Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 20980 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 20980 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 23/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 5133/2019 R.G. proposto da:
COGNOME, elettivamente domiciliato in Roma INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati NOME COGNOME (CODICE_FISCALE), NOME COGNOME (CODICE_FISCALE);
– Ricorrente –
Contro
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in Roma INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati NOME COGNOME COGNOME NOME COGNOME (CODICE_FISCALE, NOME COGNOME (CODICE_FISCALE;
– Controricorrente –
Avverso la sentenza della Corte d’appello di Venezia n. 96/2018 depositata il 28/06/2018.
SANZIONI CONSOB
Udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME nella camera di consiglio del 3 aprile 2025.
Rilevato che:
All’esito della verifica ispettiva condotta presso l’istituto di credito dal 22/04/2015 al 24/02/2016, la Consob, con delibera n. 19932 del 30 marzo 2017, ha applicato a NOME COGNOME, componente del CdA della Banca Popolare di Vicenza (‘BPVi’) dal 10/07/2012, la sanzione pecuniaria di euro 30.000,00 per effetto del cumulo giuridico tra le sanzioni di euro 20.000,00 e di euro 1 5.000,00, ex art. 191 TUF, per l’omissione di rilevanti informazioni nei prospetti relativi ai due aumenti di capitale deliberati nel 2014, il primo dei quali mediante l’emissione di azioni in opzione ai soci per un importo fino ad un massimo di euro 607.786.750,00 (periodo di offerta dal 12/05/2014 all’08/08/2014), il secondo, mediante l’emissione di azioni, finalizzato all’ampliamento della base sociale, da offrire esclusivamente a non soci, fino ad un importo massimo di euro 300mln, entro un triennio (periodo di offerta dal 12/05/2014 al 19/12/2014).
Nel dettaglio, la sanzione inflitta al ricorrente, e ad altri ventuno esponenti della banca, riguardava la violazione dell’art. 94 comma 2 TUF per la mancata rappresentazione, nei prospetti di offerta delle azioni, di informazioni necessarie agli investitori concernenti la determinazione del prezzo delle azioni, la concessione di finanziamenti strumentali alla sottoscrizione e all’acquisto delle azioni, la compravendita delle azioni BPVi;
NOME COGNOME ha proposto opposizione e ha chiesto l’annullamento della sanzione.
La Corte d’appello di Venezia, nella resistenza della Consob, ha respinto la domanda.
Questi, in sintesi, i punti chiave della decisione: (i) è priva di fondamento l’eccezione di decadenza dell’autorità di vigilanza dal potere sanzionatorio per il superamento del termine di 180 giorni ex art. 195 comma 1 TUF, e, comunque, del termine ragionevole di definizione del procedimento sanzionatorio; (ii) non opera lo ius superveniens in quanto le modifiche apportate alla parte V del d.lgs. n. 58 del 1998 dal d.lgs. n. 72 del 2015 non si applicano alle violazioni commesse prima dell’entrata in vigore delle disposizioni di attuazione adottate dalla Consob e dalla Banca d’Italia, secondo le rispettive competenze, poiché così dispone l’art. 6 dello stesso decreto, che è esente dai profili di incostituzionalità prospettati dall’opponente; (iii) la motivazione del provvedimento sanzionatorio è in linea con il principio di personalizzazione della misura afflittiva, ferma la considerazione che non è applicabile, per le ragioni già indicate, la sanzione di cui all’art. 194 -bis TUF di nuova introduzione; (iv) non vi è stata la lamentata grave limitazione del diritto di difesa dell’incolpato e, inoltre, la mancata ostensione della massa dei documenti esaminati dalla Consob in fase d’ispezione è inconferente perché la documentazione non allegata alla relazione ispettiva (compresi alcuni atti in lingua inglese) non costituisce il corredo probatorio delle violazioni ascritte al trasgressore; (v) infondate sono anche le censure relative ad asserite lacune del procedimento sanzionatorio (violazione del principio di imparzialità, mancanza di separazione tra funzione istruttoria e decisoria) o del giudizio poiché il rito introdotto dal d.lgs. n. 72 del 2015 prevede l’udienza pubblica e nulla vieta che l’incolpato promuova azione risarcitoria nei confronti della P.A.; (vi) con riferimento all’elemento oggettivo dell’illecito, quelle che sono state omesse erano informazioni necessarie, indispensabili agli investitori per assumere decisioni ponderate di investimento (si pensi all’informativa circa la decisione del CdA di
assegnare rilievo preminente, ai fini della determinazione del prezzo delle azioni al 31/12/2013, al criterio reddituale, senza comunicare agli investitori il divario tra il valore secondo l’ Income approach (62,5 euro) e quello secondo il Market approach (49,3 euro); alla mancanza di informazioni sull’imponente fenomeno del cosiddetto ‘capitale finanziato’ e sulla crescente richiesta di vendita delle azioni della banca, sulla mancata evasione degli ordini di vendita e sui tempi necessari al disinvestimento del titolo, illiquido; (vii) la normativa interna recante i criteri di valutazione del prezzo delle azioni, la cui predisposizione era stata demandata (nel 2011, con incarico rinnovato nel 2015) a un esperto indipendente (prof. COGNOME, prevedeva una ‘architettura metodologica’ articolata su tre criteri di stima ( Income approach , Market approach , Asset/Cost approach ), che dovevano contemperarsi senza che l’uno prevalesse sugli altri. Ma ciò non avvenne in quanto, come sopra anticipato, il CdA, il 1°/04/2014, in deroga alla normativa interna, deliberò di attribuire rilievo preminente al cosiddetto Income approach , pur sapendo che l’applicazione del Market approach restituiva un valore delle azioni molto più basso (62,5 euro, il primo criterio, 49,3 euro, il secondo criterio); (viii) la fondatezza della contestazione dell’autorità di vigilanza si evince proprio dalla lettura dei ‘Prospetti 2014’ e dalla disapplicazione della combinazione dei tre diversi modelli valutativi delle azioni BPVi; (ix) l’opposizione alla delibera n. 19932 poggia, anzitutto, sull’assenza dell’elemento materiale dell’illecito in relazione alla prima e alla terzo violazione. Obiezione, questa, priva di fondamento in ragione del fatto che, al contrario di quanto rappresenta l’incolpato, non è in discussione la ragionevolezza o l’opportunità della decisione del CdA di aderire al contenuto della perizia del prof. COGNOME, bensì il deficit informativo dei Prospetti 2014 in relazione ai risultati ottenuti dal consulente a seguito dell’applicazione
di tutti e tre i criteri valutativi che l’organo amministrativo aveva deciso di adottare nel 2011, salvo poi decidere di disapplicare la normativa interna assegnando preminenza ad un unico metodo valutativo. Non costituisce motivo di legittimo affidamento la circostanza che la Consob avesse approvato quei prospetti, senza muovere rilievi di sorta, al pari di quelli relativi agli anni precedenti, poiché solo sugli organi sociali gravava la responsabilità di verificare la completezza del set informativo e poiché non risulta che la Consob fosse stata informata del divario tra i differenti criteri di valutazione delle azioni previsti dalla normativa interna e della sostanziale disapplicazione della stessa e, d’altra parte, all’atto dell’approvazione dei Prospetti 2014 la stessa autorità non poteva conoscere gli innumerevoli ordini di vendita in sospeso e il crescente numero di reclami presentati dai soci, nel 2013 e nei primi mesi dell’anno successivo; (x) con riferimento all’elemento soggettivo dell’illecito, in relazione all’assenza di disclosure nei Prospetti 2014 dell’esistenza del ‘capitale finanziato’, la colpa dell’opponente non è esclusa dal fatto che egli fosse un amministratore privo di deleghe (dato che la delega alla redazione delle informative era stata conferita ad altri esponenti della banca, in primis al direttore generale COGNOME), se solo si considera che il CdA, nella seduta del 1° aprile 2014, approvò il documento di registrazione relativo alle offerte al pubblico in esame; (xi) non è fondata l’eccezione di difetto di conoscenza/conoscibilità, da parte dell’amministratore privo di deleghe, del fenomeno del ‘capitale finanziato’ (che consiste nell’impiego, da parte degli investitori, di finanziamenti erogati dalla banca per la sottoscrizione degli aumenti di capitale e per l’acquisto di azioni BPVi). Infatti, la disciplina regolamentare del settore bancario, introdotta con circolare della Banca d ‘Italia n. 285 del 2013 (e successivi aggiornamenti), che deriva dalle regole di corporate governance di matrice comunitaria
contenute nella direttiva 2013/36/UE, che persegue la finalità di una sana e prudente gestione dell’attività bancaria ed è suscettibile di applicazione trasversale ai diversi modelli di amministrazione e di controllo previsti dal codice civile, rafforza il ruolo del CdA con riferimento all’assetto organizzativo, amministrativo e contabile dell’ente. Se il ruolo dell’amministratore delegato nella struttura di governo è ridimensionato, al contempo gli amministratori non esecutivi assumono un ruolo centrale nella governance della banca, poiché ad essi è affidato il compito di favorire l’assunzione di decisioni che, nelle materie di supervisione strategica, siano il frutto di un confronto effettivo; (xii) spettava, quindi, all’opponente dimostrare di avere adempiuto, anzitutto, al dovere di tenersi adeguatamente informato sulla gestione e sull’organizzazione aziendale, posto che solo la conoscenza delle concrete caratteristiche della realtà aziendale può consentire agli amministratori non esecutivi di apportare un effettivo contributo all’esercizio della funzione di supervisione strategica attribuita al CdA. Sulla premessa che, in base all’art. 2381 comma 6 c.c., gli amministratori privi di deleghe hanno l’obbligo di agire informati, e che la circolare n. 285 del 2013 prevede, in via ordinaria, e dunque anche in assenza di ‘segnali di allarme’, in capo agli amministratori non esecutivi, il dovere di acquisire informazioni sulla gestione e sull’organizzazione aziendale, nel caso di specie, comunque, non mancano inequivocabili segnali di allarme. Come, ad esempio, l’intervento, all’assemblea dei soci del 26/04/2014, del socio NOME COGNOME che denunciò le carenze dei criteri di determinazione del prezzo delle azioni e la mancanza di un’informativa chiara e completa; (xiii) l’attività ispettiva ha dimostrato la violazione dell’obbligo di indicare, nei Prospetti 2014, la sussistenza e la dimensione del ‘capitale finanziato’ (fenomeno che la banca ha riconosciuto, nella relazione semestrale al 30/06/2015, per
un controvalore di 941,3 mln di euro) e dei cosiddetti ‘finanziamenti correlati’, compiutamente ricostruiti dalle verifiche ispettive. Il fenomeno era conosciuto o conoscibile, a prescindere dagli obblighi imposti agli amministratori non esecutivi dalla normativa del settore bancario, e indipendentemente dall’esistenza di segnali di allarme, per le vistose anomalie nella gestione operativa della banca, desumibili dalla documentazione relativa alla concessione dei fidi, che costituiva parte integrante dei verbali del CdA e che, quindi, l’amministratore avrebbe dovuto percepire. Con la precisazione che un’analisi non superficiale di tale documentazione avrebbe consentito al ricorrente di avvedersi della stretta correlazione temporale e quantitativa tra i finanziamenti concessi e gli acquisti di azioni BPVi; (xiv) persino un consigliere, NOME COGNOME (tramite la società da lui controllata RAGIONE_SOCIALE) e il fratello NOME COGNOME beneficiarono di erogazioni di credito finalizzate esclusivamente all’acqui sto o alla sottoscrizione di azioni BPVi ; l’attività ispettiva ha messo in luce anche le omissioni di informazioni concernenti la compravendita di azioni e ha fatto emergere la consapevolezza, da parte del CdA, dell’enorme mole di richieste di cessione dei titoli da parte della clientela con i connessi reclami, esaminati dal comitato reclami (ad esempio, nella riunione del 18/02/2014). Analoghe considerazioni valgono per il deficit informativo sul tema del blocking period , deliberato nel corso delle riunioni del CdA alle quali il ricorrente partecipò, ben potendo cogliere gli effetti che la sospensione dell’operatività in contropartita diretta poteva assumere ai fini della decisione di investimento; (xv) la condotta dell’amministratore è punibile a titolo di colpa e in relazione all’illecito amministrativo non operano i presidi che la Costituzione accorda alle sanzioni penali; (xvi) non può essere fondatamente invocata l’esimente della buona fede, in assenza di un elemento positivo idoneo ad ingenerare
nell’autore della violazione l’incolpevole convinzione della liceità della propria condotta. Con l’ulteriore considerazione che il giudizio di colpevolezza è ancorato a parametri normativi estranei al dato puramente psicologico, con limitazioni dell’indagine all’elemento oggettivo dell’illecito e alla suitas della condotta inosservante, con onere per il trasgressore di provare di avere agito in assenza di colpevolezza;
NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione, articolato in diciotto motivi.
La Consob ha depositato controricorso.
Le parti hanno depositato memorie in vista dell’udienza.
Considerato che:
La premessa è che questa Corte si è già occupata dell’impugnazione della medesima delibera sanzionatoria con decisioni (v. Cass. nn. 5298 e 5299 del 2025) che il Collegio condivide ed alle quali intende dare continuità.
Il primo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 1 c.p.c., il difetto di giurisdizione del giudice ordinario per incongrua lettura del dato normativo attributivo della potestas iudicandi e, in subordine, l’incostituzionalità dell’art. 195 commi 4 -8 TUF, nella parte in cui è attribuita al GO la giurisdizione sulle opposizioni alle sanzioni amministrative, con violazione del principio del giusto processo di cui agli artt. 111 e 113 Cost., nonché dell’art. 47 par. 1, della Carta Europea dei diritti fondamentali e dell’art. 6 CEDU;
1.1. il motivo è infondato;
in linea con la consueta giurisprudenza della Corte (tra le altre, Sez. 2, Ordinanza n. 1740 del 20/01/2022, Rv. 664171 -02; Cass. n. 1760/2022), relative al giudizio di opposizione avverso altre delibere sanzionatorie adottate dalla Consob nei confronti degli organi di vertice della BPVi, vanno riaffermati i seguenti principi, calibrati in
relazione alla fattispecie concreta in esame: (a) l’opposizione all’ordinanza -ingiunzione proposta dinanzi alla Corte di appello non configura un’impugnazione dell’atto ma introduce, piuttosto, un ordinario giudizio sul fondamento della pretesa dell’autorità amministrativa, devolvendo al giudice adito la piena cognizione circa la legittimità e la fondatezza del provvedimento sanzionatorio (Cass. n. 13150 del 2020); (b) dato l’oggetto limitato del procedimento, si realizza un sacrificio al principio di economia processuale che trova una giustificazione nella peculiare natura del giudizio di opposizione (nella specie devoluto alla cognizione in unico grado di merito della Corte di appello), sicché è proprio l’esigenza di tutela del principio del doppio grado di merito (sebbene non costituzionalizzato) per le diverse pretese scaturenti dal giudizio di opposizione che impone, in assenza di una pari previsione derogatoria da parte del legislatore, la non cumulabilità di altre diverse domande nel medesimo giudizio di opposizione. Si tratta in ogni caso di scelta rimessa alla discrezionalità del legislatore e che non determina una violazione irreparabile del diritto di difesa, stante appunto la possibilità di poter autonomamente proporre domanda per la tutela delle situazioni connesse alla vicenda sanzionatoria; (c) quanto alla giurisdizione del GO, la corretta lettura degli effetti della sentenza della Corte costituzionale n. 162 del 2012 è nel senso che, come ripetutamente affermato dalla S.C., la competenza giurisdizionale a conoscere delle opposizioni avverso le sanzioni inflitte dalla Consob spetta all’autorità giudiziaria ordinaria. Tale soluzione è stata ribadita da Cass., Sez. U. n. 4362/2021, che ha affermato che le controversie relative all’applicazione delle sanzioni amministrativi irrogate dalla Banca d’Italia ex artt. 145 d.lgs. n. 385 del 1993, per violazioni commesse nell’esercizio dell’attività bancaria sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario, la cui cognizione si estende agli atti amministrativi
e regolamentari presupposti che hanno condotto all’emissione del provvedimento finale, con una motivazione che, sebbene espressamente riferita alle sanzioni della Banca d’Italia, si presta adeguatamente a sorreggere identica conclusione anche per le sanzioni Consob (per le sanzioni Consob e nel medesimo senso si veda anche Cass., Sez. Un. n. 25476/2021); (d) la materia sanzionatoria può essere sottoposta alla giurisdizione del giudice amministrativo, come eccezione alla regola generale, solo in presenza di un’apposita disposizione di legge, costituendo i provvedimenti sanzionatori la reazione a comportamenti del privato assunti come illegittimi, in relazione ai quali non si pone la difficoltà – alla base della previsione della giurisdizione esclusiva – di distinguere gli aspetti concernenti diritti soggettivi da quelli riguardanti interessi legittimi, poiché la situazione giuridica di chi deduce di essere stato sottoposto a sanzione in casi e nei modi non stabiliti dalla legge, ha consistenza di diritto soggettivo perfetto (Cass. Sez. Un., n. 18040/2008). Una questione di costituzionalità sotto questo profilo, pertanto, può al più porsi in senso inverso, sulla legittimità dell’attribuzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle suddette controversie. La Corte costituzionale ha ritenuto inammissibile, in più occasioni, una pronuncia additiva, come quella invocata nel caso in esame. Si è detto, infatti, che l’introduzione di un nuovo caso di giurisdizione esclusiva può essere effettuata solo da una legge, come prescrive l’art. 103, primo comma, Cost., e nel rispetto dei principi e dei limiti fissati dalla sentenza n. 204 del 2004, pertanto risulta inammissibile il petitum posto dal giudice rimettente, che si risolve nella richiesta di introdurre, con una sentenza additiva, un nuovo caso, che può invece essere frutto di una scelta legislativa non costituzionalmente obbligata (Corte costituzionale, sentenza n. 259 del 2009); (e) nella specie, la questione di costituzionalità posta dal
ricorrente va disattesa in quanto dichiaratamente volta ad ottenere una (non consentita, per le ragioni sopra evidenziate) pronuncia additiva, che estenda le ipotesi di giurisdizione esclusiva, sino a ricomprendervi la cognizione delle controversie relative ai provvedimenti sanzionatori emessi dalla Consob;
il secondo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 4 c.p.c., la violazione del diritto di difesa per illegittima compressione del contraddittorio, anche ai sensi degli artt. 24 secondo comma, 11 Cost., dell’art. 6 CEDU e dell’art. 47, par. 1 (2), della Carta dei diritti fondamentali UE.
Si ascrive alla Corte d’appello di avere respinto l’istanza del ricorrente che, in via telematica, aveva chiesto un termine ulteriore per esercitare il proprio diritto di replica e per il deposito di documentazione;
2.1. il motivo è infondato;
in disparte la prospettabile inammissibilità della censura perché aspecifica, in mancanza della dettagliata indicazione delle prerogative difensive che sarebbero state compromesse per effetto della mancata concessione del termine a difesa, rileva il Collegio che la costituzione della Consob è avvenuta nel rispetto del termine predeterminato dal legislatore per la costituzione, che nella valutazione del legislatore è stato reputato idoneo ad assicurare un adeguato esercizio del diritto di difesa in capo all’incolpato;
il terzo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c., l’omesso esame di un fatto decisivo nella parte in cui la Corte d’appello ha individuato il dies a quo dell’acquisita conoscenza delle condotte illecite, da cui ha inizio il termine decadenziale ex art. 195 comma 1 TUF, senza considerare una pluralità di fatti esposti dalla ricorrente, con particolare riguardo al possesso, da parte della Consob, di tutti gli elementi necessari all’accertamento delle pretese
violazioni sin dall’approvazione del Prospetto, avvenuta nel maggio 2014, e alla circostanza che il comunicato stampa del 28/08/2015 e la relazione semestrale al 30/06/2015 erano sicuramente in possesso della Consob al momento dell’acquisizione documentale del 17/09/2015, risultando irrilevanti e superflue le acquisizioni successive;
3.1. il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato;
è inammissibile perché, discostandosi dal parametro normativo dell”omesso esame circa un fatto decisivo’, sottopone all’attenzione della Corte una quaestio iuris e non (appunto) la pretermissione, da parte del giudice di merito, di un fatto storico decisivo.
È infondato alla luce della giurisprudenza di questa Corte che, anche di recente, ha affermato che, in tema di sanzioni amministrative per la violazione delle norme disciplinanti l’attività di intermediazione finanziaria, il termine di decadenza di centottanta giorni per la contestazione al trasgressore decorre non già dalla ‘constatazione del fatto’, cioè dalla data di acquisizione della notizia dell’illecito, nella sua materialità, ma dal momento dell”accertamento del fatto’, ossia dal giorno in cui l’autorità ha completato l’attività istruttoria finalizzata a verificare la sussistenza dell’infrazione (Sez. 2, Sentenza n. 26766 del 15/10/2024, Rv. 672801 – 01).
Nel caso all’esame, la Corte d’appello, con giudizio di fatto ad essa riservato, ha stabilito che tutte e tre le contestazioni sono state mosse al trasgressore nel rispetto del termine di 180 giorni dalla fine dell’attività di accertamento operata dall’autorità di vigilanza;
il quarto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., la violazione dell’art. 19 comma 3 della legge n. 689 del 1981.
La sentenza sarebbe errata nella parte in cui ha negato la decadenza dal potere punitivo per superamento del termine di conclusione del procedimento sanzionatorio in ragione
dell’inconferenza dell’articolo 19 rispetto all’ambito delle sanzioni amministrative.
4.1. il motivo è infondato;
diversamente da quanto sostiene il ricorrente, l’art. 19 comma 3 della legge n. 689 del 1981 non individua un termine finale per l’adozione del provvedimento sanzionatorio; invero, si tratta di una disposizione specificamente destinata a disciplinare l’ipotesi di adozione di misura cautelare in pendenza del procedimento sanzionatorio, che mira a scongiurare il pericolo che la misura stessa possa protrarsi a tempo indeterminato, come appunto confermato dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 8060/2007, secondo cui il potere di emanare l’ordinanza ingiunzione incontra il solo limite temporale della prescrizione quinquennale del credito, così che l’obbligo di emettere il predetto provvedimento nel termine di sei mesi dal sequestro ex art. 19 della legge n. 689 del 1981, incide esclusivamente sull’efficacia della misura cautelare). L’art. 19 citato viene quindi in considerazione nella sola evenienza che l’opposizione avverso il provvedimento di sequestro sia stata respinta e che l’amministrazione non abbia disposto la confisca o emesso ordinanza ingiunzione di pagamento della sanzione pecuniaria, senza contemplare un termine suscettibile di generalizzata applicazione, tanto più che un termine generale imposto a pena di inefficacia della sanzione è appositamente previsto dal precedente articolo 14, applicabile anche ai procedimenti relativi alle sanzioni previste dal d.lgs. n. 58 del 1998 (Cass. nn. 18031/2022, 1770/2022, 1740/2022, 19512/2020, 8326/2018, 21706/2018, 6965/2018);
5. il quinto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., la violazione dell’art. 5 del d.lgs. n. 72 del 2015, come interpretato alla luce dell’art. 7 CEDU, dell’art. 49, par. 1, e dell’art. 52, par. 5, della Carta dei diritti fondamentali UE, nella parte in cui la
Corte d’appello ha ritenuto non fondata la già prospettata questione di legittimità costituzionale dell’art. 6 del d.lgs. n. 72 del 2015 e dell’ivi contenuta previsione che esclude la retroattività della disciplina più favorevole agli illeciti compiuti anteriormente alla sua entrata in vigore;
5.1. il motivo è infondato;
innanzitutto, anche in relazione alle censure di seguito esaminate, diversamente da quanto prospettato dal ricorrente nella premessa all’esposizione degli asseriti vizi formali della sentenza, si deve escludere la natura sostanzialmente penale della sanzione oggetto dell’impugnazione.
Sicché è conforme a diritto la statuizione del giudice di merito secondo cui le sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dalla Consob, diverse da quelle per manipolazione del mercato ai sensi dell’art. 187 -ter TUF, non hanno natura penale, con la conseguenza che, in relazione alle prime (tra le quali rientra la sanzione oggetto di questo giudizio), non trovano applicazione le modifiche alla parte V del d.lgs. n. 58 del 1998 per le violazioni commesse prima dell’entrata in vigore delle disposizioni di attuazione adottate dalla Consob e dalla Banca d’Italia, poiché così è disposto dall’art. 6 del citato d.lgs. n. 72 del 2015 che non dà luogo a dubbi di legittimità.
Tale statuizione è in linea con l’interpretazione della S.C. (Sez. 2, Sentenza n. 20689 del 09/08/2018, Rv. 650004 – 03), secondo cui, in materia di intermediazione finanziaria, le modifiche alla parte V del d.lgs. n. 58 del 1998 apportate dal d.lgs. n. 72 del 2015 si applicano alle violazioni commesse dopo l’entrata in vigore delle disposizioni di attuazione adottate dalla Consob, in tal senso disponendo l’art. 6 del medesimo decreto legislativo, e non è possibile ritenere l’applicazione immediata della le gge più favorevole, atteso che il principio del ‘ favor rei ‘, di matrice penalistica, non si estende, in assenza di una specifica
disposizione normativa, alla materia delle sanzioni amministrative, che risponde, invece, al distinto principio del ‘ tempus regit actum ‘. Né tale impostazione viola i principi convenzionali enunciati dalla Corte EDU nella sentenza 4 marzo 2014 ( COGNOME ed altri c/o Italia ), secondo la quale l’avvio di un procedimento penale a seguito delle sanzioni amministrative inflitte dalla Consob sui medesimi fatti violerebbe il principio del ‘ ne bis in idem ‘, atteso che tali principi vanno considerati nell’ottica del giusto processo, che costituisce l’ambito di specifico intervento della Corte, ma non possono portare a ritenere sempre sostanzialmente penale una disposizione qualificata come amministrativa dal diritto interno, con conseguente irrilevanza di un’eventuale questione di costituzionalità ai sensi dell’art. 117 Cost.;
6. il sesto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c., la violazione dell’art. 6 CEDU, dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali UE, dell’art. 15 della legge n. 689 del 1981, dell’art. 195 comma 7 TUF, per aver la Corte d’appello negato la pur patente violazione del contraddittorio insita nelle limitazioni imposte all’accesso agli atti da parte del ricorrente.
Si ascrive alla sentenza di avere erroneamente affermato che la mancata globale ostensione dei documenti è stata legittimata dall’irrilevanza di quelli che non hanno formato oggetto di esame da parte della Consob allorché sono stati formulati gli addebiti;
6.1. il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato;
è inammissibile perché è generica l’allegazione circa la lesione del principio del contraddittorio, avendo questa Corte ribadito che per dedurre validamente la violazione del contraddittorio occorre allegare e dimostrare una concreta ed effettiva lesione del diritto di difesa (Cass., Sez. U. n. 20935/2009).
È infondato alla luce della giurisprudenza di questa Corte, che ha chiarito che le garanzie del contraddittorio previste per il procedimento sanzionatorio davanti alla Consob prima delle modifiche introdotte dalla delibera n. 29158 del 29 maggio 2015 sono da ricondurre al livello proprio del contraddittorio procedimentale, di solito di tipo verticale, svolgendosi esso tra l’amministrazione e l’interessato su un piano non di eguaglianza, ma in funzione collaborativa, partecipativa e non difensiva, non già di quello di matrice processuale, di tipo orizzontale, che riguarda due parti in posizione paritaria rispetto ad un decidente terzo e imparziale. Ne consegue che non sussiste alcun contrasto con l’art. 24 Cost. e con i principi espressi dagli artt. 195 TUF e 24 della legge n. 262 del 2005 (Sez. 2, Sentenza n. 8046 del 21/03/2019, Rv. 653405 – 02);
7. il settimo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c., la violazione dell’art. 244 c.p.c. e dell’art. 195 comma 7 TUF, nella parte in cui la Corte d’appello ha omesso l’audizione del ricorrente che ne aveva fatto espressa richiesta;
7.1. il motivo è infondato;
nel procedimento sanzionatorio di cui all’art. 195 TUF, il diritto di difesa dell’incolpato è garantito dalla previsione di un congruo termine per il deposito di difese scritte, mentre la sua audizione personale non è un incombente imprescindibile, come risulta dal confronto con l’art. 196 dello stesso decreto legislativo, riguardante i promotori finanziari (Cass. n. 1740/2022, cit.);
8. l’ottavo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., la violazione degli artt. 94 comma 2 e 191 comma 2 del TUF, per avere la sentenza confermato la violazione degli obblighi informativi per mancato inserimento di una notizia non prevista dagli schemi comunitari di prospetto (in relazione alla prima contestazione relativa al mancato inserimento delle informazioni sulle modalità di
svolgimento del processo di determinazione del valore delle azioni offerte) né espressamente richiesta in sede di approvazione dall’autorità di controllo. Si contesta altresì la violazione del principio di determinatezza della fattispecie illecita, di buona fede ed affidamento di cui all’art. 9 comma 1 della legge n. 180 del 2011;
il nono motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 94 comma 2 e 191 comma 2 TUF, per avere la sentenza ritenuto di poter confermare la violazione degli obblighi informativi per mancato inserimento di una notizia non prevista dagli schemi comunitari di prospetto (in relazione alla terza contestazione relativa al mancato inserimento di informazioni sull’andamento delle negoziazioni delle azioni BPVi) né espressamente richiesta in sede di approvazione dall’autorità di controllo; si contesta anche la violazione del principio di determinatezza della fattispecie illecita, di buona fede oggettiva ed affidamento;
il decimo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 94 comma 2 TUF, nonché dei principi di tipicità dell’illecito e della preventiva conoscibilità della condotta vietata, nella parte in cui la Corte d’appello (relativamente alla prima e alla terza contestazione) non ha verificato la rilevanza e necessità delle informazioni che si assumono omesse al fine della formazione di un giudizio sull’offerta da parte dell’investitore, ai sensi dell’art. 94 comma 2 TUF, dando per presupposto che ‘qualunque informazione’ fosse necessaria;
10.1. l’ottavo, il nono e il decimo motivo, che possono essere esaminati insieme perché pongono le stesse questioni, sono in parte inammissibili e in parte infondati;
le censure sono inammissibili là dove, nella sostanza, sollecitano la Corte, cui è demandato esclusivamente il controllo della legalità
della decisione, a compiere un nuovo accertamento degli aspetti fattuali della vicenda, in precedenza insindacabilmente vagliati dalla Corte d’appello, la quale ha illustrato le ragioni del proprio convincimento con motivazione specifica, completa e priva di vizi logici.
Quanto all’infondatezza delle censure, la premessa è che i motivi in esame pongono l’accento sull’incidenza, rispetto alle contestate violazioni, della mancata previsione di alcune informazioni negli schemi comunitari di prospetto, anche dal punto di vista della determinatezza dell’illecito.
La tesi difensiva deve essere disattesa poiché è indubitabile che detti schemi comunitari non tipizzano le ‘informazioni necessarie’, ma si limitano ad indicare le ‘informazioni minime’. Infatti, il regolamento 809 del 2004, in tema di modalità di esecuzione della direttiva 2003/71/CE, i cui secondo e sesto considerando precisano, rispettivamente, che ‘ in funzione del tipo di emittente e di strumento finanziario interessati occorre fissare la tipologia di informazioni minime corrispondenti agli schemi più frequentemente utilizzati nella pratica ‘ e che ‘ nella maggior parte dei casi, vista la varietà di emittenti, i tipi di strumenti finanziari, la partecipazione o meno di un terzo come garante, l’esistenza o meno di una quotazione, ecc., uno schema unico non fornisce tutte le informazioni di cui gli investitori hanno bisogno per assumere le loro decisioni di investimento. Pertanto deve essere possibile la combinazione di vari schemi. Occorre elaborare una tabella di combinazione non esaustiva, che fissi le varie combinazioni di schemi e di moduli possibili per la maggior parte dei diversi tipi di strumenti finanziari e che sia di ausilio agli emittenti nella redazione dei loro prospetti’ .
Il regolamento fornisce, quindi, unicamente le ‘informazioni minime’, di carattere non esaustivo, che devono corredare i
prospetti, laddove l’art. 94 TUF contiene una previsione di carattere decisamente elastico e residuale, secondo cui il prospetto deve contenere ‘ tutte le informazioni che sono necessarie affinché gli investitori possano pervenire ad un fondato giudizio sulla situazione patrimoniale e finanziaria, sui risultati economici e sulle prospettive dell’emittente nonché sui prodotti finanziari e sui relativi diritti ‘ e deve essere corredato di una nota di sintesi (nella lingua in cui il prospetto è stato in origine redatto) che fornisce le ‘ informazioni chiave ‘.
Nella specie, il giudice di merito indica in maniera puntuale e dettagliata quali informazioni sono state omesse, con specifico riferimento ai criteri di determinazione del valore delle azioni oggetto delle offerte di acquisto e al massiccio ricorso, da parte della banca, al sistema dei finanziamenti correlati e alle rilevanti anomalie nella compravendita delle azioni della banca.
Da un diverso punto di vista, l’accertamento operato dalla Corte d’appello circa l’insussistenza della buona fede del ricorrente – il quale, è bene ricordarlo, faceva parte dell’organo amministrativo della banca – involge una quaestio facti che sta al di fuori del perimetro del sindacato di legittimità e che, comunque, sul piano dei principi applicati dalla Corte territoriale, è in linea con l’esegesi giurisprudenziale secondo cui, in tema di sanzioni amministrative, la buona fede rileva come causa di esclusione della responsabilità amministrativa quando sussistono elementi positivi idonei ad ingenerare nell’autore della violazione il convincimento della liceità della sua condotta e quando l’autore medesimo abbia fatto tutto quanto possibile per conformarsi al precetto di legge, onde nessun rimprovero possa essergli mosso, neppure sotto il profilo della negligenza omissiva (Sez. 2, Ordinanza n. 11977 del 19/06/2020, Rv. 658272 – 01).
La Corte d’appello ha evidenziato che l’intero CdA, non escluso il ricorrente, era a conoscenza della peculiarità del prescelto criterio di valutazione delle azioni, delle denunce di un deficit informativo provenienti da alcuno dei soci, e del consistente fenomeno del capitale finanziato (del quale anche un altro membro del CdA si era avvalso);
11. l’undicesimo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., la violazione dell’art. 191 comma 2 TUF, nella parte in cui la Corte d’appello ha confermato la sanzione applicata al ricorrente a titolo di colpa, là dove la fattispecie prevede la sanzionabilità esclusivamente a titolo di dolo.
La sanzione (relativa alla seconda violazione) sarebbe illegittima perché è stata inflitta al ricorrente amministratore privo di deleghe, per una condotta che presuppone non la colpa, ma il dolo ed è ascrivibile soltanto a colui che abbia (appunto) dolosamente celato le informazioni;
11.1. il motivo è infondato;
al contrario di quanto afferma il ricorrente, la sentenza ha correttamente rilevato che si è in presenza di un illecito amministrativo per il quale vale il principio generale, sancito dall’art. 3 della legge n. 689 del 1981, secondo cui la responsabilità della violazione amministrativa, posta in essere mediante condotta attiva od omissiva, cosciente e volontaria, grava sull’autore della medesima, tanto in caso di condotta dolosa che in caso di condotta colposa;
12. il dodicesimo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 2392 comma 1 c.c., dell’art. 53 comma 1 TUB, e delle disposizioni regolamentari di attuazione adottate dalla Banca d’Italia con le circolari n. 285 del 17/12/2013 e n. 263 del 27/12/2006, nel testo applicabile all’epoca dei fatti, per aver la sentenza ritenuto di poter formulare a carico del
ricorrente un giudizio d’imputazione di omissioni, trascurando di considerare quali sono, a norma di legge e di regolamento, le effettive facoltà di controllo del CdA e dei suoi componenti sulla struttura aziendale della banca.
Si sostiene che la sentenza avrebbe attribuito la responsabilità al ricorrente senza prendere in considerazione le stringenti regole sui rapporti tra gli organi fissate dalla Banca d’Italia, le quali escludono per gli amministratori non esecutivi (cioè, privi di deleghe) l’onere di controllare le attività delle funzioni aziendali di controllo ( compliance , risk management , internal audit ) e degli organi con funzione di gestione (amministratore delegato e/o direttore generale) e, perciò, non consentono nemmeno di ipotizzare una colpa omissiva, agevolativa dell’atto doloso altrui;
12.1. il motivo, frammentato in diversi rilievi critici, è complessivamente infondato;
12.2. la decisione, che ha ravvisato specifici profili di responsabilità del ricorrente, nonostante il suo ruolo di componente del CdA privo di deleghe, collima con la giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 21502/2024; in termini, Cass. nn. 29963/2024, 8581/2024), che ha sottoposto a un’approfondita disamina le questioni di diritto in tema di sanzioni inflitte dalla Banca d’Italia ai componenti del CdA di un ente creditizio per carenze nell’organizzazione e nei controlli interni. È stato osservato che «ai fini del contenimento del rischio creditizio nelle sue diverse configurazioni, nonché dell’organizzazione societaria e dei controlli interni, l’art. 53, lett. b) e d), del d.lgs. n. 385 del 1993 e le disposizioni attuative dettate con le istruzioni di vigilanza per le banche, mediante la circolare n. 229 del 1999 (e successive modificazioni e integrazioni), sanciscono doveri di particolare pregnanza in capo al consiglio di amministrazione delle società
bancarie, che riguardano l’intero organo collegiale e, dunque, anche i consiglieri non esecutivi, i quali sono tenuti ad agire in modo informato e, in ragione dei loro requisiti di professionalità, ad ostacolare l’evento dannoso, sicché rispondono del mancato utile attivarsi», e si è chiarito che «in caso di irrogazione di sanzioni amministrative, la Banca d’Italia, anche in virtù della presunzione di colpa vigente in materia, ha unicamente l’onere di dimostrare l’esistenza dei segnali di allarme che avrebb ero dovuto indurre gli amministratori non esecutivi, rimasti inerti, ad esigere un supplemento di informazioni o ad attivarsi in altro modo, mentre spetta a questi ultimi provare di avere tenuto la condotta attiva dovuta o, comunque, mirante a scongiurare il danno (Cass. n. 22848 del 2015; Cass. n. 19556 del 2020)». La Corte aggiunge che «l dovere di agire informati dei consiglieri non esecutivi delle società bancarie, sancito dagli artt. 2381, commi 3 e 6, e 2392 c.c., non va, del resto, rimesso, nella sua concreta operatività, alle segnalazioni provenienti dai rapporti degli amministratori delegati, giacché anche i primi devono possedere ed esprimere costante e adeguata conoscenza del business bancario e, essendo compartecipi delle decisioni di strategia gestionale assunte dall’intero consiglio, hanno l’obbligo di contribuire ad assicurare un governo efficace dei rischi di tutte le aree della banca e di attivarsi in modo da poter efficacemente esercitare una funzione di monitoraggio sulle scelte compiute dagli organi esecutivi, non solo in vista della valutazione delle relazioni degli amministratori delegati, ma anche ai fini dell’esercizio dei poteri, spettanti al consiglio di amministrazione, di direttiva o avocazione concernenti operazioni rientranti nella delega. Questa interpretazione non vale ad accollare una responsabilità oggettiva agli amministratori non esecutivi, essendo gli stessi perseguibili ove ricorrano comunque sia la condotta d’inerzia, sia il fatto pregiudizievole antidoveroso, sia il
nesso causale tra i medesimi, sia, appunto, la colpa, consistente nel non aver rilevato colposamente i segnali dell’altrui illecita gestione, pur percepibili con la diligenza della carica (anche indipendentemente dalle informazioni doverose ex art. 2381 c.c.), e nel non essersi utilmente attivati al fine di evitare l’evento. Sotto il profilo probatorio, ciò comporta che spetta al soggetto il quale afferma la responsabilità allegare e provare, a fronte dell’inerzia dei consiglieri non delegati, l’esistenza di segnali d’allarme (anche impliciti nelle anomale condotte gestorie) che avrebbero dovuto indurli ad esigere un supplemento di informazioni o ad attivarsi in altro modo (con la richiesta di convocazione del consiglio di amministrazione rivolta al presidente, il sollecito alla revoca della deliberazione illegittima o all’avocazione dei poteri, l’invio di richieste per iscritto all’organo delegato di desistere dall’attività dannosa, l’impugnazione delle deliberazione ex art. 2391 c.c., la segnalazione al p.m. o all’autorità di vigilanza, e così via); assolto tale onere, è, per contro, onere degli amministratori provare di avere tenuto la condotta attiva dovuta o la causa esterna, che abbia reso non percepibili quei segnali o impossibile qualsiasi condotta attiva mirante a scongiurare il danno».
In precedenza, era stato chiarito (Cass. n. 16517/2020, punto 2) che «a tesi secondo cui la responsabilità dei consiglieri sarebbe predicabile solo se questi ultimi abbiano ricevuto informazioni in modo completo ed esauriente sulle singole operazioni poste in essere dai titolari di deleghe operative, è già stata motivatamente respinta, in fattispecie analoghe, da questa Corte e non trova alcun sostegno nei precedenti richiamati in ricorso. Nello specifico settore delle attività bancarie o di intermediazione finanziaria, ai fini del contenimento del rischio creditizio nelle sue diverse configurazioni, nonché dell’organizzazione societaria e dei controlli interni, l’art. 53, lettere b) e d), d.lgs. 385/1993 e le disposizioni attuative dettate con
le istruzioni di vigilanza per le banche, sanciscono doveri di particolare pregnanza in capo al Consiglio di amministrazione nel suo complesso e ai singoli consiglieri (anche se privi di deleghe operative). Questi ultimi sono sempre tenuti ad agire in modo informato e, in ragione dei requisiti di professionalità di cui sono e devono essere in possesso, ad impedire possibili violazioni. Tale dovere, sancito dall’art. 2381 c.c., commi terzo e sesto, e dall’ art. 2392 c.c., non va rimesso, nella sua concreta operatività, alle segnalazioni provenienti dai rapporti degli amministratori delegati, giacché anche i singoli consiglieri devono possedere e attivare una costante e adeguata conoscenza del business bancario e, essendo compartecipi delle decisioni di strategia gestionale assunte dall’intero Consiglio, hanno l’obbligo di contribuire ad assicurare un governo efficace dei rischi in tutti i settori di operatività della banca, oltre che ad attivarsi in modo da esercitare efficacemente la funzione di monitoraggio sulle scelte compiute, non solo in vista della valutazione delle relazioni degli amministratori delegati, ma anche ai fini dell’esercizio dei poteri di direttiva o avocazione riguardo alle attività rientranti nella delega (Cass. 2737/2013; Cass. 17799/2014; Cass. 18683/2014; Cass. 5606/2019; Cass. 24851/2019). L’àmbito entro il quale deve esprimersi la diligenza dei consiglieri non è mutato neppure a seguito della riforma del diritto societario adottata con d.lgs. 6/2006. L’art. 2381, comma sesto, c.c., nel testo in vigore, impone un dovere di agire in modo informato, disponendo infine che ‘ciascun amministratore può chiedere agli organi delegati che in consiglio siano fornite informazioni relative alla gestione della società’. Il comma terzo recita che il consiglio di amministrazione ‘può sempre impartire direttive agli organi delegati e avocare a sé operazioni rientranti nella delega’. Il comma secondo dell’art. 2392 c.c. continua a prevedere che gli amministratori ‘sono in ogni caso
solidalmente responsabili se, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose’ (Cass. 24851/2019). Resta da confermare che la responsabilità degli amministratori privi di deleghe operative non discende da una generica condotta di omessa vigilanza, né implica l’imputazione della responsabilità a titolo oggettivo o per le condotte altrui, ma deriva dal fatto di non aver impedito ‘fatti pregiudizievoli’ dei quali abbiano acquisito (o avrebbero potuto acquisire) conoscenza anche di propria iniziativa, ai sensi dell’obbligo previsto dall’art. 2381 c.c. (Cass. n. 17441 del 2016; Cass. 2038/2018)»;
12.3. né d’altra parte è condivisibile la lettura delle circolari della Banca d’Italia prescelta dal ricorrente che, secondo la sua prospettazione, condurrebbe all’esonero dalla responsabilità degli amministratori non esecutivi. A parte il fatto che le violazioni in esame attengono ai servizi di investimento, ai quali maggiormente si attagliano le previsioni del Regolamento congiunto Banca d’Italia/Consob del 29/10/2007, comunque, è indubitabile che la circolare n. 285 del 2013 non ha affatto travolto gli assetti ed i rapporti societari fissati da norme primarie, a cominciare dall’art. 2381 c.c. Milita in tal senso la circostanza che le disposizioni regolamentari sono volte a rafforzare proprio l’assetto configurato dal codice civile, con l’individuazione di regole più specifiche per il settore bancario, e nel rispetto delle fonti di derivazione comunitaria (in particolare la direttiva 2013/36/UE), ma sempre in vista di un armonico coordinamento tra la disciplina societaria di carattere generale e quella settoriale bancaria, ed il tutto in correlazione con il regolamento (UE) n. 575/2013, con il quale va a comporre il quadro normativo di disciplina delle attività bancarie, il quadro di vigilanza e le norme prudenziali per gli enti creditizi e le imprese di investimento.
Le previsioni della circolare, sebbene richiamino l’esigenza di una chiara distinzione dei ruoli e delle responsabilità degli organi, aggiungendo che l’articolazione della struttura interna deve comunque assicurare l’efficacia dei controlli e l’adeguatezza dei flussi informativi, tuttavia non possono essere intese come un’autorizzazione alla preventiva deresponsabilizzazione dei componenti del CdA. Ove anche si riconosca che la circolare della Banca d’Italia, in vista del buon funzionamento delle imprese bancarie, abbia suggerito delle strutture rigide e chiaramente individuatrici delle competenze e delle funzioni, le sue disposizioni non possono certo avallare la conclusione, erronea, secondo cui non sarebbe esigibile, da parte degli amministratori non esecutivi, la verifica di ogni singolo atto di impresa, dovendosi, quanto agli indici di allarme, fare affidamento sulle rassicurazioni offerte dagli uffici interni deputati al controllo circa la correttezza delle azioni delle singole articolazioni societarie.
Infine, è utile sottolineare che , nell’analoga materia delle sanzioni irrogate dalla Banca d’Italia agli organi amministrativi della banca, questa Corte (in fattispecie relativa alla responsabilità di un amministratore non esecutivo della BPVi), ha enunciato il principio di diritto secondo cui, in tema di sanzioni amministrative ex art. 144 TUB, l’obbligo di ‘ agire in modo informato ‘ , previsto dall ‘ art. 2381, ultimo comma, c.c., comporta che il consigliere di amministrazione non esecutivo risponda non dell ‘ inadempimento degli specifici doveri gravanti sui titolari della gestione o delle funzioni di controllo, ma dell ‘ inosservanza di quelli che incombono sui componenti del consiglio di amministrazione, anche in base alla normativa secondaria di settore, come quello di approntare strumenti organizzativi valevoli ad assicurare che le informazioni rilevanti raggiungano sempre il consiglio e quello di adoperarsi in concreto per garantire la
completezza, veridicità ed efficacia dei sistemi informativi, configurandosi, in caso di violazione, una responsabilità contrattuale verso i soci della banca e di tipo pubblicistico verso l’autorità di vigilanza (Sez. 2, Sentenza n. 32010 del 11/12/2024, Rv. 673452 01);
il tredicesimo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., la falsa applicazione dell’art. 2729 c.c. e la violazione degli artt. 2441 comma 6, 2381 comma 6, nonché dell’art. 94 comma 7 TUF.
La sentenza avrebbe desunto l’accertamento della negligenza del ricorrente dalla pretesa esistenza di indici di allarme circa l’insufficienza delle informazioni fornite con riguardo alla determinazione del prezzo delle azioni (prima contestazione) postulando l’esistenza di obblighi di verifica esclusi d alle disposizioni del codice civile;
il quattordicesimo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., la violazione dell’art. 2729 c.c.
La sentenza avrebbe fondato l’accertamento della negligenza del ricorrente sulla pretesa esistenza di indici sintomatici del fenomeno (del quale il CdA non era stato informato) dei finanziamenti correlati.
Sotto altro profilo, oltre (come detto) alla violazione delle norme sulla prova per presunzioni, si denuncia che la sentenza avrebbe recepito, in maniera acritica, la ricostruzione dei fatti proposta dalla Consob, e non avrebbe considerato altri elementi che, viceversa, deponevano nel senso che la mancanza di conoscenza, da parte del ricorrente, del fenomeno del capitale finanziato o correlato (nozione coniata dalla BCE e ripresa dalla Consob) non gli era addebitabile a titolo di colpa;
il quindicesimo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., la falsa applicazione dell’art. 2729 c.c. e la violazione di
legge (testuale a pag. 100 ) ‘in relazione all’art. 2392, comma 6, c.c.’.
La sentenza avrebbe fondato l’accertamento della negligenza del ricorrente sulla pretesa consapevolezza dell’ingente numero di richieste di cessione dei titoli non quotati sul mercato regolamentato (cosiddetti titoli illiquidi) facendo leva su mere asserzioni provenienti dalla Consob;
15.1. il tredicesimo, il quattordicesimo e il quindicesimo motivo, che possono essere esaminati congiuntamente per la loro stretta connessione, sono in parte inammissibili e in parte infondati;
innanzitutto, è indubitabile che alla RAGIONE_SOCIALE non può essere chiesto di ripetere il giudizio di fatto della Corte d’appello , poiché una simile attività non è consentita nel giudizio di cassazione.
Ciò precisato, si deve escludere che la sentenza sia viziata da falsa applicazione della disposizione codicistica in tema di prova presuntiva (art. 2729 c.c.). Infatti, il giudice di merito ha ritenuto fondata le contestazioni alla luce di specifiche circostanze di fatto che, secondo la sua insindacabile ricostruzione della vicenda, dimostravano la violazione, da parte dell’amministratore (benché privo di deleghe), degli obblighi informativi nei confronti degli investitori in relazione agli aumenti di capitale deliberati dalla banca.
In particolare, per il giudice di merito, l’agire negligente e imprudente del ricorrente trova riscontro nel fatto che egli era a conoscenza o avrebbe dovuto essere a conoscenza di macroscopiche anomalie concernenti i criteri di stima delle azioni (la cui mancanza di chiarezza era stata portata all’attenzione degli organi di vertice da un socio nel corso di una assemblea dei soci), nonché del fenomeno dei finanziamenti correlati (dei quali, tra l’altro, avevano beneficiato gli stessi amministratori), e della corsa della clientela alla vendita dei titoli azionari illiquidi, e nella constatazione che, conseguentemente,
al pari degli altri componenti del CdA, egli avrebbe dovuto attivarsi al fine di compiere gli approfondimenti del caso;
16. il sedicesimo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., la violazione dell’art. 3 della legge n. 689 del 1981, come interpretato alla luce dell’art. 6 CEDU, nonché dell’art. 7 comma 10 del d.lgs. 150 del 2011, per essere stato disatteso il principio di presunzione di innocenza.
Si sostiene che la sentenza sarebbe in contrasto con i principi del contraddittorio paritario e della distribuzione dell’onere della prova che caratterizzano il rapporto giuridico processuale contenzioso, come interpretati alla luce dell’art. 6 CEDU.
Inoltre, la Corte territoriale avrebbe pretermesso l’art. 7 del decreto legislativo citato che esclude che alla P.A. vengano accordate preferenze o agevolazioni sul piano probatorio, in coerenza con la natura del processo di opposizione;
16.1. il motivo è infondato;
il giudice di merito, nel disattendere l’eccezione del ricorrente relativa alla carenza dell’elemento soggettivo della violazione, ha fatto corretta applicazione del principio di diritto (Cass. n. 24081/2019) secondo cui l’art. 3 della legge n. 689 del 1981 pone una presunzione di colpa a carico dell’autore del fatto vietato, gravando sul trasgressore l’onere di provare di aver agito senza colpa (nella specie, la SRAGIONE_SOCIALE. ha applicato il sopraindicato principio in relazione al provvedimento sanzionatorio adotta to, ai sensi dell’art. 190 del d.lgs. n. 58 del 1998, dalla Consob nei confronti dei componenti del consiglio di amministrazione di una banca, affermando che spetta ad essi, in presenza di accertate carenze procedurali ed organizzative, dimostrare di aver adempiuto diligentemente agli obblighi imposti dalla normativa di settore). Infatti, sia pure con riferimento a sanzioni amministrative irrogate
dalla Banca d’Italia (Cass. n. 9546/2018), si è precisato che il legislatore individua una serie di fattispecie, destinate a salvaguardare procedure e funzioni ed incentrate sulla mera condotta, secondo un criterio di agire o di omettere doveroso, ricollegando il giudizio di colpevolezza a parametri normativi estranei al dato puramente psicologico e limitando l’indagine sull’elemento oggettivo dell’illecito all’accertamento della ‘suità’ della condotta inosservante sicché, integrata e provata dall’autorità amministrativa la fattispecie tipica dell’illecito, grava sul trasgressore, in virtù della presunzione di colpa posta dall’art. 3 della legge n. 689 del 1981, l’onere di provare di aver agito in assenza di colpevolezza. Ne consegue che (Cass. n. 1529/2018) sebbene l’onere di provare i fatti costitutivi della pretesa sanzionatoria sia posto a carico dell’Amministrazione, la quale è pertanto tenuta a fornire la prova della condotta illecita, nel caso dell’illecito omissivo di pura condotta, essendo il giudizio di colpevolezza ancorato a parametri normativi estranei al dato puramente psicologico, è sufficiente la prova dell’elemento oggettivo dell’illecito comprensivo della ‘suità’ della condotta inosservante, in assenza di elementi tali da rendere inesigibile la condotta o imprevedibile l’evento (conf. Cass. Sez. U., n. 20930/2009). Così intesa la ‘presunzione di colpa’ non si pone in contrasto con gli artt. 6 CEDU e 27 Cost. E ciò anche nel caso (diverso da quello di specie) in cui la sanzione abbia natura sostanzialmente penale in quanto afflittiva. Non è quindi necessaria la concreta dimostrazione del dolo o della colpa in capo all’agente, sul quale grava, pertanto, l’onere della dimostrazione di aver agito senza colpa (Cass. n. 11777/2020).
La sentenza impugnata, come detto, si uniforma ai principi in tema di interpretazione dell’articolo 3;
17. il diciassettesimo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., che la Corte d’appello avrebbe giudicato sulla base della cd. presunzione di colpevolezza ex art. 3 delle legge n. 689 del 1981, senza valorizzare il limite all’operatività della presunzione, individuato dalla giurisprudenza della Cassazione; ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c., che la sentenza non avrebbe esaminato la circostanza, pacifica, che alcuni membri dell’alta dirigenza della banca avrebbero posto in essere una convincente, seria e ben organizzata messa in scena di liceità, difficilmente smascherabile attraverso i normali flussi informativi;
17.1. il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato;
dal primo punto di vista (inammissibilità del motivo), rileva il Collegio che la censura di omesso esame di una determinata circostanza si risolve, in realtà, nell’indebita sollecitazione, rivolta alla S.C., a compiere un nuovo scrutinio dei fatti di causa, già esaminati dalla Corte territoriale.
Sul punto, è solo il caso di ricordare che, ad esempio, la sentenza (pag. 71 ) non ravvisa che il ricorrente abbia ‘offerto la prova di manovre dirette a occultare il fenomeno del ‘capitale finanziato”.
La prospettata violazione dell’art. 3 della legge n. 689 del 1981 è priva di fondamento sia per le ragioni sopra evidenziate (punto 16.1.) a proposito dell’elemento soggettivo dell’illecito amministrativo, sia alla luce dei principi in tema di doveri a carico degli amministratori non esecutivi (punti 12.2., 12.3.);
18. il diciottesimo motivo denuncia , ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c., la violazione dell’art. 91 c.p.c.
La sentenza avrebbe erroneamente liquidato, a favore della Consob, le spese processuali nella misura di euro 7.000,00 per compenso professionale, nonostante che, qualora (come nel caso di specie) la P.A. stia in giudizio a mezzo di un proprio funzionario
appositamente delegato e risulti vittoriosa, debbano esserle riconosciute esclusivamente le spese vive, debitamente documentate in una nota, con esclusione del pagamento dei diritti di procuratore e degli onorari di avvocato;
18.1. il motivo è infondato;
la doglianza fa leva su un ‘erronea lettura degli atti di causa dai quali risulta che il patrocinio dell’autorità di vigilanza è stato svolto da avvocati (dipendenti della Commissione), iscritti nella sezione speciale dell’albo degli avvocati di Roma, e non da funzionari della Consob.
In continuità con la giurisprudenza di questa Corte, va riaffermato il principio di diritto secondo cui, qualora la P.A. sia rappresentata in giudizio non da un funzionario delegato ma da un difensore iscritto nell’apposito albo, ai sensi degli artt. 82 e 87 c.p.c., il diritto dell’amministrazione al rimborso delle spese di lite, ex art. 91 c.p.c., comprende anche i relativi compensi, ancorché lo stesso difensore sia anche un suo dipendente, atteso che quel diritto sorge per il solo fatto che la parte vittoriosa è stata in giudizio con il ministero di un difensore tecnico (Cass. nn. 24374/2024, 23825/2023, 16274/2022, 1740/2022, cit.);
19. nella memoria da ultimo depositata il ricorrente chiede che il Collegio, con rinvio pregiudiziale, sottoponga alla Corte di giustizia UE alcuni quesiti al fine di verificare se le sanzioni per le violazioni in questione (art. 191 comma 2 TUF) siano o meno compatibili con i principi e la normativa europea (Carta dei diritti fondamentali UE, artt. 6 e 7 CEDU): l’istanza, manifestamente infondata, va respinta.
Innanzitutto, va detto che l’oggetto della domanda di pronuncia pregiudiziale rivolta alla Corte di giustizia deve riguardare l’interpretazione o la validità del diritto dell’Unione, e non (come nel caso di specie pare sostanzialmente intendere il ricorrente)
l’interpretazione delle norme del diritto nazionale o questioni di fatto sollevate nel procedimento principale (così C. giust., Raccomandazioni all’attenzione dei giudici nazionali, relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale, 2018/C 257/01, in Gazzetta ufficiale dell’Unione europea del 20/07/2018).
Inoltre, per la giurisprudenza di questa Corte «non v’è diritto della parte all’automatico rinvio pregiudiziale ogniqualvolta la Corte di cassazione non ne condivida le tesi difensive (Cass., S.U., 08/07/2016, n. 14043), bastando che le ragioni siano espresse (Corte EDU, in caso COGNOME e Rezabek c. Belgio), ovvero implicite laddove la questione pregiudiziale sia manifestamente inammissibile o manifestamente infondata (Corte EDU, in caso RAGIONE_SOCIALE, par. 36), ovverosia quando l’interpretazione della norma e del caso siano evidenti (Cass., S.U., 24/05/2007, n. 12067). Infatti, un organo giurisdizionale di ultima istanza non è tenuto a presentare alla Corte di giustizia una domanda di pronuncia pregiudiziale (art. 267 comma 3 TFUE), qualora esista già una giurisprudenza consolidata in materia o qualora la corretta interpretazione della norma di diritto di cui trattasi non lasci spazio a nessun ragionevole dubbio (Raccomandazioni 2016. C. – 439.01, par. 6)» (Cass. Sez. U., 19/06/2018, n. 16157, in motivazione, p. 5.5.; nello stesso senso, tra le tante, Cass. 07/06/2018, n. 14828; Cass. 16/06/2017, n. 15041, secondo cui il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione Europea presuppone il dubbio interpretativo su una norma comunitaria, che non ricorre allorché l’interpretazione sia auto-evidente oppure il senso della norma sia già stato chiarito da precedenti pronunce della Corte, non rilevando, peraltro, il profilo applicativo di fatto, che è rimesso al giudice nazionale). Ed anche la Corte costituzionale (sentenza n. 28 del 2010, in motivazione al p. 6) ha ritenuto che sia da escludere il rinvio pregiudiziale alla Corte di
giustizia dell’Unione europea, non «necessario quando il significato della norma comunitaria sia evidente, anche per essere stato chiarito dalla giurisprudenza della Corte di giustizia».
Cass. Sez. U., ord. n. 5978 del 23/02/2022 (in termini, Cass. Sez. U., ord. n. 28803/2022) ha chiarito che «econdo una giurisprudenza costante della Corte di Giustizia (cfr. da ultima, Corte di Giustizia dell’Unione Europea – Grande Sezione – Sentenza 6 ottobre 2021, causa C561/19, RAGIONE_SOCIALE ‘un giudice nazionale avverso le cui decisioni non possa proporsi ricorso giurisdizionale di diritto interno, può essere esonerato da tale obbligo solo quando abbia constatato che la questione sollevata non è rilevante, o che la disposizione del diritto dell’Unione di cui trattasi è già stata oggetto d’interpretazione da parte della Corte, oppure che la corretta interpretazione del diritto dell’Unione si impone con tale evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi ‘. d’imposta), C -416/17, E ancora (cfr. sentenza Corte di Giustizia 6.10.2021 cit.) ‘dal rapporto fra il secondo e il terzo comma dell’articolo 267 TFUE discende che i giudici di cui al comma terzo dispongono dello stesso potere di valutazione di tutti gli altri giudici nazionali nello stabilire se sia necessaria una pronuncia su un punto di diritto dell’Unione onde consentire loro di decidere. Tali giudici non sono pertanto tenuti a sottoporre una questione di interpretazione del di ritto dell’Unione sollevata dinanzi ad essi se questa non è rilevante, vale a dire nel caso in cui la sua soluzione, qualunque essa sia, non possa in alcun modo influire sull’esito della controversia (sentenze del 6 ottobre 1982, Cilfit e a., 283/81, EU:C:1982:335, punto 10; del 18
luglio 2013, Consiglio Nazionale dei Geologi, C-136/12, EU:C:2013:489, punto 26, nonché del 15 marzo 2017, Aquino, C Numero di raccolta generale 5978/2022 3/16, EU:C:2017:209, punto 43)’. Sempre con la citata sentenza 6/10/2021, la Corte di Giustizia ha ribadito che ‘il giudice nazionale è l’unico competente a conoscere e valutare i fatti della controversia di cui al procedimento principale nonché ad interpretare e ad applicare il diritto nazionale. Spetta parimenti al solo giudice nazionale, cui è stata sottoposta la controversia e che deve assumersi la responsabilità dell’emananda decisione giurisdizionale, valutare, alla luce delle particolari circostanze della causa, tanto la necessità quanto la rilevanza delle questioni che sottopone alla Corte (sentenze del 26 maggio 2011, Stichting Natuur en Milieu e a., da C-165/09 a C-167/09, EU:C:2011:348, punto 47 nonché giurisprudenza ivi citata; del 9 settembre 2015, X e van Dijk, C-72/14 e C-197/14, EU:C:2015:564, punto 57, nonché del 12 maggio 2021, RAGIONE_SOCIALE, C-70/20, EU:C:2021:379, punto 25)’».
Sul tema del ‘ se ‘ e ‘ quando ‘ disporre il rinvio pregiudiziale al giudice europeo, è tornata di recente ad interrogarsi Cass. Sez. 1, ord. interloc. 30/12/2024, n. 34898, la quale pone l’accento sul fatto che la Corte di giustizia (C. giust., 06/10/2021, C-561/19), dato atto che il rinvio pregiudiziale costituisce la chiave di volta del sistema giurisdizionale istituito dai trattati, ha ribadito e sviluppato i criteri (già espressi nella sentenza RAGIONE_SOCIALE, cit.) al ricorrere dei quali viene meno l’obbligo dei giudici di ultima istanza di rivolgersi alla Corte in presenza di questioni di interpretazione del diritto eurounitario. Si tratta, oltre ai casi di irrilevanza della questione, dell’ acte éclairé , ovverosia quando la questione sia materialmente identica ad altra già decisa o vi sia una giurisprudenza consolidata della Corte sul punto, e dell’ acte clair , quando l’interpretazione del diritto dell’Unione si
imponga con evidenza tale da non dare adito a ragionevoli dubbi. Per la Corte di giustizia l’iniziativa delle parti nel giudizio di ultima istanza non può privare il giudice della propria indipendenza nel vagliare se ricorra una delle ipotesi di cui alla sentenza Cilfit, obbligandolo così a presentare un rinvio pregiudiziale.
Tornando alla fattispecie concreta in esame, ritiene il Collegio che non vi sia necessità di disporre il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia in quanto, per la consolidata giurisprudenza di legittimità (della quale si è dato conto nelle pagini precedenti), le sanzioni amministrative pecuniarie applicate dalla Consob per violazione in materia di offerta al pubblico di titoli ex art. 94 TUF, non sono sanzioni amministrative di carattere punitivo, non pongono un problema di compatibilità con le garanzie riservate ai processi penali dall’art. 6 CEDU (secondo l’interpretazione della sentenza della Corte EDU del 04/03/2014, COGNOME RAGIONE_SOCIALE cRAGIONE_SOCIALE), nel senso che non sono equiparabili, per tipologia, severità, incidenza patrimoniale e personale, alle sanzioni Consob relative all’abuso di informazioni privilegiate (Cass. nn. 12031/2022, 4524/2021) e alla manipolazione del mercato (Cass. nn. 17209/2020, 24850/2019), entrambe ritenute sostanzialmente penali;;
in conclusione, il ricorso deve essere rigettato;
le spese del giudizio di cassazione, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza;
22 . ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115/2002, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis del citato art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in euro 5.000,00, a titolo di compenso, più euro 200,00, per esborsi, oltre alle spese generali e agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115/2002, dichiara che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis del citato art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione