardi delle società in accomandita semplice e delle società in nome collettivo, per le quali l’illegittimità costituzionale della mancata sospensione della prescrizione è già stata dichiarata -rispettivamente, con le sentenze n. 322 del 1998 e n. 262 del 2015 -, nonostante la presenza di strumenti di garanzia che operano a favore dei soci, di modo che la medesima omissione determina, a fortiori , un vulnu s all’effettività del diritto di difesa dell’ente nei confronti degli amministratori, fintantoché essi sono in carica, per le associazioni non riconosciute, per le quali simili rimedi non sono contemplati.
La sopravvenuta sentenza di accoglimento della Corte costituzionale ha effetti erga omnes e impedisce di applicare la norma preclusiva, dichiarata incostituzionale, alle situazioni e ai rapporti, come nella specie, ancora pendenti (artt. 136 Cost. e 30, terzo comma, della legge n. 87 del 1953; vedasi per un caso di applicazione della sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale Cass. n. 15075 del 4/6/2025).
La statuizione sul punto della Corte d’appello risulta pertanto conforme al diritto.
3.3. Si deve quindi concludere per l’infondatezza della doglianza, non tanto alla luce della giurisprudenza sopra richiamata secondo la quale l’associazione non riconosciuta, ancorché sfornita di personalità giuridica, deve comunque essere considerata come un centro di imputazione di situazioni giuridiche distinto dagli associati, cui sono analogicamente applicabili, in mancanza di diversa previsione di legge o degli accordi associativi, le norme stabilite in materia di associazioni riconosciute o di società, quanto in forza della recentissima declaratoria di illegittimità costituzionale secondo la quale la causa di sospensione del termine di
prescrizione di cui all’art.2941 n. 7 c.c. si deve applicare anche all’azione di responsabilità degli amministratori dell’associazione non riconosciuta di cui all’art.18 c.c..
4. Il quarto motivo denuncia falsa applicazione dell’art.2117 c.c., quanto alla pretesa distrazione del fondo mutualistico istituito dall’Associazione. Si deduce che la Corte di Appello « a pag. 7, punto 7.1 della propria sentenza, affrontando cumulativamente il primo, il terzo e il quarto motivo di impugnazione, assume che alla fattispecie, in relazione al fondo mutualistico di cui al relativo regolamento, sarebbe stata applicabile, come già rilevato dall’attrice e dal Tribunale nella sentenza n. 49/2022 (che la Corte ha confermato) la disciplina di cui all’art. 2117 c.c., da cui, per l’effetto, l’intangibilità dello stesso fondo nella sua consistenza e, di conseguenza, il divieto di distrazione dello stesso dal fine al quale era stato destinato ».
E si lamenta che la norma invocata, di cui all’art. 2117 c.c., essendo contenuta nel libro V « del lavoro », titolo II « del lavoro e dell’impresa », capitolo 1, Sez. III, par. 3, è norma che attiene, in maniera specifica, al rapporto di lavoro e all’ipotesi specifica dei fondi integrativi previdenziali costituiti dall’apporto del datore di lavoro e del lavoratore o del solo datore di lavoro; quindi, il fondo previsto dall’art. 2117 c.c. appartiene a tipologia diversa da quella che riguarda il fondo mutualistico istituito in seno ad una associazione non riconosciuta.
Nel caso in esame, tale divieto non sarebbe invece previsto cosicché l’operazione, « mediante la quale parte assai minima di quel fondo dell’associazione (€. 300.000,00 rispetto alla liquidità ivi giacente ed infruttifera di €. 800.000,00, come accertato dalla CTU condivisa dai giudici del merito) è stata destinata all’acquisto dell’immobile da adibire a sede dell’associazione, venendosi così solo a modificare la consistenza qualitativa del fondo suddiviso in liquidità ed immobilizzazioni rispetto all’iniziale sola liquidit à», non
ha comportato alcuna distrazione né alcun danno, ma solo una modifica qualitativa del contenuto del fondo, del tutto legittima.
Le norme statutarie (artt.24 e 29) non escluderebbero la possibilità che anche il fondo mutualistico potesse essere investito in immobili.
4.1. La doglianza è inammissibile, in quanto non viene colta la complessiva ratio decidendi della sentenza impugnata.
Va, anzitutto, premesso che in nessuna parte del par.7.1 della sentenza impugnata si fa riferimento al disposto dell’art.2117 c.c.
Al par.7.2, invece, della sentenza impugnata, dedicato proprio alla contestazione della distrazione delle risorse del Fondo mutualistico, vi è un riferimento a una violazione dell’art.2117 c.c.
Ma la Corte d’appello ha fatto derivare la necessità di integrità del Fondo mutualistico dall’art. 3 dello Statuto, laddove prevede che l’oggetto sociale di RAGIONE_SOCIALE sia rivolto alla promozione di « a) attività formative a favore dei Soci; b) attività culturali e ricreative; c) attività assistenziali esclusivamente a favore dei Soci Ordinari in caso di situazioni di disagio derivanti da malattia o da gravi situazioni familiari, da erogare tramite il fondo mutualistico e secondo l’apposito regolamento; d) Convenzioni con enti pubblici e privati, attività sociali e sportive pubbliche e private ».
Pertanto, il Fondo Mutualistico, afferma la Corte territoriale, è stato costituito esclusivamente in vista della realizzazione del precipuo scopo assistenziale di cui al punto c) dell’art.3 dello Statuto e a beneficio dei soli soci ordinari.
La Corte d’appello ha poi spiegato che, pur potendo il patrimonio del Fondo RAGIONE_SOCIALE « essere investito in beni più o meno liquidabili in funzione di una valutazione temporale di necessità di utilizzo dello stesso », « nondimeno, a norma dello Statuto e del Regolamento, il Fondo RAGIONE_SOCIALE non poteva certamente essere impiegato in investimenti immobiliari non produttivi di alcun reddito, rispondenti a mere logiche di
investimento immobiliare (come nel caso dell’acquisto dell’immobile, già deputato a sede dell’Associazione e detenuto in comodato d’uso gratuito) ovvero a finalità meramente culturali e ricreative (come nel caso dell’acquisto di Centro Sportivo in San Martino in Campo) ed inidonei a consentire uno smobilizzo repentino onde far fronte alla precipua finalità assisten ziale».
La censura, peraltro, mira ad una rivisitazione nel merito del danno patito dall’associazione conseguente all’attività distrattiva posta in essere dal de cuius delle odierne ricorrenti.
Anche i motivi quinto e sesto sono inammissibili, perché lamentano una erronea ricognizione dell’onere probatorio, sotteso all’azione di responsabilità per mala gestio degli amministratori.
Ma si svolgono considerazioni errate sull’onere probatorio, che non ricade, nella lite in esame, nell’alveo della responsabilità aquiliana (atteso che l’associazione non riconosciuta comune si basa su un accordo di natura contrattuale).
Nella specie, la Corte d’appello ha chiaramente evidenziato come l’attrice RAGIONE_SOCIALE aveva esercitato un’azione contrattuale di responsabilità dell’amministratore, ex art.2393 c.c., per inadempimento al mandato conferitogli. L’associazione aveva l’onere di allegare l’esistenza dell’incarico e l’inadempimento, ricadendo sul debitore (nella specie, il Presidente dell’Associazione sino al 2011 e, dopo il suo decesso, le eredi) l’onere di offrire la prova liberatoria dell’esatto adempimento o dell’impossibilità di adempiere per causa non imputabile.
In ogni caso, in punto di onere di allegazione e prova, la prova del danno arrecato alla associazione è stata offerta dall’attrice mediante ampia documentazione e anche attraverso il richiamo ad una consulenza tecnica di parte (della dott.ssa NOME COGNOME, svolta su incarico del Pubblico Ministero nell’ambito di un procedimento penale (cui le eredi del COGNOME non avevano partecipato), ragion per cui appare che parte attrice avesse già
assolto alla allegazione di una base probatoria, sufficiente per la decisione.
Nessuna violazione delle norme sull’onere della prova risulta quindi compiuta dalla Corte d’appello.
6. Nel settimo motivo del presente ricorso per cassazione, si lamenta il rigetto, in primo e secondo grado, di tutte le istanze istruttorie formulate (ritrascritte nel ricorso per cassazione), di esibizione documentale e prova per interrogatorio formale e testi su varie circostanze volte a chiarire come alcun inadempimento fosse ipotizzabile a carico dell’ex amministratore.
In particolare, si era chiesto di provare che la banca, proprietaria dell’immobile ove era la sede dell’Associazione, inoltre, aveva richiesto all’Associazione la restituzione dei locali di INDIRIZZO intendendo alienare quell’immobile, offrendolo prima alla stessa Associazione a prezzo vantaggioso rispetto all’effettivo valore di mercato, trattandosi di associazione composta dai suoi dipendenti o ex dipendenti.
E si lamenta che il rigetto di tali richieste istruttorie non risulti specificamente motivato, essendolo solo genericamente e con frasi di stile, ossia con le parole: « parzialmente inerenti la medesima documentazione alla cui acquisizione le convenute si sono opposte nel giudizio di primo grado; parzialmente involgenti documentazione già ritualmente depositata da parte attrice; involgenti circostanze pacifiche ovvero da provarsi documentalmente; parzialmente smentite dalle allegazioni istruttorie di parte attrice e, in ogni caso, superflue… ».
Si sarebbe quindi addebitato alle convenute un preteso mancato assolvimento di quell’onere, dopo aver respinto ogni richiesta di prova dalle medesime formulata, accogliendo, per converso, la domanda attrice « nonostante che, essa sì, fosse risultata non provata, come peraltro confermato anche in sede di CTU, condivisa dalla Corte, ma non apprezzata nel suo reale contenuto ».
6.1.La censura è inammissibile, in quanto: a) da un lato, l’emanazione di ordine di esibizione è discrezionale e la valutazione di indispensabilità non deve essere neppure esplicitata, cosicché il relativo esercizio è svincolato da ogni onere di motivazione e il provvedimento di rigetto dell’istanza non è sindacabile in sede di legittimità, neppure sotto il profilo del difetto di motivazione, trattandosi di strumento istruttorio residuale, utilizzabile soltanto quando la prova dei fatti non possa in alcun modo essere acquisita con altri mezzi e l’iniziativa della parte istante non abbia finalità esplorativa (Cass. 27412/2021); b) dall’altro, essendosi la Corte territoriale pronunciata sulle istanze istruttorie anche di prove orali, ritenendole inammissibili sotto vari profili, il giudizio sulla superfluità o genericità della prova testimoniale è insindacabile in cassazione, involgendo una valutazione di fatto che può essere censurata soltanto se basata su erronei principi giuridici, ovvero su incongruenze di ordine logico (Cass. civ. 21 novembre 2022, n. 34189; Cass. civ. 10 settembre 2004, n. 18222) e l’apprezzamento sull’influenza e pertinenza dell’interrogatorio, riservato al giudice di merito, costituisce valutazione di natura meramente discrezionale che non è soggetta a sindacato di legittimità, quando sia sorretta da motivazione esente da vizi logici o giuridici (Cass. civ. 24 maggio 1979, n. 3002; Cass. civ. 7 novembre 1974, n. 3411).
Ciò detto, la statuizione impugnata non è affetta da alcuna « illogicità » riguardo alla decisione negativa sulle richieste istruttorie.
Il settimo motivo è inammissibile anche perché, denunciando insufficiente motivazione in ordine al rigetto delle istanze probatorie formulate, ripropone e sottopone alla Corte indistintamente l’intero complesso delle istanze probatorie disattese dalla corte territoriale.
Questa Corte ha chiarito che (sez. 1 n. 30721/24) « Il vizio di motivazione per omessa ammissione della prova testimoniale o di
altra prova può essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui esso investa un punto decisivo della controversia e, quindi, ove la prova non ammessa o non esaminata in concreto sia idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi risulti priva di fondamento ».
Sicché era onere delle ricorrenti chiarire specificamente per ogni mezzo probatorio disatteso le ragioni di decisività e rilevanza del mezzo la cui trascuratezza si sarebbe tramutata in vizio motivazionale.
L’ottavo, il nono e il decimo motivo, afferenti alle metodologie adottate dalla Corte territoriale, per il quantum del danno risarcibile, e denuncianti anche vizi di motivazione apparente, sono invece fondati.
7.1. In relazione all’acquisto dell’immobile sede dell’associazione, la Corte territoriale si è limitata a osservare che non vi era prova alcuna che l’operazione immobiliare avesse ingenerato una immediata plusvalenza per il fondo in considerazione dell’acquisto ad un prezzo inferiore rispetto al valore di mercato, né risultava provato che l’immobile avesse avuto una qualche redditività (ad es. con affitti dei locali).
In relazione all’acquisto successivo del Centro sportivo, la Corte territoriale ha dato atto del fatto che il danno è stato parametrato sulla differenza tra l’esborso per l’investimento immobiliare (€ 400.000,00) ed il valore post -demolizione parziale che mantenevano i beni all’esito degli interventi programmati. E si è posto in evidenza come l’operazione, essendo previsto un poderoso intervento di ristrutturazione del compendio immobiliare, era stata già ex ante imprudente.
Il nuovo Consiglio d’Amministrazione, « in ragione della totale dissipazione delle risorse necessarie anche solo ad avviare le opere
di ricostruzione, ha successivamente deliberato la vendita dell’immobile, oramai costituito dal solo fondo munito di potenzialità edificatoria, alla somma di € 130.000,00 ».
Quanto alla censura, mossa in appello, circa l’omessa valutazione dell’abbattimento dei costi di finanziamento, da € 596.379,71 ad € 130.000,00 in sede transattiva con l’Istituto mutuante, la stessa è stata ritenuta dalla Corte d’appello infondata in quanto i « costi di finanziamento iniziali» non erano stati «neppure considerati in sede di quantificazione del danno ».
7.2. Nell’ottavo motivo di ricorso, si denuncia la violazione dell’art.1223 c.c., deducendosi che il risarcimento possa essere riconosciuto se ed in quanto vi sia a monte un inadempimento e il danno che ne consegue – c.d. danno-conseguenza -sia l’effetto immediato e diretto di quell’inadempimento.
Nella specie, si lamenta che la Corte d’appello, dopo avere affermato, quanto all’ an debeatur , che il fondo mutualistico non avrebbe dovuto essere distratto, non ha specificato, ai fini del danno, quale sia stata la conseguenza di quel preteso inadempimento, e si è limitata, quanto alla pretesa perdita subita, a fare riferimento solo ad elementi contabili « non documentati » (le spese di ristrutturazione), riferiti, peraltro, unicamente all’acquisto del Centro sportivo di San Martino, avvenuto nel 2008, e indicati nella relazione della Dott. COGNOME già consulente del PM e poi dell’attrice.
E si deduce che per l’acquisto dell’immobile, sede dell’associazione, un danno non è stato neppure allegato dall’attrice. Né il danno può essere collegato causalmente alla pretesa distrazione del fondo, come parrebbe dalla sentenza impugnata, che comunque sul punto null’altro spiega.
Nel nono motivo, si denuncia anche la carenza motivazionale.
Nel decimo motivo, poi, le ricorrenti si dolgono del mancato riconoscimento del criterio di diminuzione dell’importo risarcitorio dettato dall’art. 1227 c.c.
Ciò in quanto, essendo stato alienato il centro sportivo dal nuovo C.d.A., mentre erano « in corso i lavori di ristrutturazione », la pretesa perdita subita, rispetto a tale centro sportivo o complesso immobiliare, sarebbe stata, in realtà, « l’effetto diretto ed immediato, sotto il profilo causale, della condotta del successore, che ne ha deliberato la vendita ad un prezzo vile di appena €. 130.000,00, nonostante il vantaggioso acquisto al prezzo di €.400.000,00 rispetto al suo reale valore di €. 650.000,00, eseguito poco tempo prima ».
La perdita non poteva essere riconducibile unicamente all’operato dell’ex Presidente COGNOME, quanto meno, ma anche a quello del nuovo C.d.A., che aveva venduto il compendio « a prezzo irrisorio ».
7.3. Questa Corte (Cass. VI 4770/23) ha chiarito che « la rilevabilità d’ufficio del concorso di colpa della vittima di un fatto illecito, di cui all’art. 1227, comma 1, c.c., non è incondizionata, dovendo coordinarsi con gli oneri dell’allegazione e della prova; ne discende che la questione del concorso colposo è rilevabile d’ufficio, in primo grado, allorché risultino prospettati gli elementi di fatto dai quali sia desumibile la sussistenza d’una condotta colposa del danneggiato, che abbia concausato il danno e, in grado di appello, se in primo grado ne sia stato omesso il rilievo, ove la parte interessata abbia impugnato la sentenza che non ha provveduto sull’eccezione ovvero la abbia riproposta quando la questione sia rimasta assorbita ».
Non è ammissibile sollevare tale rilievo nella fase di legittimità se non nelle forme dell’impugnazione di specifico capo motivazionale della sentenza di appello.
Ma, nella specie, si deduce, dalla stessa sentenza impugnata, che le convenute avevano invocato una riduzione del preteso danno,
riconducibile alla disposizione di cui al primo comma dello stesso art. 1227 c.c., a causa del comportamento del nuovo C.d.A. dell’associazione, lamentandosi che, se quest’ultimo avesse usato l’ordinaria diligenza e avesse portato a termine, in tutto o in parte, la ricostruzione di quanto demolito del centro sportivo San Martino, avrebbe potuto ricavare dalla vendita non il prezzo, definito « vile », di €. 130.000,00, ma un prezzo maggiore.
E si deduce, in ricorso, come fosse risultato in causa che il Centro sportivo era stato acquistato previa contrazione di un mutuo con la Banca dell’Umbria di €. 650.000,00, su perizia del valore dello stesso Centro per €. 672.000,00 (vd. pag. 24 CTU), e che quel mutuo in sede di transazione con la banca mutuante era stato estinto mediante pagamento della somma di €. 130.000,00, rispetto al residuo dovuto di €. 586.379,71 (« vd. Comunicazioni Unicredit 6/5/2016 e Do Bank 20/10/2016 e 3/11/2016, prodotte ex adverso con i docc. 28, 30, 31 e 32 fasc. primo grado ACAR, che si allegano sub. lett. E del fascicoletto per motivi di autosufficienza, doc. 3 »). Conseguenza ne è, si denuncia, che l’associazione in ordine al costo sostenuto per il centro sportivo mediante l’accensione del mutuo « ha avuto una riduzione pari ad €. 456.379,71 (€. 586.379,71 -€. 130.000,00) » di cui si lamenta che si sarebbe dovuto tener conto in sede di quantificazione del preteso danno.
7.4. Orbene, la motivazione della sentenza impugnata, in ordine alla liquidazione del danno patrimoniale riconosciuto spettante all’associazione non riconosciuta, è in effetti del tutto carente.
A fronte delle doglianze mosse dalle appellanti anche in punto di quantum liquidato in primo grado, nella considerevole cifra, in linea capitale, di complessivi € 663.628,00, la Corte territoriale non ha risposto in modo esaustivo e chiaro.
Nell’appello, si deduceva, in punto di necessità di liquidazione di un « danno-conseguenza » ex art.1223 c.c. (pagg.3435 dell’atto di
appello), che: a) alcun danno era derivato dall’acquisto, nel 2004, dell’immobile sede dell’associazione, in quanto, anzi, un « ritorno compensa tivo» lo si era avuto per il prezzo vantaggioso al quale era stato ceduto dalla Cassa di Risparmio di Perugia e comunque il valore del bene si era incrementato nel corso degli anni; b) di per sé la « distrazione » per utilizzo parziale del fondo mutualistico, ai fini dell’acquisto della sede dell’associazione, non implicava un danno patrimoniale; c) quanto al contestato Centro sportivo acquistato nel 2007-2008, esso aveva un valore rilevante, come da perizia della banca in sede di istruttoria per la concessione del mutuo, era stato acquistato ad € 400.000,00, prezzo inferiore al valore di mercato stimato, e comunque era stato venduto, a seguito di demolizioni (« svenduto » secondo le appellanti), al prezzo di € 130.000,00 dal nuovo C.d.A. dell’associazione, corrispondente al valore del mutuo residuo, ridotto dalla banca mutuante in via transattiva; d) le spese per la ristrutturazione erano rimaste prive di evidenza contabile (come confermato dalla consulente tecnica d’ufficio in primo grado) e quindi non potevano essere conteggiate come voce di danno.
A fronte di tali specifiche censure, la Corte d’appello si è limitata ad affermare che si doveva imputare al Trequattrini non solo l’incauto acquisto di compendio immobiliare in violazione delle norme statutarie e regolamentari, nel difetto di adeguata copertura economica in prospettiva già ex ante , ma anche la demolizione delle opere murarie nel difetto di risorse idonee a garantirne la successiva ricostruzione, e il grave decremento di valore che aveva imposto la vendita alla cifra di € 130.000,00, onde evitare un aggravamento della posizione debitoria e che non assumeva alcun rilievo l’abbattimento dei costi di finanziamento iniziali, neppure considerati in sede di quantificazione del danno.
La motivazione risulta sul punto gravemente carente, in quanto non spiega le ragioni del rigetto delle censure mosse dalle appellanti sul quantum debeatur liquidato in primo grado.
Come chiarito dalle Sezioni Unite (Cass. S.U. 22232/2016), « La motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perchè affetta da “error in procedendo”, quando, benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture » (Cass. 6758/2022).
Per tutto quanto sopra esposto, vanno accolti i motivi primo, secondo, ottavo, nono e decimo del ricorso, inammissibili o infondati i restanti, e va cassata la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’appello di Perugia, in diversa composizione.
Il giudice del rinvio provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie i motivi primo, secondo, ottavo, nono e decimo del ricorso, inammissibili o infondati i restanti, cassa la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte d’appello di Perugia, in diversa composizione, anche in punto di liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
Così deciso, in Roma, nella camera di consiglio del 10 giugno 2025.