Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 35068 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 35068 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 30/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 22420/2023 R.G. proposto da :
NOMECOGNOME elettivamente domiciliato in NAPOLI CENTRO DIREZIONALE INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME che lo rappresenta e difende
-ricorrente-
COGNOME NOME COGNOME elettivamente domiciliati in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME che li rappresenta e difende unitamente agli avvocati COGNOME NOME COGNOME NOME
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME
-controricorrente-
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO NAPOLI n. 3430/2023 depositata il 18/07/2023.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 18/12/2024 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
1.- Il ricorso riguarda la sentenza n. 3430/2023 emessa dalla Corte di Appello di Napoli che ha confermato la decisione resa dal locale Tribunale nel giudizio di responsabilità promosso dal Fallimento RAGIONE_SOCIALERAGIONE_SOCIALE in liquidazione (di seguito solo «RAGIONE_SOCIALE») nei confronti degli ex componenti dell’organo amministrativo (ossia, in questa sede, il dott. COGNOME avendo gli altri amministratori transatto la lite con il fallimento) e dell’organo di controllo della società fallita (ossia in questa sede, il solo dott. COGNOME avendo il dott. COGNOME dichiarato di rinunciare al ricorso con l’accettazione del fallimento, e dovendo, dunque il giudizio dichiararsi estinto quanto al relativo rapporto processuale), per ottenere il risarcimento dei danni arrecati al patrimonio della società e di conseguenza ai creditori sociali nell’intervallo di tempo tra la costituzione della società RAGIONE_SOCIALE) e la sua messa in liquidazione (19.7.2012).
1.1- La controversia era stata introdotta con atto di citazione nel luglio 2015 dal Fallimento della società dichiarata fallita il 9.10.2012 deducendo, in particolare, che gli organi gestionali e di controllo si erano resi responsabili di gravi violazioni degli obblighi su di loro rispettivamente incombenti in ragione delle funzioni gestorie o di controllo della società di cui erano incaricati ed in relazione, in sintesi:
al finanziamento per acquisto di azioni proprie ex art. 2358 c.c. effettuato a favore della RAGIONE_SOCIALE società lussemburghese di nuova costituzione divenuta unico socio della RAGIONE_SOCIALE attraverso una serie di atti giuridici posti in essere per frodare la legge e che aveva cagionato alla RAGIONE_SOCIALE un danno, di almeno di 22
milioni di euro (pari al costo del finanziamento acceso per finanziare l’acquisto di dette azioni);
all’indebita corresponsione di ingenti somme di denaro, per oltre 11 milioni di euro, a titolo di retribuzione da lavoro dipendente solo simulatamente svolto da NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME gli ultimi due anche membri del consiglio di amministrazione unitamente a NOME COGNOME ed NOME COGNOME;
alla violazione degli artt. 2, 13 e 14 del d.lgs. 471/1997 commessa eludendo la tassazione sui dividendi distribuiti ai soci effettivi della RAGIONE_SOCIALE negli anni 2006, 2007 e 2008, tramite l’utilizzo in frode alla legge del regime di defiscalizzazione di cui all’art. 27 del D.P.R. n. 600/1973, applicato ai rapporti tra controllante (la RAGIONE_SOCIALE) e controllata (la RAGIONE_SOCIALE), che aveva cagionato a quest’ultima un danno ci circa 18 milioni di euro per le sanzioni e gli interessi poi addebitatile dall’Agenzia delle Entrate;
alla negoziazione sconsiderata di prodotti derivati sui noli marittimi (cd. contratti a termine o forward freight agreement ), per lo più al di fuori di mercati regolamentati, che aveva cagionato alla RAGIONE_SOCIALE un danno di oltre 39 milioni di euro.
1.2- In fatto, evidenziava per quel che qui interessa che:
(a) la società era stata costituita agli inizi del 2005 su iniziativa della RAGIONE_SOCIALED.C.N.), attiva sin dal 1969, con oggetto sociale il trasporto marittimo internazionale di merci, facente capo alla prima generazione delle famiglie COGNOME COGNOME e COGNOME. La D.C.N. ne era divenuta sua unica socia con l’acquisizione delle quote dei pregressi soci per appena 10.000,00 € e con la contestuale sottoscrizione di un aumento di capitale sociale per nuove n. 588.000 azioni del valore nominale di 10,00 € l’una maggiorato di 251,0544 per ogni singola azione, così creando una riserva sovrapprezzo azioni di 147.620.000,00 €, aumento di capitale liberato (per assenza di
liquidità) mediante conferimento di ramo d’azienda, comprendente 11 motonavi libere da ipoteca del valore stimato di circa 153 milioni di euro;
(b) la newco era stata utilizzata come strumento per trasferire tutte le attività patrimoniali della D.C.N. alla seconda generazione dei COGNOME, degli COGNOME e dei COGNOME, per mezzo della costituzione nel maggio del 2005 di una società di diritto lussemburghese, la RAGIONE_SOCIALE (a sua volta riconducibile a tre subholding – la RAGIONE_SOCIALE, la RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE– controllate a loro volta da tre trusts – Marco Polo, COGNOME ed RAGIONE_SOCIALE– i cui disponenti costituivano la seconda generazione dei COGNOME, dei COGNOME e dei COGNOME ed i cui beneficiari erano i membri di terza generazione): invero alla RAGIONE_SOCIALE aveva trasferito tutte le azioni della newco RAGIONE_SOCIALE di cui era titolare verso il corrispettivo di circa 163 milioni di euro da pagare in più tranche; contestualmente le aveva trasferito (in quanto socio unico) la riserva sovrapprezzo azioni di 147.200.000,00 € di RAGIONE_SOCIALE, ma, poiché tale riserva – come detto -era stata liberata dalla D.C.N., anziché in danaro, mediante conferimento in natura del proprio ramo d’azienda, la RAGIONE_SOCIALE aveva fatto ricorso, ai fini dello svincolo di detta riserva, ad un prestito bancario ipotecario di 142.000.000,00 €.;
(c) in detto contesto NOME COGNOMEodierno ricorrente -che in precedenza era stato revisore contabile della RAGIONE_SOCIALE quale supervisor della KPMG S.p.A., era stato chiamato dalla Poseidon ad amministrare la RAGIONE_SOCIALE: dal 28.6.2005 al 12.1.2007 quale A.U. e dal 13.1.2007 al 20.7.2009 come presidente del CdA; mentre il dott. NOME COGNOMEl’altro ricorrente aveva composto, con NOME COGNOME e NOME COGNOME nel ruolo di presidente, il primo collegio sindacale della RAGIONE_SOCIALE in carica dal 7 marzo 2005 al 23 dicembre 2005.
(d) NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, nel periodo compreso tra il 2005 ed il 2012 -benché assunti come impiegati di settimo livello, con mansioni di addetti, rispettivamente, alla gestione del personale, al dipartimento tecnico ed ai contratti di noleggio, con una retribuzione mensile lorda non superiore alla media dei 6/9 mila euro -avevano percepito una retribuzione lorda rispettivamente di 3.844.967,00 €, di 3.470.066,00 € e di 3.866.323,00 €, con degli incrementi a titolo di bonus ed altro, deliberati dal C.d.A. -pur nella consapevolezza da parte degli amministratori e dei sindaci dell’epoca che avevano omesso al riguardo qualsiasi controllo -della totale assenza di qualsiasi vincolo di subordinazione dei tre dipendenti nei confronti dell’organo gestorio e della società di cui essi erano in effetti i domini , e, quindi, della simulazione del rapporto d’impiego funzionale al trasferimento di ingentissime somme ai predetti, che, privi di causa, costituivano sostanzialmente atti distrattivi del patrimonio sociale;
(e) NOME COGNOME ed NOME COGNOME (che ha transatto la lite con la curatela) nel periodo dal 2005 al 2008 avevano deliberato la distribuzione delle riserve formatesi con gli utili dell’anno pregresso a favore della RAGIONE_SOCIALE sfruttando il regime di detassazione di cui al citato art. 27 del D.P.R. 600/1973, pur consapevoli che le somme in esame erano destinate alle persone fisiche di NOME ed NOME COGNOME e di NOME COGNOME, ai quali, pertanto, avevano distribuito utili senza operare, quale sostituto d’imposta, le ritenute alla fonte, come accertato da parte dell’Agenzia delle Entrate, che, per questa ragione, tra il 2011 ed il 2012, aveva irrogato alla D.S. sanzioni per circa 18 milioni di euro;
(f) NOME COGNOME ed NOME COGNOME, col concorso degli organi di controllo, nel periodo dal 2006 al 2012, avevano posto in essere un’attività collaterale a quella propria della società, chiedendo cospicui finanziamenti alle banche da destinare alla
negoziazione dei cc.dd. FFA ( Forward Freight Agreement ), contratti a termine di titoli finanziari, per lo più su mercati non regolamentati, cagionando notevoli danni alla società amministrata.
– Il convenuto NOME COGNOME come anche il convenuto COGNOME -odierni ricorrenti eccepivano la nullità dell’atto di citazione la prescrizione dell’azione sociale di responsabilità, l’inammissibilità dell’azione dei creditori ex art. 2394 c.c., concludendo, nel merito, per il rigetto dell’azione per infondatezza delle contestazioni.
3.Espletata una consulenza tecnica d’ufficio e dichiarato estinto il processo nei rapporti tra la Curatela attrice, da una parte, e i convenuti che avevano con questa transatto la controversia – il Tribunale, per quel che in questa sede rileva, con la sentenza appellata accoglieva la domanda ridotta dalla Curatela entro i limiti del danno quantificato in 1.200.000,00 euro, già rivalutato, condannando a pagare detta somma tutti i convenuti in solido tranne COGNOME COGNOME e COGNOME (componenti del primo collegio sindacale in carica fino al 23 dicembre 2005), la cui condanna veniva limitata alla somma di 195.361,16 euro.
In particolare il Tribunale, rigettate le eccezioni preliminari di nullità dell’atto di citazione, di prescrizione dell’azione sociale, di inammissibilità dell’azione ex art. 2394 c.c., respingeva nel merito il primo addebito mosso dal fallimento attore ai convenuti, accoglieva il secondo, e riteneva assorbiti gli altri.
La sentenza è stata impugnata da NOME COGNOME e dai sindaci COGNOME e COGNOME in sintesi deducendo, per quel che qui ancora interessa, (a) l’erroneità del rigetto dell’eccezione di inammissibilità dell’azione ex art. 2394 c.c. per assenza di prova dei suoi presupposti costitutivi (insufficienza patrimoniale) e per mancata prova del nesso di causalità tra condotta e danno; (b) l’erroneità del rigetto dell’eccezione di prescrizione dell’azione sociale di responsabilità; (c) l’erronea statuizione di fondatezza
della contestazione della curatela relativa alla simulazione del rapporto di lavoro di NOME e NOME COGNOME e di NOME COGNOME nei confronti della RAGIONE_SOCIALE laddove non vi era prova della simulazione di detto rapporto nè della conoscenza da parte degli amministratori e sindaci della proprietà esclusiva della società in capo a costoro; né comunque vi era incompatibilità tra lavoro subordinato e posizione di soci, anche di maggioranza, o membri del C.d.A. ove il lavoratore non avesse esercitato in modo esclusivo il potere di gestione; (d) l’erronea statuizione relativa all’imputazione ai sindaci appellanti a titolo di danni dell’importo di 84.600,00 euro, pari alla voce «varie» corrisposta a NOME COGNOME e NOME COGNOME nel mese di dicembre 2005, e ciò poiché tale voce era stata riportata nel libro unico del lavoro solo nel mese successivo alle loro dimissioni, onde non ne avevano potuto avere notizia e conoscenza in funzione delle loro attività di controllo.
3.1 La sentenza è stata impugnata anche da UnipolSai assicurazioni -che si è rimessa a giustizia sui motivi d’appello proposti da Amarante e dai sindaci- nonché dal Fallimento della D.S. che ha riproposto le domande risarcitorie dichiarate assorbite dal Tribunale in relazione alla stipula irragionevole dei contratti a termine (cd. F.F.A. o Forward Fright Agreement ) su mercati non regolamentati, nonché alle sanzioni irrogate dall’agenzia delle entrate per avere la DS distribuito utili ai soci senza effettuare le ritenute alla fonte
4.- La Corte, riuniti i procedimenti d’appello, ha respinto il gravame osservando:
(a) che l’insufficienza patrimoniale richiesta dal secondo comma dell’art. 2394 c.c. come presupposto dell’azione dei creditori sociali -valevole anche agli effetti della decorrenza del termine di prescrizione dell’azione -deve sussistere all’epoca della proposizione dell’azione stessa in funzione dell’interesse ad agire dell’attore e non – come erroneamente sostenuto dagli appellanti
all’epoca della cessazione dall’incarico dell’amministratore e dei sindaci – sicché correttamente il giudice di prime cure aveva ritenuto infondata l’eccezione di inammissibilità dell’azione poiché all’epoca della sua proposizione l’insufficienza patrimoniale -intesa come prevalenza del passivo sull’attivo, con conseguente perdita della garanzia patrimoniale generica della società ex art. 2740 c.c.era evincibile in via presuntiva per effetto della dichiarazione di fallimento della D.S. intervenuta il 9 ottobre 2012, quando la società aveva registrato un deficit patrimoniale accumulato pari a quasi mezzo miliardo di euro (richiama orientamento costante giurisprudenza di legittimità, Cass. n. 3552/2023; Cass. n. 13378/2014);
(b) che era infondata la censura relativa alla inammissibilità dell’azione dei creditori sociali per mancata allegazione e prova del nesso di causalità tra condotte dannose e insufficienza patrimoniale e di quest’ultima stessa entrambi attinenti comunque al merito dell’azione e non alla sua ammissibilità poiché, da un lato, il presupposto in fatto dell’insufficienza patrimoniale non doveva valutarsi al momento in cui ciascun amministratore era cessato dalla carica -come preteso dall’appellante COGNOME deducendo che all’atto della sua cessazione dalla carica di amministratore, risalente al 2009, la società aveva un patrimonio netto positivo, desumibile dai bilanci del 2009 e del 2010 – per oltre 100 milioni di euro -bensì come ritenuto dal Tribunale – al momento della dichiarazione di fallimento, poiché il presupposto della responsabilità prevista dagli art. 2392 e 2394 c.c. esercitate dalla curatela, ovvero il danno al patrimonio sociale o l’insufficienza di questo al soddisfacimento dei creditori, ben poteva essere conseguenza delle condotte attive ed omissive produttive di danni manifestatisi o accertati anche a distanza di tempo rispetto alla cessazione dalle cariche gestorie o di controllo;
(c) che era infondata anche la censura con cui gli appellanti/convenuti si dolevano del mancato esame da parte del primo giudice dell’eccezione di prescrizione dell’azione sociale di responsabilità riproposta in sede d’appello, perché, avendo il fallimento esercitato sia l’azione di cui all’articolo 2392 c.c. che quella di cui all’articolo 2394 c.c. « ha cumulato tutti i vantaggi derivanti dalla diverse azioni, che mantengono la loro autonomia nella natura giuridica e nei presupposti, ed è incontestato che quella dei creditori sociali non risulta prescritta» ;
(d) che, nel merito, contrariamente a quanto affermato dall’appellante COGNOME, il Tribunale non aveva affermato che soci o amministratori non possono avere rapporti di lavoro subordinato con le società relative, né che se stipulati detti contratti devono considerarsi simulati e quindi inesistenti, bensì che NOME ed NOME COGNOME e NOME COGNOME in quanto domini effettivi della società – tale status emergendo dalla serie di indizi indicati in sentenza cui la Corte di merito si riportava – non potevano considerarsi lavoratori subordinati, tale rapporto richiedendo un vincolo di subordinazione gerarchica nella specie non ipotizzabile; e che l’esame degli altri documenti prodotti in giudizio delle parti confermava il ragionamento seguito dal Tribunale nel senso che: (i) costoro erano i titolari di una holding di fatto che controllava tutte le società facenti capo al RAGIONE_SOCIALEche aveva costituito RAGIONE_SOCIALE; (ii) la sentenza del Tribunale di Torre Annunziata che aveva dichiarato il fallimento di tale holding confermata dalla Corte d’appello di Napoli e anche dalla Corte di Cassazione, dunque passata in giudicato, aveva affermato che i COGNOME e i COGNOME e i componenti della famiglia COGNOME avevano sempre considerato le società italiane ed estere del Gruppo RAGIONE_SOCIALE e, quindi, i loro beni e i loro rispettivi patrimoni, propri e dei familiari, un unicum indistinto da gestire al di fuori delle regole societarie; (iii) ancor prima, l’ordinanza cautelare del GIP del Tribunale di Torre
Annunziata del 12 luglio 2012 aveva affermato l’esistenza di un unicum indistinto delle società facenti capo al Gruppo, in ragione anche delle dichiarazioni del COGNOME -amministratore della RAGIONE_SOCIALE società all’apice del gruppo italiano- che affermava di essere un mero esecutore delle decisioni prese dai COGNOME, dai COGNOME e dai COGNOME, e così anche la sentenza del Tribunale penale di Roma del 2014 sulla base delle dichiarazioni di un altro amministratore della RAGIONE_SOCIALE, succeduto ad COGNOME –NOME COGNOME, rimasto contumace nel giudizio – secondo cui la società era di fatto amministrata da NOME e da NOME COGNOME e da NOME COGNOME e che la RAGIONE_SOCIALE suo socio unico, era amministrata da soggetti che esprimevano la volontà dei suddetti amministratori di fatto; (iv) infine la sentenza del Tribunale di Torre Annunziata, sez. lavoro, aveva riconosciuto la simulazione del rapporto di lavoro subordinato tra la RAGIONE_SOCIALE e COGNOME e COGNOME, accertando che nella società si era creata una situazione di potere da parte di questi soggetti tale da incidere sulle scelte gestorie e operative dei singoli organi amministrativi;
(d) che il giudice civile poteva utilizzare come fonte del proprio convincimento, in contraddittorio con le parti, prove atipiche e, dunque, anche gli elementi probatori raccolti in un diverso giudizio, soprattutto quando detti elementi abbiano ad oggetto una situazione di fatto rilevante in entrambi i giudizi (come affermato da Cass. n. 9843/2014 e Cass. n.15714/2010): dunque i verbali della polizia giudiziaria utilizzati nel processo penale e le dichiarazioni ivi raccolte che costituivano indizi gravi e precisi e concordanti da cui desumere che NOME ed NOME COGNOME nonché NOME COGNOME così come erano amministratori di fatto e domini della D.C.N. lo erano anche della D.S., il che bastava per ritenere simulato il loro rapporto di lavoro con la RAGIONE_SOCIALE stessa in quanto non potevano considerarsi- come preteso – meri soci di maggioranza della società né solo membri di diritto per un certo
periodo del suo CDA, bensì i proprietari indiscussi della società stessa, siccché era difficilmente immaginabile una loro subordinazione gerarchica ad Amarante quale A.U. dal 28.6.2005 al 12.1.2007 e poi presidente del C.d.A. dal 13.1. 2007 al 20.7.2009; sicché la situazione di dominio effettivo della D.S. da parte di costoro – le cui decisioni sulla società venivano prese sempre all’unanimità – doveva ritenersi equiparabile alle ipotesi in cui vi era un unico soggetto gestore, donde valeva il principio per cui non possono coincidere « la qualità di esecutore subordinato della volontà sociale e quella di organo competente ad esprimere tale volontà » (così, sia pure in relazione a una società di persone, Cass.n. 10909/2019 Cass. n. 7312/2013);
(e) che non valevano a smentire tali conclusioni le difese dell’COGNOME:
e.1- l’esistenza di contratti sottoscritti e registrati e il versamento delle imposte e dei contributi previdenziali, poiché ciò rientrava nella tipica attività posta in essere per simulare l’esistenza del rapporto di lavoro e, per quanto riguarda il versamento dei contributi, il presupposto truffaldino per conseguire benefici pensionistici indebiti;
e.2- la questione delle competenze professionali e manageriali dei COGNOME e del COGNOME ai fini dei risultati raggiunti da D.S. o il fatto che le loro retribuzioni fossero in linea con quelli previsti dal C.C.N.L per manager del loro medesimo livello, fatti irrilevanti, rilevante essendo, piuttosto, che dette capacità manageriali non potevano essere messe a disposizione della D.S., per mezzo del rapporti di lavoro subordinato chiaramente solo simulati, omettendo le cautele, le verifiche e le informazioni normalmente richieste per una scelta di quel tipo operata in quelle circostanze e con quelle modalità; modalità che, invero, avevano visto l’erogazione di bonus di eccezionale rilevanza solo a costoro: invero era stato deciso dal C.d.A. tra il 2006 e il 2007 un incremento
retributivo tramite bonus destinati solo apparentemente a tutti gli amministratori, essendo in realtà elargiti per la quasi totalità agli amministratori proprietari, molto superiore alla retribuzione spettante a questi ultimi quali impiegati di settimo livello pari a circa 6.000 euro al mese; in particolare a COGNOME Angelo era riconosciuta nel quinquennio 2007- 2012 una retribuzione lorda di euro 3.470.066,00 di euro, a COGNOME Pasquale nel settennio 2005-2012 una retribuzione lorda complessiva di 3.844.967,00 di euro, a NOME COGNOME nello stesso periodo una retribuzione lorda complessiva di 3.866.323,00); ed a parte detti rilevanti premi di produzioni, il CTU aveva rilevato anomalie sulla basta paga derivanti dal fatto che la voce «super minimo contrattuale» – di regola ricomprendente ogni altro incremento, di per sé più che raddoppiata negli anni dal 2007 al 2009 -era stata riconosciuta in aggiunta ad altre voci in essa in astratto ricomprese, quali la «differenza assorbibile» (che, anziché diminuire come di regola avviene, era aumentata senza alcuna pattuizione espressa) lo «straordinario forfettizzato», «l’integrazione minima contrattuale» e «l’indennità di funzione», anch’esse voci loro volta raddoppiate e addirittura decuplicate tra il 2007 e il 2009;
(f) che perciò non solo l’entità degli incrementi di retribuzione, ma le modalità con cui venivano riconosciute in conflitto di interessi e con le anomalie riscontrate nella busta paga dal C.T.U, portavano « con rassicurante certezza far concludere che gli amministratori della RAGIONE_SOCIALE susseguitesi nel tempo erano a conoscenza del fatto che i reali proprietari della società erano i COGNOME e i COGNOME con i quali non avrebbero potuto stipulare i contestati i rapporti di lavoro, da considerare quindi solo simulati e inesistenti »;
(g) che detta consapevolezza doveva ritenersi provata presuntivamente -quanto ad COGNOME– per il fatto che questi era inserito da tempo nel Gruppo COGNOME, essendo stato revisore contabile della RAGIONE_SOCIALE quale supervisore della RAGIONE_SOCIALE, e poi
chiamato dalla Poseidon ad amministrare la RAGIONE_SOCIALE, onde non era credibile che egli non conoscesse l’assetto proprietario del gruppo e in particolare quello della Poseidon e, quindi, anche della D.S. (conoscenza che, del resto, era emersa dalle dichiarazioni di NOME COGNOME definitosi, appunto, mero esecutore delle direttive dei COGNOME e del COGNOME, nonché da quelle rese dall’avv. COGNOME, amministratore della D.C.N. dal 3.2.2012, nel procedimento penale aperto a carico dei COGNOME e del COGNOME che ha sostanzialmente confermato la predetta struttura del Gruppo RAGIONE_SOCIALE e, in particolare, della RAGIONE_SOCIALE. e della RAGIONE_SOCIALE facente capo ai tre trust s di cui disponenti erano i COGNOME i COGNOME e gli COGNOME, secondo uno schema fornitogli dagli uffici amministrativi e dai dati rilevati dagli atti a sua disposizione, « riservandosi di depositare in seguito tutta la documentazione idonea a identificare i soggetti variamente interessati dai trust sopra indicati »: dichiarazione, quest’ultima, che dimostrava – contrariamente a quanto affermato dall’COGNOME -che tutti gli amministratori della società del gruppo avevano accesso ai documenti idonei a provare il collegamento tra i trusts e le varie società del gruppo, invero, diversamente, il COGNOME non si sarebbe riservato di depositare atti da lui non acquisibili; (viii) che infine assumevano rilevanza anche le dichiarazioni rese da NOME COGNOME al giornale Porto & Diporto nel giugno 2008 secondo cui la creazione di più società e in particolare della D.S. aveva lo scopo di ripartire le attività societarie tra le varie generazioni delle famiglie COGNOME, COGNOME e COGNOME;
(h) che, parimenti, per i componenti del collegio sindacale in carica dal 7.3.2005 al 23.12.2005 condannati in primo grado a rifondere al fallimento 195.361,16 € pari all’importo versato a NOME COGNOME e a NOME COGNOME a titolo di retribuzioni riconosciute indebite perché relative a contratti simulati che costoro «non potevano non conoscere» sin dalla loro assunzione la
situazione proprietaria che rendeva simulati i rapporti di lavoro, onde avrebbero dovuto sollecitare l’amministratore a non stipulare questi contratti e, in caso di inerzia, denunciare i fatti al Tribunale ex art.2409 c.c.;
(i) in particolare quanto alla specifica doglianza proposta da COGNOME e COGNOME circa la voce retributiva «varie» pari a 84.600,00 euro corrisposta nel mese di dicembre 2005, che non rilevava la conoscenza delle specifiche voci retributive corrisposte e la dedotta impossibilità di esercitare il controllo sulla loro elargizione, quanto, piuttosto, il fatto che sin dall’inizio i sindaci avrebbero dovuto rilevare e impedire l’instaurazione del rapporto di lavoro subordinato così impedendo l’elargizione di tutto quanto versato nel periodo in cui erano stati sindaci della D.S.
4.1La conferma della sentenza impugnata quanto alla condanna degli appellanti poteva essere fondata – pur solo nei confronti di NOME COGNOME anche sulla base dell’altra domanda riproposta dal fallimento in sede d’appello e ritenuta assorbita in primo grado dal Tribunale, relativa al risarcimento dei danni prodotti ai creditori sociali ex art. 2394 c.c. attraverso la negoziazione sconsiderata di prodotti derivati sui noli marittimi (i c.d. F.F.A Forword Fright Agreement) da COGNOME a decorrere dal 2005 e da COGNOME a decorrere dal 2009/2010, con un danno al patrimonio sociale di oltre 39 milioni di euro.
4.1.1 – In proposito ha rilevato la Corte che:
(a) detti contratti derivati erano contratti a termine in cui le parti in posizioni opposta di compratore ( buyer ) e venditore ( seller ) si impegnavano a versare o a riscuotere a una data prestabilita futura ( settlement date ) un importo determinato cosiddetto differenziale ( netting ) che fosse maturato tra il corrispettivo fissato per il nolo su una certa rotta di una nave «virtuale» al momento della stipulazione del contratto ed un indice di quotazione dei noli pubblicato a Londra (dal Baltic Exchange Index BDI ) denominato
market Index , alla data di liquidazione, calcolato su un capitale convenzionale detto anche il «capitale nozionale» in base all’andamento di un indicatore di riferimento;
(b) che diversamente da quanto sostiene COGNOME, detta attività non poteva considerarsi complementare a quella tipica del settore di riferimento della D.S., e, comunque, come attività di copertura del rischio dei contratti fisici di nolo sottostanti di carattere non speculativo, che aveva portato, comunque, alla società nel periodo da lui amministrata risultati positivi per oltre 20 milioni di euro mentre le perdite dovevano attribuirsi alla gestione successiva; dovendosi, bensì, considerare estranea all’oggetto sociale (desumibile dalla visura camerale che non contemplava lo svolgimento di una simile attività finanziaria, tantomeno nell’ambito di mercati non regolamentati), nonché tutt’altro che strumentale al raggiungimento dell’oggetto sociale, in quanto oggetto di cospicui finanziamenti presso istituti bancari, tanto da assumere carattere principale ed autonomo rispetto all’oggetto sociale, fonte di un danno grave alla società e ai suoi creditori: dal’esame della CTU espletata nel giudizio di primo grado, ritenuta attendibile e corretta, era emerso che tra il 20 luglio 2005 e il 4 gennaio 2010 erano stati conclusi circa 58 contratti di FFA con finalità speculativa finanziati con ricorso al credito bancario e che a decorrere dal 2006 tale attività aveva assunto carattere prevalente rispetto a quella tipica in ragione del valore dei crediti e dei debiti generati dalla negoziazione di FFA rispetto a crediti e debiti complessivi della D.S, tanto che cominciava a perdere importanza e rilevanza solo a decorrere dall’anno 2010;
(d) che, sempre contrariamente a quanto ritenuto dall’amministratore COGNOME, il risultato della gestione dei derivati -come aveva concluso motivatamente il CTU -era stato complessivamente negativo, avendo questi accertato che nel periodo in cui COGNOME era stato A.U. e poi presidente del C.d.A.
della D.S., dai conti delle plusvalenze e minusvalenze finanziarie allegate dal Fallimento era emerso una situazione che solo apparentemente risultava positiva (tranne che per l’anno 2008) perché l’esame del fair value (inteso come il prezzo teorico al quale il derivato dovrebbe essere scambiato affinché per chi acquista il contratto sia indifferente la scelta tra mantenere la posizione aperta fino alla scadenza e finanziarsi per l’acquisto del sottostante) dei vari anni – in particolare degli anni dal 2008 e sino al 20 luglio 2009 – era risultato sostanzialmente negativo, come documentato nella CTU: invero i risultati negativi di detti anni erano tali da annullare il risultato positivo di circa 20 milioni di euro indicato dall’COGNOME come prodotto della gestione degli FFA, risultando un residuo negativo e, dunque, un danno per la D.S. di 39.420.051,00 euro; inoltre il CTU dava conto di circa 80 derivati in cui di cui era difficile valutare la solvibilità delle controparti, stipulati tra maggio settembre 2008 per importo considerevoli sul mercato regolamentato, i cui effetti economici negativi s (per la posizione c.d. lunga assunta come buyer dalla D.S.) i erano verificati negli anni successivi, tanto che il consulente ha concluso che anche una parte del fair value negativo esistente alla data del 31.12.2009, ovvero 5 mesi dopo dalle dimissioni dell’Amarante e pari ad 69.352.028,00 euro, era attribuibile alle perdite derivanti da tali contratti;
(e) che COGNOME aveva deciso in modo quasi solitario, ragionevolmente col consenso dei soci COGNOME e COGNOME, di ricorrere a ingenti finanziamenti bancari riportati nel libro dell’assemblea dei soci, avendo firmato personalmente almeno dal settembre 2008 tutti i contratti di FFA, tanto che a decorrere da quella data, su specifica richiesta dei contraenti del settore, l’Assemblea aveva deliberato di ratificare detti contratti fino a quel momento stipulati dal solo COGNOME e di concedere a ciascun membro del CdAil potere di firma disgiunta;
(f) che, pur riconoscendo l’insindacabilità delle scelte dell’organo gestorio nel perseguimento degli scopi sociali (c.d. business judgment rule ) doveva concludersi che tutte le operazioni in questione diventavano sindacabili laddove per la loro quantità e per la modalità con cui erano state condotte denotavano un’assenza colpevole di preventiva informazione, una irragionevolezza tipica di un agente che decide in modo arbitrario, per cui la condotta dell’COGNOME andava considerata gravemente negligente e concausa determinante del danno sopra descritto e quantificato; tanto emergendo anche dai verbali estratti dal libro del collegio sindacale che esprimeva forti preoccupazioni per l’attività finanziaria collaterale di negoziazione in strumenti derivati, svolta dalla società per parte rilevante con operazioni fuori bilancio, tant’è che considerati i mancati incassi di rilevanti crediti, il collegio sindacale richiedeva notizie sulla natura delle operazioni finanziarie che avevano dato luogo all’insorgere di minusvalenze e all’approvazione di un memorandum interno che indicasse, in particolare, poteri obblighi e responsabilità del financial risk manager e dei suoi collaboratori, obiettivi e politiche della società in materia di gestione del rischio finanziario, politiche di copertura per tutte le categorie di operazioni previste, e modalità di controllo del rischio finanziato; del resto, a comprova della risultato negativo dell’attività e, quindi, della colpa dell’COGNOME, vi erano anche i dati desunti dalla relazione della gestione del 2008, secondo cui la gestione finanziaria risultava notevolmente peggiorata rispetto al 2007 in quanto su di essa aveva inciso in maniera predominante l’andamento relativo al secondo semestre del 2008 del mercato dei noli; nonostante il quale andamento l’Amarante, proprio nel secondo semestre detto, contrariamente a ogni elementare regola di diligenza perizia e prudenza, aveva stipulato a decorrere da maggio 2008, una serie notevole di derivati nella posizione di buyer , quindi di rialzista laddove era
prevedibile e probabile, invece, una rapida discesa del valore dell’indice di riferimento del settore ( Baltic Exchange Index BDI) che aveva raggiunto proprio in quel periodo, dopo un progressivo rialzo a decorrere dal 2006 il massimo storico, con un valore del 600% superiore al valore medio nei 23 anni precedenti.
Sicché anche con riguardo a detta condotta negligente dell’Amarante la Corte riteneva provato il danno e il rapporto di causalità, con conseguente condanna del primo a pagare al Fallimento l’importo di 1.200.000 € somma entro cui la curatela fallimentare stessa aveva limitato la propria domanda
4. -Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione NOME COGNOME affidandolo a cinque motivi, corredato di memoria, nonchè i sindaci NOME COGNOME e NOME COGNOME (quest’ultimo avendovi, poi, rinunciato) affidandolo a due motivi. Ha resistito il Fallimento RAGIONE_SOCIALE, che ha depositato memoria. Al ricorso dei due sindaci ha resistito anche NOME COGNOME essendo stato il ricorso medesimo anche a questi notificato.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.Il primo motivo del ricorso proposto dal dott. COGNOME denuncia la nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c. comma 1 n. 4 c.p.c. in relazione alla violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c comma 2 n. 4 c.p.c., in quanto sarebbe solo apparente la motivazione di rigetto del motivo d’appello con cui era stata censurata la sentenza di prime cure a proposito della dimostrazione della natura simulata dei contratti di lavoro dei dipendenti NOME COGNOME e NOME COGNOME e, soprattutto, della conoscenza che il dott. COGNOME avesse dei rapporti di dominio dei suddetti dipendenti sulla società e, quindi, della natura simulata del loro rapporto di lavoro. Secondo il ricorrente nella sentenza sul punto la Corte d’appello avrebbe solo affermato che i sindaci «non potevano non conoscere tale situazione proprietaria», sicché non si
comprenderebbe l’iter logico seguito dalla Corte d’appello per pervenire alla decisione assunta, né quali fossero le prove sulle quali ha fondato il suo convincimento. Tale apparenza della motivazione non sarebbe, poi, colmata dal richiamo alle circostanze richiamate dalla Corte di merito per confermare la conoscenza della situazioni di dominio predetta da parte dell’altro appellante, dott. NOME COGNOME -amministratore della fallita dal giugno 2005 al luglio 2009 – che non potrebbero ritenersi riferibili ai sindaci in carica sino a dicembre 2005 riguardando le dichiarazioni di COGNOME riferite solo gli amministratori, così come quelle di COGNOME avvenute successivamente alla cessazione della carica di COGNOME ed essendo lo straordinario incremento retributivo riconosciuto tra il 2007 e il 2012 al COGNOME e al COGNOME riferito al un periodo in cui il COGNOME non era in carica.
1.1 Il motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato: inammissibile nella misura in cui deduce l’apparenza della motivazione raffrontandola a quanto affermato dai ricorrenti con i motivi d’appello, poiché la denuncia di motivazione apparente va formulata come incomprensibilità della ratio decidendi e non in base al confronto con le risultanze processuali . E’ infatti denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (Cass. sez. U. n. 8053 del 2014). Va inoltre rammentato che è possibile ravvisare una motivazione apparente solo nel caso in cui le argomentazioni del giudice di merito siano, diversamente da quanto accaduto nella specie, « del tutto inidonee a rivelare le ragioni della decisione e non consentano l’identificazione dell’iter logico seguito per giungere alla conclusione fatta propria nel dispositivo risolvendosi in espressioni assolutamente generiche, tali da non permettere di
comprendere la ratio decidendi seguita dal giudice, altresì precisandosi che un simile vizio deve apprezzarsi non rispetto alla correttezza della soluzione adottata o alla sufficienza della motivazione offerta, bensì unicamente sotto il profilo dell’esistenza di una motivazione effettiva (cfr. Cass. n. 16117 del 2024; Cass. nn. 33961 e 27501 del 2022; Cass. n. 395 del 2021); infondato nel riferirsi semplicemente alla motivazione resa con l’affermazione « non potevano non conoscere » perché, in realtà, detta conclusione presuppone tuti gli argomenti svolti nelle pagine precedenti dalla sentenza qui gravata, che attengono alla struttura proprietaria del gruppo, che, evidentemente, la Corte d’appello ha ritenuto non solo accessibile ma conoscibile e quindi colposamente ignorata dai sindaci in ragione del loro ruolo di controllo e delle loro competenze.
2.- Il secondo motivo denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 1223, 2047, 2056, 2043 c.c. in riferimento all’art. 360, n. 3 c.p.c. con riguardo alla quantificazione dei danni ed in particolare all’inclusione della voce «varie» riportata nel libro unico del lavoro in relazione al mese di dicembre 2005 per l’importo complessivo di 84.600 euro. Secondo il ricorrente, che avevano contestato nell’appello la quantificazione del danno predetto sostenendo che l’art.39 del D.L. n.112/2008 stabilisce che il libro unico del lavoro deve essere compilato per ciascun mese di riferimento entro la fine del mese successivo, per cui, allorquando i sindaci avevano cessato la loro carica, il 23 dicembre, non potevano ancora essere a conoscenza (in assenza di prova contraria) dei dati e delle voci – compresa la voce «varie», inseriti nel libro unico a gennaio 2006 con riferimento al mese di dicembre 2005. Sicché la Corte d’appello avrebbe violato l’art. 1223 c.c. -ovvero il principio per cui il danno risarcibile deve essere avvinto da nesso di causalità immediata e diretta con l’inadempimento dell’obbligazione -nel ritenere i sindaci in carica fino al 23
dicembre responsabili anche del danno relativo alle retribuzioni corrisposte senza titolo nel mese di dicembre.
2.1 -Il motivo è inammissibile per due ragioni:
(a) poiché si tratta di censura che attiene al giudizio di fatto circa il danno conseguenza, che è riservato al giudice del merito; invero « l’errore compiuto dal giudice di merito nell’individuare la regola giuridica in base alla quale accertare la sussistenza del nesso causale tra fatto illecito ed evento è censurabile in sede di giudizio di legittimità ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., mentre l’eventuale errore nell’individuazione delle conseguenze derivanti dall’illecito, alla luce della regola giuridica applicata, costituisce una valutazione di fatto, come tale sottratta al sindacato di legittimità se adeguatamente motivata (così Cass. n. 9985/2019, Cass. Sez. n. 4439/2014; in senso analogo, tra le altre, Cass. n. 26997/2005 fino a risalire al “leading case”, costituito da Cass. Sez. n. 3061/1962» (v.Cass, Sez. Un. n.9769/2020); ciò detto, non ci sono dubbi che, nel caso di specie, ciò che il ricorrente contesta non è l’applicazione della regola sul nesso causale, quanto l’apprezzamento delle conseguenze derivanti dalla sua applicazione, pretendendo, quindi, un sindacato di merito inammissibile in questa sede;
(b) perché non si confronta con la ratio decidendi del giudice di merito che nella specie ha affermato che i sindaci avrebbero dovuto rilevare ed impedire l’instaurazione del rapporto di lavoro cui sono collegate -secondo il nesso di causalità giuridica accertato dal giudice le elargizioni in questione: invero la Corte d’Appello -come già il Tribunale – sul punto ha affermato che la specifica doglianza non era fondata perché non rilevava la conoscenza delle specifiche voci retributive corrisposte ai due amministratori/dipendenti e quindi la possibilità di esercitare il controllo sulla loro elargizione, « quanto piuttosto il fatto che sin dall’inizio i sindaci avrebbero dovuto rilevare ed impedire
l’instaurazione del rapporto di lavoro subordinato così impedendo l’elargizione di tutto quanto versato nel periodo in cui esse erano sono stati sindaci della Shipping ».
3.- Il primo motivo di ricorso di NOME COGNOME denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 132 n.4 c.p.c. e dell’art. 111 Cost., in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c., dolendosi del fatto che la Corte di Appello avrebbe respinto l’eccezione di inammissibilità e/o infondatezza dell’azione risarcitoria ex art. 2394 c.c. senza alcuna effettiva motivazione sulla questione sollevata dall’appellante, nonché la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2394 c.c. nonché degli art. 2697 c.c., 115 e 116 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., perché la Corte di merito avrebbe ritenuto ammissibile l’azione ex art. 2394 c.c., nonostante la carenza dei presupposti previsti dalla norma, vale a dire il nesso di causalità tra le asserite condotte illegittime e il danno che avrebbe determinato o contribuito a determinare l’insufficienza patrimoniale della società.
L’ex amministratore denuncia, in sintesi, che i giudici dell’appello non avrebbero affrontato la questione precipuamente sollevata dall’odierno ricorrente e denunciata come presupposto di inammissibilità e/o infondatezza dell’azione risarcitoria ex art. 2394 c.c., ovvero che i danni asseritamente derivanti dalle condotte illegittime imputabili all’Amarante non avrebbero cagionato o contribuito a cagionare l’insufficienza patrimoniale della società, poi fallita, né avrebbe valutato che, dalla stessa prospettazione attorea, si sarebbe potuto evincere « che l’entità dei danni indicati come derivanti dalle condotte imputate all’RAGIONE_SOCIALE era di ammontare notevolmente inferiore rispetto al patrimonio netto della società, alla data in cui il ricorrente era cessato dalla carica ». La motivazione, dunque, sarebbe «solamente apparente», ed anzi mancherebbe del tutto; al contempo la Corte avrebbe violato i principi che regolano l’imputazione giuridica causale dei danni non
mergendo come le condotte dell’COGNOME avrebbero determinato o concorso a determinare l’insufficienza patrimoniale.
3.1- Il motivo è infondato quanto alla censura di assenza di motivazione sul punto, poiché in sede di legittimità il controllo della motivazione è limitato al minimo costituzionale, ovvero alle fattispecie nelle quali esso si converte in violazione di legge, il che accade solo quando il vizio di motivazione sia così radicale da comportare, con riferimento a quanto previsto dall’art. 132 c.p.c., n. 4, la nullità della sentenza per «mancanza della motivazione», intesa come «mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico», nella «motivazione apparente», nel «contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili» e nella «motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile» (Cass. S.U. n.8053/2014), il che qui non ricorre.
3.2. Inoltre è inammissibile sotto il profilo della violazione di legge poiché non coglie e, quindi, non si confronta con la ratio decidendi della pronuncia gravata, la quale nel rigettare l’eccezione di inammissibilità dell’azione dei creditori sociali, (correttamente) osserva che l’insufficienza patrimoniale richiesta dal secondo comma dell’art. 2394 c.c. è un presupposto dell’azione dei creditori sociali che deve sussistere all’epoca della proposizione dell’azione stessa in funzione dell’interesse ad agire dell’attore, e non – come erroneamente sostenuto dagli appellanti – all’epoca della cessazione dall’incarico dell’amministratore.
Il ricorrente, invero, (confondeva e) confonde il presupposto dell’azione, id est l’insufficienza patrimoniale (ovvero lo sbilancio tra attività e passività che lede la garanzia generica dei creditori rappresentata dal patrimonio dell’ente ex art. 2740 c.c.) con la fondatezza dell’azione proposta nei confronti del preteso responsabile di detta insufficienza: il primo attiene ad una condizione dell’azione (l’interesse ad agire) ed è un fatto il cui accertamento prescinde dalla sua imputabilità agli organi di
gestione o controllo dell’ente sociale e che nella specie, come la Corte d’appello afferma (in conformità a Cass. n. 3552/2023; Cass. n. 13378/2014) era evincibile in via presuntiva per effetto della dichiarazione di fallimento della RAGIONE_SOCIALE intervenuto il 9 ottobre 2012, quando la società aveva registrato un deficit patrimoniale accumulato pari a quasi mezzo miliardo di euro; la seconda è questione che presuppone l’accertamento di una condotta illecita collegata secondo un criterio giuridico di causalità alla insufficienza patrimoniale.
Sicchè la censura al rigetto dell’eccezione di inammissibilità basata sull’assenza di un collegamento causale tra condotta dell’Amarante e insufficienza patrimoniale è argomento inconferente su cui insiste il ricorrente non avendo compreso la ratio della decisone sul punto, che risponde -ritenendola infondata all’eccezione di inammissibilità dell’azione stante la presuntiva sussistenza del suo presupposto.
4.- Il secondo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 132 n. 4 c.p.c. e dell’art. 111 Cost., in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c., per avere la Corte d’Appello ritenuto, in mancanza assoluta di motivazione o, comunque, con motivazione apparente o perplessa, infondata l’eccezione di prescrizione dell’azione sociale di responsabilità ex art. 2393 c.c. Il ricorrente lamenta, in particolare, che il Giudice del gravame, nell’esaminare l’eccezione di prescrizione dell’azione sociale riproposta dall’appellante, l’abbia respinta in mancanza assoluta di motivazione in quanto le argomentazioni formulate non attengono alla statuita infondatezza della eccezione « bens ì alla- erroneamente -postulata irrilevanza della stessa ».
Il motivo è inammissibile poiché ancora un volta non coglie la ratio decidendi della statuizione resa- peraltro- su una pretesa omessa pronuncia e non su una pronuncia di infondatezza dell’eccezione.
Come lo stesso ricorrente afferma e come emerge dalla stessa sentenza impugnata la cui motivazione non è né apparente ne’ altrimenti mancante, per quanto sintetica – i giudici di appello hanno respinto il motivo di gravame che censurava l’omessa pronuncia sul punto del giudice di primo grado, ritenendo che l’esame dell’eccezione di prescrizione dell’azione sociale, promossa dalla curatela fallimentare cumulativamente con quella prevista dall’art.2394 c.c., fosse irrilevante risultando « incontestato che quella dei creditori sociali di cui all’art. 2394 c.c. non risulta prescritta ». Perciò la censura qui svolta -pur cogliendola -non si confronta con la ratio decidendi che -facendo applicazione di principi consolidati in materia nella giurisprudenza di legittimità e di merito – non ha ritenuto necessario pronunciare sul merito dell’eccezione mancando il relativo interesse a fronte della tempestività dell’azione dei creditori sociali cumulativamente svolta dalla curatela, che si fonda « sull’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione del patrimonio sociale » degli amministratori. La questione quindi della prescrizione dell’azione sociale di responsabilità deve ritenersi che sia stata assorbita dalla corte territoriale. Il ricorrente avrebbe potuto semmai dolersi di un illegittimo assorbimento, dimostrando, però, il relativo interesse, e quindi confrontandosi realmente con la ratio decidendi.
4.2- Vale la pena qui rammentare -viste anche le difese svolte a corredo del ricorso nella memoria ex art 378 che l’azione di responsabilità esercitata dal Curatore ex art. 146 l.f. è volta a far valere unitariamente la responsabilità di amministratori, liquidatori e sindaci ex art. 2392 e 2394 c.c. (richiamati per i liquidatori dal combinato disposto degli art. 22762452 c.c. e per i sindaci dall’art. 2407 c.c.) in vista della ricostituzione del patrimonio della società, che costituisce, anche garanzia dell’integrale soddisfacimento dei creditori sociali ex art. 2740 c.c (v. Cass. n. 19340/2016 e più di recente Cass.23452/2019: « L’azione di responsabilità esercitata dal
curatore ex art. 146, comma 2, legge fall. cumula in sé le diverse azioni previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c. a favore, rispettivamente, della società e dei creditori sociali, quale strumento di reintegrazione del patrimonio sociale unitariamente considerato a garanzia sia degli stessi soci che dei creditori sociali: essa implica una modifica della legittimazione attiva, ma non dei presupposti delle rispettive azioni (Cass.19340/2016). In particolare, il curatore acquista ex art. 146 I.f. la legittimazione ad esercitare le stesse azioni che prima del fallimento spettavano separatamente alla società ed ai creditori sociali »). L’esercizio unitario di dette azioni da parte della Curatela (per cui i presupposti di fatto dell’una possono costituire altresì presupposti dell’altra, come accade ove le condotte illegittime degli organi sociali determinino danni al patrimonio sociale tali da determinare la sua insufficienza a soddisfare i creditori) non toglie -come affermato negli arresti di legittimità richiamati – che le stesse mantengano le loro caratteristiche proprie, anche quanto a regime della prescrizione: l’azione sociale di responsabilità si prescrive in cinque anni a far data dal momento in cui la condotta illecita ha prodotto il danno; l’azione dei creditori sociali si prescrive in cinque anni dalla data in cui si verifica ed è oggettivamente conoscibile l’insufficienza patrimoniale (art. 2949 c.c ); tale data ben può essere anteriore alla dichiarazione dello stato di insolvenza, ma l’onere della prova di detta anteriorità spetta a coloro che intendono avvalersi della eccepita prescrizione dell’azione. L’unitarietà dell’esercizio, però, comporta logicamente che ove la prescrizione dell’ azione di creditori sociali non sia contestata (o sia infondata) sia del tutto superflua l’analisi della eccepita prescrizione dell’azione sociale, poiché la prima è idonea a sorreggere la tempestività della contestazione degli atti di mala gestio che hanno in tesi causato i danni tradottosi nell’insufficienza del patrimonio sociale.
5.- Il terzo motivo, concerne in realtà due diverse doglianze:
(a) « violazione e falsa applicazione dell’art. 132 n. 4 c.p.c. e dell’art. 111 Cost., in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c., per contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, per avere la Corte motivato la responsabilità dell’amministratore per i pagamenti di retribuzioni a quelli che si sarebbe scoperto essere i veri domini della società su due affermazioni in stridente contrasto tra loro », quali sarebbero la statuizione concernente la simulazione dei rapporti di lavoro subordinato e la conseguente indebita corresponsione delle retribuzioni e dei bonus collegati in quanto priva di causa, e l’aver dato atto che grazie all’attività dei i due manager la società fallita avrebbe raggiunto risultati eccezionali nel biennio 2009/2010, come risultante dai relativi bilanci; e ciò -a dire del ricorrentein ragione dell’affermazione con cui i giudici di appello hanno rilevato come non fossero « in discussione in questa sede le capacità manageriali dei sig.ri COGNOME e COGNOME né tanto meno che «grazie ad esse» la fallita ebbe modo di raggiungere gli obiettivi indicati nei bilanci 2009 e 2010»;
(b) « violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2392, 2394 c.c. nonché degli artt. 2697, 2727, 2729 c.c., 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., per avere la Corte di Appello configurato la responsabilità del dott. COGNOME sulla base di una condotta, (…), non illegittima, né inadempiente e, comunque, non pregiudizievole per il patrimonio sociale », posto che sarebbe indubbio che i sig.ri COGNOME e COGNOME abbiano svolto attività lavorativa per conto della RAGIONE_SOCIALE e che, grazie ad essa, la società ha raggiunto risultati eccezionali e che quindi le retribuzioni sono state pagate a fronte di un’attività effettivamente svolta e di straordinaria importanza per la società, in misura in linea con la prassi del settore; sicchè non si comprenderebbe su quali presupposti sia stata ritenuta configurabile la responsabilità dell’RAGIONE_SOCIALE, tantomeno potendosi tale responsabilità reggere sul
solo assunto che all’COGNOME fosse noto il fatto che i suddetti manager erano gli effettivi proprietari della società: punto, quest’ultimo, sul quale la statuizione resa dalla Corte d’Appello poggerebbe su un’evidente violazione dei principi in materia di prova presuntiva, poiché ciascuna delle circostanze di fatto richiamate dalla Corte d’Appello sarebbe priva dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, sicchè essa non avrebbe potuto affatto dedurre dalle stesse il «fatto ignoto», ossia la conoscenza in capo all’COGNOME della qualità personale dei manager; ferma, comunque, la assoluta irrilevanza di una siffatta ipotizzata ‘conoscenza’ considerato che il pagamento delle retribuzioni non costituirebbe un atto illegittimo e, in ogni caso, non avrebbe generato alcun danno alla società.
5.1- Il motivo è inammissibile poiché -come è evidente dalla loro illustrazione – entrambe le doglianze sono versate chiaramente «in fatto» nel senso che attengono alle ragioni in fatto che sorreggono il ragionamento decisorio del giudice d’appello circa la prova del carattere simulato del rapporto di lavoro, la conoscenza del fatto che lo rendeva simulato e la sussistenza delle conseguenze pregiudizievoli prodotte alla società in termini di ingiustificate elargizioni.
Si può aggiungere – quanto al primo profilo in cui si articola la censura- che nessuna contraddittorietà logica è ravvisabile nella motivazione in ragione di due affermazioni argomentative che il ricorrente estrapola dal contesto e piega ad una finalità che non è quella che in quel contesto le stesse hanno, essendo chiaro che la Corte d’appello afferma «c he non è in discussione la capacità manageriale» dei sig.ri COGNOME e COGNOME per sottolineare l’irrilevanza della questione al fine di censurare il giudizio del Tribunale in punto impossibilità di considerare NOME ed NOME COGNOME e NOME COGNOME lavoratori «subordinati» in quanto
domini effettivi della società: id est a tutt’altri fini cui la «piega» la censura.
6.- Con il quarto motivo vengono lamentati: a) la « violazione e falsa applicazione dell’art. 115 e 116 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c., in quanto la Corte d’Appello » avrebbe « ritenuto configurabile in capo al dr. Amarante la responsabilità per la negoziazione dei prodotti RAGIONE_SOCIALE, sulla base di una erronea ricognizione e percezione del contenuto oggettivo delle risultanze probatorie »; b) la « violazione e falsa applicazione degli art. 2393 e 2394 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. per avere il giudice di merito acclarato una responsabilità dell’COGNOME ad onta della insussistenza di alcuna condotta illegittima posta in essere dal dott. COGNOME, del nesso di causalità e del verificarsi del relativo danno »; c) la violazione « dell’art. 132 n. 4 c.p.c. e dell’art. 11 Cost., in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c., per contrasto irriducibile tra due affermazioni inconciliabili, in quanto la Corte » avrebbe « affermato che, tra il 2008 ed il 2009, si sarebbe prodotto, per la vicenda in esame (negoziazione dei prodotti RAGIONE_SOCIALE), un danno di oltre 39 milioni, mentre in altra parte della sentenza, ha affermato che il danno si sarebbe prodotto nel 2012» .
In sintesi deduce il ricorrente che l’attività di negoziazione di RAGIONE_SOCIALE non era estranea all’oggetto sociale, come emergerebbe dalla visura camerale della D.S. e come confermerebbe lo stesso CTU, trattandosi, invece, di attività legittima e non sindacabile nel merito (secondo i limiti della business judgment rule); che le perdite sarebbero pacificamente derivate dalla chiusura degli RAGIONE_SOCIALE. operata dall’organo amministrativo successivo alla cessazione del dott. COGNOME dalla carica; che il danno non poteva coincidere, come inteso dalla Corte d’Appello, con il fair value , posto che questo può anche assumere valore negativo quale prezzo teorico di scambio del derivato, ma non per questo incidere sugli utili e/o perdite aziendali.
6.1il motivo è inammissibile in quanto in tutte le sue articolazioni inerisce palesemente al giudizio «in fatto», sia quanto al preteso errore percettivo -che tale non è in quanto non si discute della supposta esistenza o inesistenza di un fatto, la cui verità sia incontestabilmente esclusa o accertata dagli atti di causa, bensì di un’attività interpretativa e valutativa – sia quanto ai fatti posti a fondamento della responsabilità del ricorrente e alle conseguenze pregiudizievoli che ne sarebbero derivate frutto di errori sulla valutazione e interpretazione del materiale probatorio e degli esiti dell’indagine tecnica, dovendosi qui ricordare il consolidato principio secondo il quale tanto l’accertamento dei fatti, quanto l’apprezzamento – ad esso funzionale – delle risultanze istruttorie è attività riservata al giudice del merito: « i n tema di prova, spetta in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, assegnando prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, nonché la facoltà di escludere anche attraverso un giudizio implicito la rilevanza di una prova, dovendosi ritenere, a tal proposito, che egli non sia tenuto ad esplicitare, per ogni mezzo istruttorio, le ragioni per cui lo ritenga irrilevante ovvero ad enunciare specificamente che la controversia può essere decisa senza necessità di ulteriori acquisizioni. Né tale regola subisce eccezioni nel rito del lavoro, nel quale il giudice, all’udienza fissata ex art. 420 cod. proc. civ., può esercitare il suo potere valutativo, in ordine alla rilevanza o meno delle prove, invitando le parti alla discussione, così ritenendo la causa “matura per la decisione” ai sensi del quarto comma del richiamato articolo, e, quindi, implicitamente rigettando le istanze istruttorie formulate dalle parti» (Cass., n. 16499/2009, confermata sistematicamente v. per
tutte Cass. n. 13485/2014; Cass. n. Cass n. 16467/2017) e che « è inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (Cass., Sez. Un., n. 34476 del 2019), quale attività a lui riservata e non riproponibile in sede di legittimità.
Può aggiungersi quanto al terzo profilo di censura che il motivo è inammissibile anche perchè non coglie la ratio della decisione assunta dalla Corte di Appello, che nella sentenza impugnata non ha affatto commisurato al fair value il danno provocato dalla illecita attività di speculazione finanziaria in strumenti derivati, bensì ha utilizzato gli esiti dell’analisi tecnica svolta sul tema del fair value dal CTU per accertare che il complessivo andamento dell’attività di negoziazione in strumenti derivati che « era risultato sostanzialmente negativo (…) producendo nell’anno 2008 un risultato netto negativo di 21.729.542,74 euro pari al saldo tra plusvalenze e minusalenze finanziarie derivanti da attività in strumenti derivati ».
7.Il quinto motivo di ricorso denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2392 e 2394 c.c, 1223 c.c. e dell’art.1304 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. poiché la Corte d’Appello avrebbe confermato la statuizione di condanna secondo l’importo stabilito dal Tribunale nonostante l’intervenuta transazione con alcuni convenuti nel corso del giudizio di appello.
7.1- Il motivo è fondato. Esso attiene alla quantificazione della condanna, erroneamente determinata senza tenere conto delle transazioni intercorse tra il Fallimento e gli altri convenuti, di cui il ricorrente ha chiesto si tenesse conto. Né -diversamente da quanto ritiene il controricorrente Fallimento – è questione che può essere risolta in sede esecutiva- perché è fatto antecedente, e non
successivo, alla formazione del titolo giudiziale. E’ stato quindi esercitato il diritto potestativo previsto dall’art. 1304 c.c., non soggetto a decadenza.
7.2- Sul punto giova ricordare che il primo comma dell’art. 1304 cod. civ., « nel disciplinare gli effetti della transazione intervenuta fra il creditore ed uno dei condebitori solidali, si riferisce alla transazione concernente l’intero debito (solidale), mentre quando l’oggetto del negozio transattivo sia limitato alla quota interna del debitore solidale stipulante, si riduce l’intero debito dell’importo corrispondente alla quota transatta con il conseguente scioglimento del vincolo solidale fra lo stipulante e gli altri condebitori, i quali pertanto rimangono obbligati nei limiti della loro quota ». (Cass. n.7845/2007; Cass. n.8946/2006).
7.3- A fonte di pronunce discordanti sul tema, le Sezioni Unite di questa Corte hanno, infatti, chiarito (v. Cass. sez. Un. n.30174/2011) esprimendo sul punto un principio consolidato, la diversa portata che, di volta in volta, può assumere la transazione intervenuta tra il creditore ed uno di più condebitori solidali.
Decisiva in tal senso è la circostanza che la transazione riguardi l’intero debito o che invece abbia ad oggetto unicamente la quota del debitore con cui è stipulata, ipotesi configurabile sempre che l’obbligazione sia per sua natura scindibile. Sinteticamente le sezioni unite hanno stabilito:
« La transazione pro quota, in quanto tesa a determinare lo scioglimento della solidarietà passiva rispetto al debitore che vi aderisce, non può coinvolgere gli altri condebitori, i quali dunque nessun titolo avrebbero per profittarne, salvo ovviamente che per gli effetti derivanti dalla riduzione del loro debito in conseguenza di quanto pagato dal debitore transigente »;
la previsione dell’art. 1304, primo comma, c.c. non si riferisce a questa fattispecie (in tal senso si vedano anche Cass. n. 16050 del 2009, Cass. n. 14550 del 2009, Cass. n. 7485 del 2007, Cass.
n. 9396 del 2006 e Cass. n. 8946 del 2006) bensì alla transazione riguardante l’intero debito « perché è la comunanza dell’oggetto della transazione a far sì che di questa possa avvalersi il condebitore in solido, pur non avendo partecipato alla sua stipulazione e quindi in deroga al principio secondo cui il contratto produce effetto solo tra le parti»;
«lo stabilire poi se, in concreto, la transazione tra il creditore ed uno dei debitori in solido ha avuto ad oggetto l’intero debito o solo la quota del debitore transigente comporta, evidentemente, un’indagine sul contenuto del contratto e sulla comune volontà che in esso i contraenti hanno inteso manifestare, da compiere ad opera del giudice di merito secondo le regole di ermeneutica fissate negli artt. 1362 e segg. c.c .»;
ove l’indagine sopra menzionata conduca alla conclusione che le parti hanno inteso focalizzare la transazione unicamente su una determinata quota di debito, si pone il problema della risoluzione della questione su quale sia il residuo credito azionabile nei confronti degli altri debitori rimasti estranei, risoluzione sui cui la giurisprudenza non sempre è stata chiara: in taluni casi si è affermato che il credito verso gli altri condebitori si riduce in proporzione alla quota transatta (cfr. Cass, n. 16050 del 2009, Cass. n. 7485 del 2007, Cass. n. 8946 del 2006, Cass. n. 7212 del 2002, Cass. n. 2931 del 1999 e Cass. 7413 del 1991); in altri casi si è detto che esso si riduce in misura pari all’ammontare di quanto il creditore ha già percepito a seguito della transazione (cfr. Cass. n. 5108 del 2011, Cass. n. 14550 del 2009 e Cass. n. 4820 del 1979)
« il risultato -chiarisce la Corte a Sezioni Unite non è però necessariamente il medesimo. Qualora, infatti, la transazione porti all’uscita di scena di uno dei debitori solidali, ma al tempo stesso alla soddisfazione del credito in misura minore rispetto alla quota ideale gravante su quel debitore (…), un conto è affermare che gli
altri condebitori restano tenuti per l’ammontare non soddisfatto del credito (…) , altro dire che il loro debito si riduce in misura proporzionale alla quota ideale del condebitore venuto meno»;
f) considerato, allora, che la transazione parziaria non può né condurre ad un incasso superiore rispetto all’ammontare complessivo del credito originario, né determinare un aggravamento della posizione dei condebitori rimasti ad essa estranei, neppure in vista dei successivo regresso nei rapporti interni, è giocoforza pervenire alla conclusione che il debito residuo dei debitori non transigenti è destinato a ridursi in misura corrispondente all’ammontare di quanto pagato dai condebitore che ha transatto solo se costui ha versato una somma pari o superiore alla sua quota ideale di debito. In caso contrario, se cioè il pagamento è stato inferiore alla quota che faceva idealmente capo al transigente, il debito residuo che resta tuttora a carico solidale degli altri obbligati dovrà essere necessariamente ridotto (non già di un ammontare pari a quanto pagato, bensì) in misura proporzionale alla quota di chi ha transatto, giacché altrimenti la transazione provocherebbe un ingiustificato aggravamento per soggetti rimasti ad essa estranei ».
Hanno quindi affermato il principio di diritto: « Qualora resulti che la transazione stipulata tra il creditore ed uno dei condebitori solidali abbia avuto ad oggetto solo la quota del condebitore che l’ha stipulata, il residuo debito gravante sugli altri debitori in solido si riduce in misura corrispondente all’importo pagato dal condebitore che ha transatto solo se costui ha versato una somma pari o superiore alla sua quota ideate di debito; se, invece, il pagamento è stato inferiore alla quota che faceva idealmente capo al condebitore che ha raggiunto Ìaccordo transattivo, il debito residuo gravante sugli altri coobbligati deve essere ridotto in misura pari alla quota di chi ha transatto».
7.4- Sicchè la sentenza gravata va cassata affinchè il giudice del rinvio tenga conto di tali principi di diritto indicati onde determinare il danno a carico del convenuto COGNOME
8.- In conclusione:
va dichiarato estinto il giudizio con riguardo al rapporto processuale tra il Fallimento COGNOME e NOME COGNOME a spese interamente compensate, come risulta dall’atto di rinuncia al ricorso accettata dalla Curatela;
il ricorso di NOME COGNOME va dichiarato inammissibile. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come nel dispositivo, ai sensi del D.M. 12 luglio 2012, n. 140. Sussistono i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato se dovuto;
il ricorso di NOME COGNOME va accolto con riguardo al quinto motivo, respinti gli altri, con rinvio alla Corte di Appello di Napoli in diversa composizione cui demanda anche la regolazione delle spese della fase di legittimità.
P.Q.M.
La Corte dichiara estinto il giudizio tra il Fallimento RAGIONE_SOCIALE in liquidazione e NOME COGNOME; accoglie il quinto motivo di ricorso di NOME COGNOME cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’Appello di Napoli, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità; dichiara inammissibile il ricorso di NOME COGNOME condanna il ricorrente a rifondere al Fallimento RAGIONE_SOCIALE in liquidazione le spese di lite, liquidate nell’importo di euro 5200,00 euro di cui euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15% sul compenso ed agli accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dalla I. 24 dicembre 2012, n. 228, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari
a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1- bis.
Cosí deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima