Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 11219 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 11219 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 28/04/2025
Oggetto: SANZIONI AMMINISTRATIVE –
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 11320/2019 R.G. proposto da
COGNOME NOME, rappresentato e difeso, anche disgiuntamente, dagli avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME, presso il cui studio in Roma, INDIRIZZO sono elettivamente domiciliati.
-ricorrente –
contro
COMMISSIONE NAZIONALE PER LE SOCIETA’ E LA BORSA, rappresentata e difesa, anche disgiuntamente, dagli avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME, presso il cui studio in Roma, INDIRIZZO è elettivamente domiciliata.
-controricorrente – avverso la sentenza n. 85/2019 della Corte d’Appello di Venezia, pubblicata il 15.1.2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13 marzo 2025 dalla dott.ssa NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
1 . NOME COGNOME propose opposizione avverso la delibera della Consob n. 20033 del 14/06/2017, rettificata con delibera n. 20057 del 06/07/2017 e notificata il 08/08/2017, con la quale, all’esito del procedimento disciplinato dall’art. 195, comma 5, d.lgs. n. 58 del 1998, era stata applicata a suo carico, quale componente del Consiglio di Amministrazione di Veneto Banca dal 18/04/2009 al 20/02/2014, la sanzione pecuniaria di euro 35.000,00, per i seguenti illeciti: 1) violazione dell’art. 21 comma 1, lett. d), del T.U.F. e dell’art. Regolamento congiunto Banca d’Italia -Consob del 29 ottobre 2007, nonché dell’art. 21, comma 1, lett. a), del T.U.F. e degli artt. 39 e 40 del Regolamento Consob n. 16190 del 29 ottobre 2007, per avere la Banca omesso di dotarsi di procedure adeguate e tenuto comportamenti contrari a correttezza, diligenza e trasparenza in materia di valutazione e di adeguatezza delle operazioni (periodo di riferimento: 1 giugno 2011- 31 dicembre 2015); 2) violazione dell’art. 21, comma 1, lett. d), T.U.F. e dell’art. 15 del Regolamento congiunto Banca d’Italia -Consob del 29 ottobre 2007, nonché dell’art. 21, comma 1, lett. a), T.U.F. e dell’art. 49, commi 1 e 3, dal Regolamento Consob n. 16190 del 29 ottobre 2007, per avere la Banca omesso di dotarsi di procedure adeguate e tenuto comportamenti contrari a correttezza, diligenza e trasparenza in materia di gestione degli ordini dei clienti (periodo di riferimento: 1 giugno 2011-10 febbraio 2015); 3) violazione dell’art. 21, comma 1, lett. d), del T.U.F. e dell’art. 15, comma 1, dal Regolamento congiunto Banca d’Italia-Consob del 29 ottobre, per avere la Banca omesso di dotarsi di procedure adeguate in materia di pricing delle azioni di propria emissione (periodo di riferimento: 1 giugno 2011-18 Aprile 2015).
Il procedimento, nel quale si costituì la Consob, si concluse con la sentenza n. 85/2019, pubblicata il 15.1.2019, con la quale la Corte
d’Appello di Venezia rideterminò la sanzione nella misura di € 15.000,00.
Per quanto qui interessa, i giudici di merito ritennero che la lettera della Banca d’Italia, prodotta in udienza dal ricorrente al fine di dimostrare una pretesa decadenza dal potere sanzionatorio della Consob con riferimento alla procedura di pricing , non fosse rilevante, non essendo funzionale ad alcun motivo di opposizione, e che la Consob, in sede di accesso agli atti, avesse consegnato all’opponente tutta la documentazione a sua volta ricevuta dalla Banca, tra cui un documento allegato all’edizione del Manuale Mifid del 2010, riportante le regole di quest’ultimo. Aggiunsero, poi, che le violazioni di carattere procedurale (per la mancata predisposizione ex ante sia di presidi idonei ad assicurare, da parte dell’intermediario, il corretto svolgimento dei servizi e delle attività di investimento, specie con riferimento alla profilatura del cliente, lasciata sostanzialmente alla sua autovalutazione, e alla gestione delle richieste di acquisto e di vendita delle azioni, sottratte a sistemi di tracciatura informatica e lasciate alla discrezionalità degli operatori in violazione del principio di priorità temporale, sia di presidi di controllo interno) avevano agevolato la violazione dei canoni di diligenza, correttezza e trasparenza nell’ambito dell’operazione RAGIONE_SOCIALE e del collocamento dell’obbligazione Veneto Banca 4%, e che vi erano state irregolarità anche in materia di pricing delle azioni di emissione della Banca, atteso che l’individuazione dell’esperto, che avrebbe dovuto valutarle, era avvenuta in assenza di procedure e presidi idonei ad assicurare adeguatamente il governo e il controllo del relativo processo, essenziale ai fini della corretta prestazione del servizio di investimento da parte dell’intermediario, sicché il valore ad esse attribuito era risultato crescente anche in periodo di crisi, con conseguenze sulla diligenza e correttezza del servizio di negoziazione.
2 . Contro la predetta sentenza, COGNOME NOME propone ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi.
La Commissione Nazionale per le Società e la Borsa resiste con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1 Con il primo motivo di ricorso, si lamenta la violazione dell’art. 195, comma 2, T.U.F. e, in particolare, del principio del contraddittorio e dell’onere della prova, per avere i giudici di merito affermato che la Consob aveva messo a disposizione del ricorrente tutta la documentazione consegnatale dalla Banca e, segnatamente, il Manuale Mifid, due circolari del 2010, contenenti indicazioni sulle valutazioni di adeguatezza, e un documento costituente allegato all’edizione 2010 del Manuale Mifid, riportante le regole di quest’ultimo ad uso esterno, reputando la procedura descritta conforme a quella dell’edizione del 2012 del Manuale, senza considerare che con tale motivazione si era sostanzialmente preso atto del fatto che non fosse stato osteso il Manuale del 2010, vigente nel periodo di durata della carica del ricorrente, e che, in tal modo, era stato violato il diritto alla difesa del ricorrente e il principio del riparto dell’onere della prova in materia di sanzioni amministrative, in virtù del quale spettava all’Amministrazione dimostrare la propria pretesa.
2 Con il secondo motivo, riferito alla contestazione n. 1, si lamenta la motivazione meramente apparente sulla questione della violazione del principio del contraddittorio, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., avendo i giudici di merito ritenuto ‘chiaramente evincibile’ il contenuto di una procedura, senza spiegare perché, posto che il documento allegato ad altro non prodotto regolava un aspetto del tutto peculiare della procedura ipoteticamente violata.
Il primo e il secondo motivo sono infondati.
Partendo dalle censure sulla motivazione, si osserva che la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (tra le varie, Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014 Rv. 629830). Scendendo più nel dettaglio sull’analisi del vizio di motivazione apparente, la costante giurisprudenza di legittimità ritiene che il vizio ricorre quando la motivazione, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (v. da ultimo, Cass., Sez. U, 30/1/2023, n. 2767; vedi anche, tra le tante, Sez. U, Sentenza n. 22232 del 03/11/2016 Rv. 641526; Sez. U, Sentenza n. 16599 del 2016; Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 6758 del 01/03/2022 Rv. 664061; Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 13977 del 23/05/2019 Rv. 654145).
Nella specie, i giudici di merito hanno ampiamente dato conto, con articolata ed esaustiva motivazione, della questione riguardante il Manuale operativo Mifid da essi esaminato, indicante le modalità operative per l’esecuzione delle verifiche di adeguatezza e appropriatezza, affermando che l’edizione del 2010 sui servizi di investimento fosse contenuta in un allegato e che le procedure in esso descritte fossero sostanzialmente conformi a quelle previste nella successiva edizione del 2014, con la conseguenza che il lamentato vizio di motivazione apparente non è in alcun modo ravvisabile.
Venendo alla questione di diritto prospettata con la prima censura, si osserva quanto segue.
L’art. 21, comma 1, lett. a) T.U.F., obbliga i soggetti abilitati, nello svolgimento dell’attività di prestazione dei servizi e delle attività di investimento, a comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza, per servire al meglio l’interesse dei clienti e per l’integrità dei mercati, mentre la successiva lett. d) della medesima disposizione, obbliga i predetti a predisporre risorse e procedure, anche di controllo interno, idonee ad assicurare l’efficiente svolgimento dei servizi e delle attività al fine di comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza per servire al meglio l’interesse dei clienti e per l’integrità dei mercati. Ciò che è contestato ai ricorrenti è l’aver violato il dovere di diligenza connesso alla carica da loro ricoperta, omettendo di predisporre regole di organizzazione interna alla Banca che assicurassero il corretto svolgimento dei servizi e l’adempimento degli obblighi nei confronti dei clienti e la tutela dell’integrità del mercato.
Il d.lgs. n. 58 del 1998, chiarisce, infatti, all’art. 1, comma 5, che la vigilanza sulle attività ivi disciplinate (tra le quali quelle di cui all’art. 21 del medesimo decreto) ha per scopo la trasparenza e la correttezza dei comportamenti e la sana e prudente gestione dei soggetti abilitati, avendo riguardo alla tutela degli investitori e alla
stabilità, alla competitività e al buon funzionamento del sistema finanziario, attribuendo, nel successivo comma 3, alla Consob la competenza a verificare la trasparenza e la correttezza dei comportamenti e, dunque, come accaduto nella specie, la corretta organizzazione della Banca nell’espletamento delle prestazioni relative al servizio di investimento.
Orbene, al procedimento ex art. 195 T.U.F. (costruito sulla falsariga dello statuto generale rappresentato dalla legge del 24 novembre 1981, n. 689), trova applicazione l’art. 6, comma 11, del d.lgs. 1 settembre 2011 n. 150, (che ha abrogato e sostituito il precedente art. 23, comma 12, legge n. 689 del 1981), in virtù del quale: « Il giudice accoglie l’opposizione quando non vi sono prove sufficienti della responsabilità dell’opponente ». Ciò presuppone l’applicazione dell’art. 2697 cod. civ., norma generale che individua nell’Autorità sanzionante il soggetto gravato dell’onere di dimostrare la responsabilità del trasgressore: all’Amministrazione, che viene a rivestire – dal punto di vista sostanziale – la posizione di attrice (ricoprendo, invece, sotto quello formale, il ruolo di convenuta opposta), incombe l’obbligo di fornire la prova adeguata della fondatezza della sua pretesa, mentre all’opponente, qualora abbia dedotto fatti specifici incidenti o sulla legittimità formale del procedimento amministrativo sanzionatorio espletato, o sull’esclusione della sua responsabilità relativamente alla commissione dell’illecito, spetta, invece, provare le circostanze negative contrapposte a quelle allegate dall’Amministrazione (in questi termini, Cass., Sez. 2, 11/1/2024, n. 1154; tra le altre Cass. 30/5/2022 n. 17394; Cass. Sez. 6 – 2, 24/01/2019, n. 1921; Cass. Sez. 6 – 2, 11/03/2015, n. 4898; Cass. Sez. 2, 03/03/2011, n. 5122; Cass. Sez. 3, 10/02/2003, n. 1948, Rv. 560351 – 01), postulando che lo svolgimento del procedimento di opposizione avvenga secondo il principio dispositivo ai sensi dell’art. 115 cod.
proc. civ., con conseguente vincolo del giudice ai mezzi tipici e alle iniziative istruttorie delle parti.
Come chiarito da Cass., Sez. 2, 11/1/2024, n. 1154, cit., in presenza di una norma di comando che imponga un facere , la condotta omissiva del responsabile è dimostrabile da parte dell’autorità mediante presunzioni, mentre l’onere di provare la condotta attiva dovuta grava sul responsabile, il quale può provare la sussistenza di elementi tali da rendere inesigibile il comportamento attivo ( ex multis : Cass. Sez. 2, 22/01/2018, n. 1529; conf.: Cass. Sez. 1, 29/03/2016, n. 6037; Cass. Sez. U, 30/09/2009, n. 20934, che richiama la nota sentenza di queste delle Sezioni Unite del 30/10/2001, n. 13533, resa nella diversa materia dei rapporti contrattuali; Cass. 22.08.2006, n. 18235; Cass. Sez. 5, 28/02/2008, n. 5239; Cass 24/06/2004, n. 11751), in ossequio al principio di vicinanza della prova, a mente del quale il relativo onere va posto a carico del soggetto nella cui sfera di controllo si è prodotto l’inadempimento stesso.
Orbene, come accennato sopra, i giudici di merito hanno spiegato da dove abbiano tratto le norme contenute nel Manuale operativo, edizione 2010, sostenendo che le procedure in esso descritte fossero sostanzialmente conformi a quelle previste nella successiva edizione.
Il ricorrente pretende, dunque, con le due censure, prospettate in termini di violazione di legge e di difetto di motivazione, di negare la circostanza, sostenendo che fosse indispensabile per l’esercizio del suo diritto di difesa e per la corretta applicazione del riparto dell’onere della prova l’ostensione del Manuale del 2010, non essendo all’uopo sufficienti i contenuti riportati nell’allegato.
Tale considerazione non si confronta però col principio secondo cui la valutazione del materiale probatorio – in quanto destinata a risolversi nella scelta di uno (o più) tra i possibili contenuti informativi che il singolo mezzo di prova è, per sua natura, in grado
di offrire all’osservazione e alla valutazione del giudicante -costituisce espressione della discrezionalità valutativa del giudice di merito ed è estranea ai compiti istituzionali della Suprema Corte, restando totalmente interdetta alle parti la possibilità di discutere, in sede di legittimità, del modo attraverso il quale, nei gradi di merito, sono state compiute le predette valutazioni discrezionali (Cass., Sez. 1, 3/7/2023, n. 18857; Cass. 29/10/2018, n. 27415; Cass. 19/07/2021, n. 20553).
Se è vero che, ai sensi degli artt. 115 e 360, comma primo, n. 4, cod. proc. civ. possono essere denunciate l’errata percezione e la conseguente utilizzazione, da parte del giudice di merito, di prove inesistenti e, cioè, riferite a fonti che non sono mai state dedotte in giudizio dalle parti oppure, se riferite a fatti o fonti appartenenti al processo, costituite dall’elaborazione di contenuti informativi non riconducibili a dette fonti in alcun modo, neppure in via indiretta o mediata, sempre che tali contenuti informativi abbiano, specularmente interpretati, il carattere della decisività, è anche vero che la deduzione di travisamento della prova postula che: a) l’errore del giudice di merito cada non sulla valutazione della prova, ma sulla ricognizione del contenuto oggettivo della medesima, con conseguente e assoluta impossibilità logica di ricavare, dagli elementi acquisiti al giudizio, i contenuti informativi che da essi il giudice di merito ha ritenuto di poter trarre; b) tale contenuto abbia formato oggetto di discussione nel giudizio; c) l’errore sia decisivo e, cioè, che la motivazione sarebbe stata necessariamente diversa se fosse stata correttamente fondata sui contenuti informativi oggettivamente risultanti dal materiale probatorio e inequivocabilmente difformi da quelli erroneamente desunti dal giudice di merito; d) il giudizio sulla diversità della decisione sia espresso non già in termini di mera probabilità, ma di assoluta certezza (Cass., Sez. 3, 21/12/2022, n. 37382).
Nessuno di tali presupposti però è stato dedotto nella specie, essendosi limitato il ricorrente a confutare la validità del compendio probatorio esaminato dai giudici, in ragione della mancata produzione del Manuale Mifid del 2010, benché i relativi contenuti fossero riportati, come ritenuto dalla Corte d’Appello, in altro documento, senza che questa circostanza sia stata attinta dalla censura.
Né può dirsi violato il principio del contraddittorio, siccome riferibile solo al procedimento giurisdizionale, nell’ambito del quale sono assicurate le garanzie del giusto processo (Cass., Sez. 2, 4/9/2014, n. 18683; Cass., Sez. 2, 22/4/2016, n. 8210), né sussistente il lamentato difetto di motivazione, avendo i giudici argomentato in ordine alle prove documentali acquisite e valutato i relativi contenuti.
3 Con il terzo motivo di ricorso, si lamenta, con riferimento alla contestazione n. 1, la nullità parziale della sentenza per omessa pronuncia su uno specifico motivo di impugnazione, perché i giudici di merito avevano omesso di pronunciarsi in ordine al fatto che la contestazione sui profili comportamentali (ossia la violazione delle regole di comportamento nei rapporti con i clienti in occasione dell’aumento del capitale sociale e dell’emissione di obbligazioni avvenuti nel 2014) non potesse essergli addebitata, in quanto riguardava situazioni estranee al periodo in cui il ricorrente aveva rivestito la carica di componente del Consiglio di Amministrazione perché riferite al periodo dell’aumento del capitale sociale della Banca, intervenuto nel 2014, limitandosi a prendere posizione sui profili procedurali e afferenti alla carenza della procedura.
Il motivo è infondato.
In tema di ricorso per cassazione, il vizio di omessa pronuncia, censurabile ex art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ. per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., ricorre ove il giudice ometta completamente di adottare un qualsiasi provvedimento, anche
solo implicito di accoglimento o di rigetto, ma comunque indispensabile per la soluzione del caso concreto, sulla domanda o sull’eccezione sottoposta al suo esame (Cass., Sez. 5, 23/10/2024, n. 27551), e integra un difetto di attività del giudice di secondo grado, che deve essere fatto valere dal ricorrente attraverso la specifica deduzione del relativo error in procedendo , la quale soltanto consente alla parte di chiedere e al giudice di legittimità in tal caso giudice anche del fatto processuale – di effettuare l’esame, altrimenti precluso, degli atti del giudizio di merito e, così, anche dell’atto di appello (Cass., Sez. L, 13/10/2022, n. 29952; Cass., Sez. 5, 31/7/2024, n. 21444).
L’omissione lamentata si riferisce, nello specifico, alla violazione comportamentale relativa alla profilatura della clientela di cui all’art. 21, lett. a) del T.U.F., il quale, nell’imporre all’operatore di comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza, per servire al meglio l’interesse dei clienti e per l’integrità dei mercati, dà luogo ad un illecito omissivo a carattere permanente, in quanto si concreta nell’inosservanza di una serie di regole di condotta la cui consumazione si protrae fino a che è proseguita l’inosservanza degli predetti obblighi (Cass., Sez. 2, 31/5/2023, n. 15352).
Tale violazione, che è consistita, nella specie, nell’avere la Banca omesso di adottare fin dal 2011 specifiche policy in tema di profilatura della clientela, è stata vagliata ampiamente dai giudici di merito, i quali si sono dapprima dilungati nel valutare la sussistenza delle carenze rinvenute nelle procedure e nei presidi predisposti dalla Banca, consentendo di accertare l’assenza di norme che disciplinassero le regole di condotta degli operatori a contatto con la clientela nelle attività di investimento e la conseguente rimessione alla discrezionalità degli stessi delle operazioni compiute, senza sistemi di blocco in caso di loro inadeguatezza, per poi affermare che, a causa di ciò, era stato
consentito ad essa di operare liberamente, proponendo prodotti ad alto rischio non adeguati alle caratteristiche del cliente.
Alla luce di quanto detto, la doglianza è destituita di fondamento.
4 Col quarto motivo, riferito alla contestazione n. 4, si lamenta la violazione dell’art. 195, commi 6 e 7, T.U.F., per avere i giudici di merito rigettato la richiesta di annullamento del provvedimento sanzionatorio fondata sulla lettera della Banca d’Italia del 25/11/2013, esibita in udienza perché acquisita dopo il ricorso in opposizione e atta a dimostrare l’intervenuta decadenza della Consob dal potere sanzionatorio riguardante la procedura di pricing in quanto ne era venuta a conoscenza fin da allora, asserendo erroneamente che tale documento non fosse funzionale ad alcun motivo di opposizione, benché l’eccezione di decadenza fosse stata sollevata con le note d’udienza, e che non fosse ammessa l’introduzione, nel corso di giudizio, di motivi ulteriori rispetto a quelli formulati con il ricorso, senza considerare la scusabilità della tardiva produzione, non essendo stata la stessa resa ostensibile dalla Consob in sede di accesso agli atti e che, in siffatti casi, sussistevano gli estremi per la rimessione in termini e per la conseguente formulazione di motivi ulteriori.
Il motivo è, parimenti, infondato, sebbene debba procedersi alla correzione della sentenza impugnata ex art. 384 ultimo comma cpc.
I giudici di merito, infatti, nel considerare irrilevante la lettera della Banca d’Italia del 25/11/2013 finalizzata a dimostrare l’intervenuta decadenza della Consob dal potere sanzionatorio, non avendo l’opponente proposto all’uopo alcun motivo di opposizione e non potendo essere ammessa, in corso di giudizio, l’introduzione di motivi ulteriori rispetto a quelli contenuti nel ricorso introduttivo, non hanno considerato il principio secondo cui la tempestiva proposizione del ricorso e l’espressa riserva ivi contenuta in ordine all’eventuale predisposizione di ulteriori motivi di opposizione,
fondati su documenti resi accessibili dalla Consob oltre il termine utile per presentare il detto ricorso, sono idonee a legittimare una pronuncia di rimessione in termini per la formulazione di tali ulteriori motivi, purché siano basati sui documenti tardivamente messi a disposizione, atteso che, in sede giurisdizionale, deve essere garantito il pieno recupero delle facoltà difensive in concreto pregiudicate nella precedente fase, ancorché non sia equiparabile il principio del “giusto procedimento” a quello del “giusto processo” (Cass., Sez. 2, 11/6/2018, n. 15049).
E tuttavia la censura non considera che, in tema di sanzioni irrogate dalla Consob, il termine per la contestazione della violazione all’interessato, stabilito a pena di estinzione dell’obbligazione di pagamento dall’art. 14, comma 6, della legge n. 689 del 1981, decorre, ai fini della verifica della tempestività della stessa, dal momento in cui l’accertamento è stato compiuto o avrebbe potuto ragionevolmente essere effettuato dall’organo addetto al controllo e non da quello in cui il “fatto” è stato acquisito nella sua materialità e la sua determinazione spetta all’autorità competente, mentre al giudice di merito compete la valutazione relativa alla congruità del tempo utilizzato per l’accertamento (Cass., Sez. 2, 11/9/2024, n. 24401), senza, tuttavia, potersi sostituire all’Amministrazione nella valutazione dell’opportunità di atti istruttori collegati ad altri e posti in essere in assenza di apprezzabile intervallo temporale (Cass., Sez. 1, 4/4/2018, n. 8326).
Nel rapporto tra Banca d’Italia e Consob, questa Corte ha, in particolare osservato (Cass., Sez. 2, 5/4/2017, n. 8855) che, qualora il soggetto abilitato a riscontrare gli estremi della violazione sia diverso da quello incaricato della ricerca e della raccolta degli elementi di fatto, l’atto di accertamento non può essere configurato fino a quando i risultati delle indagini svolte dal secondo non siano portati a conoscenza del primo, dovendo escludersi che le attività
svolte dai due diversi organi possano essere considerate unitariamente al fine di valutare la congruità del tempo necessario per l’accertamento delle irregolarità e, conseguentemente, la ragionevolezza di quello effettivamente impiegato dall’amministrazione.
Da tanto deriva che, in tema di disciplina dell’attività di intermediazione finanziaria, essendo la vigilanza delle norme, la cui violazione è sanzionata come illecito amministrativo, affidata appunto alla Consob, e non alla Banca d’Italia (la quale non è legittimata ad avviare il procedimento sanzionatorio), il momento iniziale di decorrenza del termine per la contestazione non può essere fatto coincidere con il deposito presso la Banca d’Italia della relazione ispettiva redatta dal Servizio di vigilanza della medesima Banca d’Italia ( ex multis : Cass. Sez. 1, 19/05/2004, n. 9456, Rv. 572933 – 01; Cass. Sez. U, 09/03/2007, n. 5395, Rv. 596028 – 01; conf.: Cass. Sez. 2, 02/12/2011, n. 25836, Rv. 620363 – 01; Cass. Sez. 2, 03/05/2016, n. 8687, Rv. 639747 01; Cass. Sez. 2, 16/04/2018, n. 9254, Rv. 648081-01; Cass. Sez. 2, 08/08/2019, n. 21171, Rv. 655194 – 01; Cass. Sez. 2, 30/03/2023, n. 9022, Rv. 667516 – 01).
L’acquisizione dei rilievi ispettivi riferiti alle verifiche condotte dalla Banca d’Italia sulla situazione aziendale e trasmessi alla Consob sono, infatti, seguiti dalle indagini ulteriori poste in essere da quest’ultima al fine di verificare e controllare la correttezza dei comportamenti nella distribuzione degli strumenti finanziari emessi dalla Banca, sicché solo all’esito dell’acquisizione completa ed effettiva dei documenti si può ritenere definita nella sua integralità l’attività di indagine e controllo da parte della stessa, alla quale solo deve far seguito la notificazione della contestazione nel termine perentorio stabilito dal primo comma dell’art. 195 (in questi termini, Cass., Sez. 2, 28/2/2025, n. 5292).
Tali principi impediscono, dunque, di valutare come decisiva la circostanza della comunicazione della Banca d’Italia del 2013, come invece preteso dal ricorrente, con conseguente infondatezza della censura.
5 Col quinto motivo, si lamenta, infine, con riferimento a tutte le contestazioni, la violazione dell’art. 2381, comma terzo, cod. civ., perché la Corte d’Appello non aveva considerato che la riforma societaria del 2003 aveva circoscritto la responsabilità degli amministratori privi di deleghe allo scopo di evitare che questa si trasformasse in una responsabilità oggettiva, potendosi essi considerare responsabili soltanto in caso di inadempimento del loro dovere di agire informati, ossia di chiedere chiarimenti e approfondimenti in presenza di segnali di allarme inequivocabili, dai quali fosse possibile desumere l’accettazione del rischio del verificarsi dell’evento illecito. Ad avviso del ricorrente, dunque, la violazione del citato dovere non poteva configurarsi in assenza di prova della sussistenza di reali indici di allarme atti ad imporre la richiesta di ulteriori informazioni, non ravvisabile né con riguardo alla contestazione n. 1), posto che né la disattivazione dell’applicativo Ars, né l’utilizzo del sistema non bloccante, rilevanti in occasione dell’aumento del capitale sociale, avevano a che fare con la procedura ordinaria dei servizi di investimento, l’unica riconducibile all’opponente, né con riguardo alla contestazione n. 3) (relativa alla negoziazione di azioni proprie), posto che le carenze rilevate si riferivano ad un periodo successivo alla cessazione della carica del ricorrente, né con riguardo alla contestazione n. 4), afferente alle procedure di pricing , posto che la modifica delle stesse, deliberata nel 2010, aveva lo scopo di adeguarle ai rilievi della Banca d’Italia, che, pur informatane, non aveva considerato alcunché.
Anche questo motivo è infondato.
Proprio con riferimento alla delibera in esame, questa Corte (Cass., Sez. 2, 2/2/2022, n. 3243, non massimata), ha affermato che «l’art. 190 T.U.F., in base alla versione applicabile ” ratione temporis ” anteriormente alla modifica introdotta dal d.lgs. n. 72 del 2015, nel sanzionare le violazioni poste in essere dai ” soggetti che svolgono funzioni di amministrazione o di direzione e i dipendenti di società o enti abilitati “, adotta un criterio di responsabilità effettiva dei soggetti che agiscono nell’ambito dell’organizzazione dell’intermediario, individuando una serie di fattispecie destinate a salvaguardare procedure e funzioni e incentrate sulla mera condotta, secondo un criterio di agire o di omettere doveroso, che ricollega il giudizio di colpevolezza a parametri normativi estranei al dato puramente psicologico e limita l’indagine sull’elemento oggettivo dell’illecito all’accertamento della “suità” della condotta inosservante, sicché, integrata e provata dall’autorità amministrativa la fattispecie tipica dell’illecito, grava sul trasgressore, in virtù della presunzione di colpa posta dall’art. 3 della legge n. 689 del 1981, l’onere di provare di aver agito in assenza di colpevolezza. Così, in particolare, doveri di particolare pregnanza sorgono in capo al Consiglio di Amministrazione di una società bancaria, doveri che riguardano l’intero organo collegiale e, dunque, anche i consiglieri non esecutivi, i quali sono tenuti ad agire in modo informato e, in ragione dei loro requisiti di professionalità, ad ostacolare l’evento dannoso, sicché rispondono del mancato utile attivarsi (fra le tante, Cass. Sez. 2, 26/09/2019, n. 24081; Cass. Sez. 2, 18/06/2019, n. 16323).
«Il dovere di agire informati dei consiglieri non esecutivi delle società bancarie, sancito dagli artt. 2381, commi terzo e sesto, e 2392 cod. civ., non va, del resto, rimesso, nella sua concreta operatività, alle segnalazioni provenienti dai rapporti degli amministratori delegati, giacché anche i primi devono possedere ed esprimere costante e adeguata conoscenza del business e, essendo
compartecipi delle decisioni di strategia gestionale assunte dall’intero consiglio, hanno l’obbligo di contribuire ad assicurare un governo efficace dei rischi di tutte le aree della banca e di attivarsi in modo da poter efficacemente esercitare una funzione di monitoraggio sulle scelte compiute dagli organi esecutivi, non solo in vista della valutazione delle relazioni degli amministratori delegati, ma anche ai fini dell’esercizio dei poteri, spettanti al consiglio di amministrazione, di direttiva o avocazione concernenti operazioni rientranti nella delega.
Questa interpretazione non vale ad accollare una responsabilità oggettiva agli amministratori non esecutivi, essendo gli stessi perseguibili ove ricorrano comunque sia la condotta d’inerzia, sia il fatto pregiudizievole antidoveroso, sia il nesso causale tra i medesimi, sia, appunto, la colpa, consistente nel non aver rilevato colposamente i segnali dell’altrui illecita gestione, pur percepibili con la diligenza della carica (anche indipendentemente dalle informazioni doverose ex art. 2381 cod. civ.), e nel non essersi utilmente attivati al fine di evitare l’evento.
Sotto il profilo probatorio, ciò comporta che spetta al soggetto, il quale afferma la responsabilità, allegare e provare, a fronte dell’inerzia dei consiglieri non delegati, l’esistenza di segnali d’allarme (anche impliciti nelle anomale condotte gestorie) che avrebbero dovuto indurli ad esigere un supplemento di informazioni o ad attivarsi in altro modo (con la richiesta di convocazione del consiglio di amministrazione rivolta al presidente, il sollecito alla revoca della deliberazione illegittima o all’avocazione dei poteri, l’invio di richieste per iscritto all’organo delegato di desistere dall’attività dannosa, l’impugnazione delle deliberazione, la segnalazione al p.m. o all’autorità di vigilanza, e così via); assolto tale onere, è, per contro, onere degli amministratori provare di avere tenuto la condotta attiva dovuta o la causa esterna, che abbia reso non percepibili quei segnali o impossibile qualsiasi
condotta attiva mirante a scongiurare il danno» (cfr. Cass., Sez. 2, 2/2/2022, n. 3243 cit.; in questi stessi termini, anche Cass. Sez. 2, 16/4/2024, n. 10228; Cass., Sez. 2, 16/4/2024, n. 10222; Cass., Sez. 2, 6/3/2024, n. 10363).
Nella specie, la Corte d’Appello di Venezia ha dato conto dell’inerzia dell’amministratore, laddove ha richiamato la sua mancata attivazione nonostante gli esiti dell’accertamento ispettivo compiuto dalla Consob nel periodo 22/11/2010-23/5/2011, che avrebbe consentito al predetto di attivare i poteri informativi e di intervento messi a disposizione dalla legge e di rilevare e rimuovere le anomalie riscontrate (v. pg. 20).
In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.
Le spese del giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza e devono essere poste a carico del ricorrente.
Considerato il tenore della pronuncia, va dato atto -ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del D.P.R. n. 115 del 2002 -della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente del contributo unificato previsto per il ricorso a norma dell’art. 1 -bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 13 marzo 2025.