Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 20068 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 20068 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 18/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 10093/2024 R.G. proposto da :
RAGIONE_SOCIALE rappresentato e difeso da ll’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE -ricorrente- contro
RAGIONE_SOCIALE rappresentata e difesa da ll’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE
-controricorrente-
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO VENEZIA n. 425/2024 depositata il 01/03/2024.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 19/06/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
La Corte d’appello di Venezia, Sezione Specializzata in materia d’impresa, con sentenza n. 425/2024, pubblicata il 1°/3/2024, ha
integralmente riformato la decisione di primo grado che aveva accolto la domanda proposta, con atto di citazione dell’ottobre 2020, dal Fallimento RAGIONE_SOCIALE (dichiarato con sentenza del 22/7/2019), per sentire accertare la nullità, per registrazione in mala fede o per difetto di novità, del marchio « M Marchioro », utilizzato, come marchio di fatto (segno costituito dalla lettera « M », cerchiata, seguita dalla parola « Marchioro »), dalla società RAGIONE_SOCIALE, fin dal 1974, nella commercializzazione di prodotti in plastica per animali e giardino, e registrato (nazionale, all’UIBM il 7/3/2018, su domanda dell’aprile 2017, e internazionale, nell’aprile 2019) dalla convenuta RAGIONE_SOCIALE (società che, fino al 30/5/2019, era stata socia accomandante della RAGIONE_SOCIALE e il cui socio, titolare di quota pari all’81% del capitale sociale, era NOME COGNOME, socio accomandante della RAGIONE_SOCIALE e, al contempo, legale rappresentante della socia accomandataria della stessa, la RAGIONE_SOCIALE, nonché la contraffazione del marchio stesso, da parte della convenuta medesima, con conseguente condanna della stessa al risarcimento del danno, quantificato in € 5.000,00, a titolo di danno non patrimoniale.
Il Tribunale aveva accertato la nullità del marchio per registrazione, da parte di RAGIONE_SOCIALE, in mala fede (a ridosso della presentazione da parte della RAGIONE_SOCIALE, società già in crisi, di domanda per concordato preventivo, con evidente intento distrattivo), essendo le due società riconducibili al medesimo gruppo societario (facente capo alla famiglia RAGIONE_SOCIALE) ed essendo rimasto indimostrato quanto dedotto dalla convenuta (creditrice pignoratizia su macchinari e attrezzature della RAGIONE_SOCIALE, tra cui gli stampi con impresso il marchio) in ordine ad un preteso consenso della titolare del marchio di fatto preusato alla registrazione da parte di RAGIONE_SOCIALE; il Tribunale aveva liquidato solo il danno non patrimoniale, in difetto di prova di un danno patrimoniale, anche per retroversione degli
utili, essendo rimasto indimostrato un uso effettivo dell’altrui segno da parte della convenuta, operante nel diverso settore immobiliare. La Corte d’appello, in accoglimento del gravame della SFM, ha respinto tutte le domande proposte dal Fallimento RAGIONE_SOCIALE
Anzitutto, la Corte territoriale ha ritenuto non integrata la fattispecie (il cui onere probatorio ricadeva sul Fallimento) della registrazione in malafede, prevista come autonoma causa di nullità ai sensi dell’art.19, comma 2, c.p.i., non ricorrendo lo scopo emulativo, profittatorio o comunque con la finalità di pregiudicare l’altrui attività imprenditoriale, sia per conoscenza diretta o per abuso dei rapporti societari, con intento anticoncorrenziale, al solo fine di impedire la commercializzazione di una categoria di prodotti. Invero, le due società operavano in ambiti diversi, non era configurabile tra le stesse un conflitto di interessi, pur essendo strettamente collegate, in mancanza della prova del pregiudizio che sarebbe derivato a RAGIONE_SOCIALE per la registrazione del marchio da parte del socio accomandante RAGIONE_SOCIALE (dal 30/6/2016 e sino al 30/5/2019) nonché creditrice pignoratizia, e comunque la registrazione del marchio era avvenuta in data 27/4/2017, ossia oltre due anni prima della presentazione della domanda di concordato del 6/5/2019 o della dichiarazione di fallimento del 22/7/2019.
Anzi, la RAGIONE_SOCIALE aveva dedotto un accordo tra detta società e la RAGIONE_SOCIALE, socia accomandataria di RAGIONE_SOCIALE, al fine di conservare il valore degli stampi oggetto di pegno, dando rilievo al fatto che, al fine di prestare garanzia per i canoni dovuti in base al contratto di locazione 12/1/2004, la RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE aveva concluso con RAGIONE_SOCIALE un contratto di pegno del 10/8/2016, avente ad oggetto, tra i beni, « gli impianti, le attrezzature ed i macchinari di sua proprietà », tra i quali erano ricompresi i numerosi stampi della società in bonis , sui quali era apposto il marchio in questione, poi
registrato da RAGIONE_SOCIALE in data 27/4/2017, anche se il marchio di fatto « RAGIONE_SOCIALE » non era invece ricompreso.
Il che deponeva a favore della tesi dell’appellante nel senso che la registrazione fosse « avvenuta da parte di SFM per attribuire un valore o, meglio, per evitare la svalutazione degli stampi su cui quel marchio era impresso, in modo da conservare al meglio la garanzia patrimoniale derivante dal contratto di pegno, concluso nel 2016 », con il consenso di Marchioro.
Né vi era prova della volontà di RAGIONE_SOCIALE di essere sul punto di effettuare la registrazione, quando questa era avvenuta ad opera di RAGIONE_SOCIALE, in difetto della prova della predisposizione da parte di Marchioro di tutte quelle attività preparatorie dirette alla registrazione del marchio e che sarebbero state, a sorpresa, vanificate dalla concreta registrazione operata da RAGIONE_SOCIALE, mentre, in base al disposto di cui all’art. 19 c.p.i., è legittima la registrazione per marchio d’impresa da parte di chi lo utilizzi o si proponga di utilizzarlo nell’attività di impresa di cui abbia il controllo.
Anche la domanda subordinata del Fallimento, di nullità del marchio registrato da parte di RAGIONE_SOCIALE per difetto del requisito della novità (per essere il marchio « M Marchioro » direttamente ricavato dalla ragione sociale della società poi fallita, rappresentandone la ditta, l’insegna e il nome della RAGIONE_SOCIALE, un segno anteriore che godeva di notorietà nel mercato italiano), era infondata, in quanto « la registrazione, avvenuta da parte di RAGIONE_SOCIALE con l’autorizzazione di Marchioro RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE per tutte le ragioni già espresse, non ha in alcun modo pregiudicato l’utilizzo da parte del suo titolare » del marchio di fatto.
Avverso la suddetta pronuncia, il Fallimento RAGIONE_SOCIALE propone ricorso per cassazione, notificato 3/5/2024, affidato a quattro motivi, nei confronti di RAGIONE_SOCIALEche resiste con controricorso).
Il P.G. ha depositato conclusioni scritte, chiedendo accogliersi il ricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il Fallimento ricorrente lamenta: a) con il primo motivo, violazione o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360, 1° comma n. 3 c.p.c., avendo la Corte territoriale errato nell’interpretazione degli artt. 19, 2° comma, 25 lett. b), 118, 2° comma e 121 c.p.i., anche alla luce degli artt. 115 e 116 c.p.c., non avendo accertato la nullità per la mala fede del richiedente nella registrazione del marchio « RAGIONE_SOCIALE »; b) con il secondo motivo, la violazione o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360, 1° comma n. 3 c.p.c., avendo la Corte territoriale errato nell’interpretazione degli artt. 7, 19, 2° comma, 23, 139 c.p.i. 2391 e 2475 ter c.c., art. 30 Reg. UE n. 1001/2017 -Accordo di Madrid 14/4/1891, c.p.i., anche alla luce degli artt. 115 e 116 c.p.c., avendo considerato provato un asserito accordo sulla registrazione del marchio « RAGIONE_SOCIALE », in contrasto con la normativa sulla proprietà industriale e con quella societaria; c) con il terzo motivo, la violazione o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360, 1° comma n. 3 c.p.c., avendo la Corte territoriale errato nell’interpretazione degli artt. 2697, 2721, 2727 e 2729 c.c., anche alla luce degli artt. 115 e 116 c.p.c., avendo considerato provato l’accordo di registrazione sulla base di presunzioni, in contrasto con la normativa processuale; d) con il quarto motivo, la violazione o falsa applicazione di legge ex art. 360 1° comma n. 3 c.p.c., per non aver considerato la mancanza di novità del marchio al momento della registrazione, visti 1, 2, 12, 25 c.p.i. e 2571 c.c., 115 e 116 c.p.c.
Assume il Fallimento, in fatto, che: – la società in bonis, facente parte del Gruppo di imprese facente capo alla famiglia RAGIONE_SOCIALE di Isola Vicentina, già dagli esercizi 2013-2014 era entrata in una crisi
irreversibile, come poteva evincere dal drastico calo del fatturato, tanto che, nel corso del 2019, prima aveva chiesto l’ammissione al concordato preventivo con riserva e poi era stata dichiarata fallita dal Tribunale di Vicenza con sentenza del 22/7/2019; – il socio accomandante NOME COGNOME titolare della quota corrispondente all’81% del capitale sociale, è il legale rappresentante della socia accomandataria RAGIONE_SOCIALE titolare del 19%, di cui è l’unico socio, e, fino al 30/5/2019, socio accomandante (di maggioranza) della RAGIONE_SOCIALE era la RAGIONE_SOCIALE, a propria volta controllata da NOME COGNOME che deteneva una quota pari all’81,60%; -la registrazione del marchio « RAGIONE_SOCIALE », marchio in uso, di fatto, da decenni da parte della RAGIONE_SOCIALE che non l’aveva mai registrato, era stata chiesta nell’aprile 2017 dalla RAGIONE_SOCIALE, in piena crisi della Marchioro e nell’imminenza del suo fallimento; – il preuso e la diffusione del marchio di fatto era stato dimostrato in via documentale e comunque non era stato neppure contestato dalla convenuta; – il contratto di pegno stipulato tra le parti era stato impugnato in altra causa dal Fallimento (Trib. Vicenza n. 3249/2020 R.G.), per essere stato il negozio posto in frode alla legge, in quanto il credito derivante da canoni di locazione, peraltro inevasi dal 2011, è riconducibile a un finanziamento indiretto da parte del socio accomandante che avrebbe dovuto essere postergato ai sensi dell’art. 2467 c.c.; – il marchio era stato venduto, insieme ad altri beni fallimentari, dal Fallimento ad una terza società; – una denuncia penale sporta nei confronti del Curatore del Fallimento da controparte era stata archiviata dal GIP del Tribunale di Vicenza nel maggio 2022.
In diritto, il ricorrente osserva:
quanto alla registrazione in mala fede (primo motivo), che la registrazione di un marchio per prodotti relativi a una categoria merceologica estranea al richiedente,
senza intenzione di utilizzarlo per i prodotti e i servizi oggetto della registrazione, è già indice di registrazione in mala fede (Corte giustizia UE sez. IV -29/1/2020 n. 371; Corte di Giustizia UE 11/6/2009) e ricorre un’ipotesi di nullità per registrazione in mala fede quando il richiedente sia a conoscenza dell’utilizzo del marchio da parte di terzi oppure quando la notorietà del marchio sia in fieri , oppure quando abbia abusato di rapporti di fiducia o collaborazione, ipotesi tutte ricorrenti nella fattispecie; inoltre, era stato dedotto, in giudizio, il danno per il Fallimento, determinato dal valore del marchio di fatto certamente inferiore al marchio registrato, e sussisteva conflitto di interesse con il socio di maggioranza che aveva registrato il marchio illegittimamente al fine di commettere una distrazione di un bene che doveva essere appreso alla massa attiva nella pienezza del suo valore; l’intento distrattivo non rileva solo nelle « azioni revocatorie o recuperatorie che mirano a una integrazione del patrimonio con il bene sottratto », ma anche nella registrazione in mala fede di un marchio, perché non è necessario che la condotta abbia finalità esclusivamente anticoncorrenziale;
II) quanto alla prova di un accordo, in forma orale, tra le società (secondo e terzo motivo), il ricorrente deduce l’erroneità del ragionamento espresso dalla Corte d’appello, sotto plurimi profili: – il trasferimento o la cessione di stampi non comporta certamente il trasferimento del marchio, bene immateriale ed estraneo al prodotto; l’accordo sarebbe intervenuto tra il sig. NOME COGNOME legale rappresentante all’epoca (28/4/2017) della fallita, e la RAGIONE_SOCIALE
contro
llata dallo stesso RAGIONE_SOCIALE che deteneva una quota dell’81,6%, con chiara sussistenza di un conflitto di interessi nell’operazione, non segnalato ai sensi degli artt.2391 e 2475ter c.c.; – gli atti dispositivi di privativa industriale sono a forma libera (art. 23 c.p.i.), ma non ai fini della trascrizione (art. 139 c.p.i.), per cui occorre una scrittura privata e, in ambito internazionale, gli atti dispositivi del marchio devono avvenire obbligatoriamente per iscritto a pena di nullità (art. 30 del Reg. UE n. 1001/2017Accordo di Madrid 14/4/1891 e successive modifiche e Convenzione di Parigi art. 9 ter); la prova della stipula dell’accordo, in forma scritta o orale, oggetto di eccezione da parte della convenuta in giudizio, doveva essere offerta da detta parte e non era stata offerta, mentre la Corte d’appello ha fatto ricorso alla prova presuntiva, ma sulla base di presunzioni non gravi, precise e concordanti, con un giudizio illogico e contraddittorio per il c.d. « vizio di sussunzione » ;
III) quanto alla nullità per mancanza di novità del marchio al momento della registrazione, ai sensi dell’art. 12, lett.a), c.p.i., la domanda di registrazione risulta depositata da parte convenuta il 28/4/2017, quando il marchio era in preuso, sul mercato italiano ed estero, da parte della ricorrente dal 1974, ovverosia da 43 anni, con notorietà generale (docc. 12-13 fasc. primo grado), cosicché il marchio registrato non era nuovo e, tra l’altro, il marchio era direttamente ricavato dalla ragione sociale della ricorrente (e non dalla denominazione della resistente) e rappresentava la ditta, l’insegna e il nome a dominio della società RAGIONE_SOCIALE in bo nis.
Il P.G. conclude per l’accoglimento del ricorso ma, in realtà, esamina il solo primo motivo, affermando che, alla luce della disciplina della malafede prevista dagli artt. 19 e 28 c.p.i. e dalla disciplina dell’U.E., la registrazione in malafede intesa come registrazione abusiva, volta a finalità difformi da quelle ordinarie, che ricorre, quando, al momento del deposito della domanda di registrazione, il richiedente mira ad impedire la attività di impresa dei concorrenti, piuttosto che a proteggere la propria attività, ovvero intende trarre vantaggi ingiustificati, appropriandosi di segni attrattivi già presenti sul mercato, nella fattispecie la domanda attorea meritasse l’accoglimento, avendo la società registrante operato consapevolmente un illegittimo depauperamento del fallimento.
I primi tre motivi, tutti attinenti alla ritenuta insussistenza di una registrazione in malafede, sono da trattare unitariamente.
La Corte d’appello territoriale ha ritenuto insussistenti i presupposti della registrazione in malafede sulla base del duplice presupposto per cui, da un lato, le società interessate, rispettivamente, dalla registrazione e dal preuso facevano tutte parte del medesimo agglomerato societario, anzi erano riconducibili alla medesima persona fisica, per cui si presupponeva che l’operazione di registrazione fosse avvenuta sulla base di un disegno imprenditoriale unitario e, dall’altro lato, osservando che la registrazione era stata effettuata dalla resistente non già a scopo meramente emulativo, bensì sulla finalità di tutelare dei beni che erano stati dati in pegno dalla odierna ricorrente, ed alla cui protezione la registrazione del marchio sarebbe stata funzionale.
Le prime due censure non appaiono, anzitutto, inammissibili, come eccepito dalla controricorrente, perché involgenti l’accertamento in fatto compiuto dalla Corte d’appello e miranti a sollecitare una diversa ricostruzione dei fatti ed una diversa valutazione del materiale probatorio.
Il motivo di impugnazione ex art. 360 I n. 3 c.p.c. è inammissibile solo in quanto sia teso ad una rivisitazione del merito fattuale della vicenda (Cass. n. 13715/2023), non invece allorquando parte ricorrente denunci un’erronea sussunzione dei fatti di causa e quindi l’erronea ricognizione, da parte dei giudici di merito, della fattispecie astratta disciplinata da una norma di legge, a cui consegue un problema rispetto alla sua interpretazione (v., Cass. civ., n. 4955/2024; Cass. civ. n. 1398/2024).
Nella specie, si pongono comunque, nel primo e nel secondo motivo, questioni in diritto, sulla portata della nullità per registrazione in mala fede e sulla forma che deve rivestire l’accordo circa il diritto alla registrazione di un marchio.
3.1. La registrazione in mala fede del marchio opera (Cass. Sez. 1 n. 10390/2018) quale norma di chiusura, in quanto l’art. 19, comma 2 c.p.i., secondo cui «on può ottenere una registrazione per marchio di impresa chi abbia fatto la domanda in mala fede », è chiamato a definire i conflitti che il legislatore non ha ritenuto di risolvere espressamente, giacché la legge non regolamenta più volte la medesima situazione fattuale. Quindi tale disciplina « non potrebbe essere invocata da chi, essendo titolare di un diritto anteriore (perché, ad esempio, ha registrato per primo o può vantare un preuso non locale del segno), riceva già tutela in ragione di tale sua posizione giuridica »; in tali ipotesi, invero, il conflitto tra i segni è definito già prevedendo la nullità della registrazione successiva e quindi il titolare del diritto anteriore e prevalente può invocare quest’ultima, non anche l’altrui divieto di registrare il marchio in malafede. L’art. 19, comma 2, interviene disciplinando una ipotesi residuale: quella in cui il terzo, a conoscenza dell’altrui scelta di operare la registrazione, preceda l’interessato nel perfezionamento della fattispecie acquisitiva del diritto, ledendo in tal modo non già quest’ultima posizione giuridica (che ancora non esiste, in quanto non si é perfezionata), ma la
legittima aspettativa verso un segno il cui valore è ascrivibile a un soggetto diverso rispetto al registrante (e cioè a chi, avendolo concepito, e se del caso utilizzato, si avviava a registrarlo). E si valorizza il dato della conoscenza dell’altrui intendimento alla registrazione del segno, registrazione normalmente preceduta da una serie di attività (come le indagini di mercato e la verifica delle anteriorità) che richiedono del tempo. Ma la nullità della privativa, ex art.19, comma 2, c.p.i., può anche ricorrere nel caso « in cui il diritto di privativa venga conseguito con riferimento a un segno la cui notorietà sia in fieri, e che si accinga, quindi, a costituire un’anteriorità atta a precludere la registrazione, giusta l’art. 12, lett. a) c.p.i. », con lesione dell’interesse (o dell’aspettativa) al conseguimento del diritto di esclusiva in favore del preutente, siccome dipendente dal preuso non puramente locale del segno.
E trova tutela nella disposizione in esame sia l’interesse alla futura registrazione (in dottrina, si è evidenziato come il divieto di registrazione in mala fede presenti un elemento specializzante rispetto alla registrazione del non avente diritto, elemento costituito dalla consapevolezza dell’imminenza del perfezionamento della fattispecie acquisitiva della privativa) sia l’interesse al consolidamento di una notorietà del segno. Altre ipotesi di tutela contro la registrazione in mala fede, invece, prescindono dalla lesione di posizioni di riserva sul segno e sono accomunate dalla natura anticoncorrenziale dell’iniziativa posta in essere dal soggetto in mala fede, volta a creare un intralcio più o meno diffuso alla registrazione del segno (come nel caso di accaparramento dei marchi; cfr. Corte giust. CE 11 giugno 2009, C-529/07, RAGIONE_SOCIALE, che, pronunciandosi sull’ipotesi di registrazione in mala fede prevista dall’art. 51.1, lett. b), reg. 40/94/CE, ha considerato tale il deposito del marchio senza l’intenzione di usarlo, ma solo per impedire che un terzo entri nel mercato).
Sul piano soggettivo, non è sufficiente la semplice conoscenza dell’altrui titolarità del marchio su altri mercati, ma ricorre certamente la tutela in esame nel caso della registrazione del marchio attuata abusando di particolari rapporti qualificati tra il registrante e l’aspirante titolare, in assenza di apposita disciplina convenzionale.
E si è evidenziato, in Cass. n. 10390 del 2018, che « la presenza di una relazione qualificata tra il registrante e il danneggiato può certamente giocare un ruolo significativo nel quadro della previsione dell’art. 19, comma 2, c.p.i. ». Nella fattispecie in esame, in quel giudizio, si è esclusa la ricorrenza di una registrazione in mala fede per l’assorbente rilievo per cui non poteva considerarsi in mala fede quella registrazione che si attui attraverso il nuovo deposito di un marchio che abbia cessato di produrre i suoi effetti.
In Cass. n. 5866 del 2024, si è confermata una decisione di appello che aveva dichiarato la nullità del marchio registrato sia per difetto di novità e sia per registrazione in malafede, ex artt.12, lett. b) e c), e 19 c.p.i., osservando che, nel caso concreto, si è era rilevata, rispetto alla nullità per difetto di novità, una condotta autonoma di mala fede del registrante il segno anteriore, basata su diversi presupposti fattuali: a) la registrazione in malafede presuppone « la presenza di una disposizione d’animo o di un’intenzione disonesta, essa deve inoltre essere intesa nel contesto del diritto dei marchi, che è quello del commercio » (Tribunale I grado UE n. 250/2022), potendo essa dedursi « dalle circostanze oggettive e dal suo operato concreto, dal ruolo o dalla posizione rivestita, dalla conoscenza che aveva dell’uso del segno anteriore, dalle relazioni di natura contrattuale, precontrattuale o post contrattuale che intratteneva con il richiedente la dichiarazione di nullità, dall’esistenza di doveri o obblighi reciproci e, più in generale, da tutte le situazioni oggettive di conflitto d’interessi in cui il richiedente il marchio si è trovato ad operare »
(Tribunale I Grado UE n. 350/2022); b) la declaratoria di nullità ex art. 12 c.p.i. ha come presupposto la valutazione dei requisiti di registrabilità del marchio posteriore alla luce dell’esistenza degli anteriori diritti su marchi o altri segni distintivi. Ma, la doglianza della ricorrente, soccombente nel merito, incentrata sull’essere la nullità per malafede disciplinata dall’art.19 c.p.i. una norma residuale e di chiusura, non invocabile quando si faccia valere un diritto anteriore, è stata ritenuta comunque inammissibile per carenza di interesse, considerato che la nullità del marchio era stata comunque accertata e dichiarata per difetto di novità e non si deducevano profili specifici di interesse.
3.2. Nella fattispecie in esame nel presente giudizio, la Corte d’appello, per escludere la ricorrenza dell’ipotesi di registrazione in mala fede, ha utilizzato, anzitutto, un argomento, la riconduzione delle società registrante al medesimo soggetto imprenditoriale della società titolare del marchio di fatto preusato.
Il ricorrente deduce l’inconferenza dell’argomentazione sia rispetto ai principi della autonomia di soggetti giuridici esercenti attività economica in forma societaria ed ancor di più dell’autonomia del fallimento rispetto alla società in bonis , sia avuto riguardo all’elemento soggettivo di chi ha proceduto alla registrazione di un marchio denominativo, precedentemente utilizzato da diverso soggetto giuridico, non già al fine di svolgere attività imprenditoriale con tale segno ancorché in diverso settore merceologico, ma al solo fine di accrescere la garanzia patrimoniale di cui si gode, privando tuttavia il fallimento di un asset patrimoniale utile alla soddisfazione delle pretese patrimoniali dei creditori, nella consapevolezza dell’altruità del segno anteriore.
Ma la Corte d’appello ha rilevato che, sino al 30/5/2019 (e il marchio di cui si discute è stato oggetto di domanda di registrazione nazionale nell’aprile 2017, conseguita nel 2018, e di registrazione internazionale ottenuta nell’aprile 2019), socio
accomandante di maggioranza della RAGIONE_SOCIALE era la RAGIONE_SOCIALE, a sua volta controllata da NOME COGNOME.
Quindi la RAGIONE_SOCIALE era anch’essa (come la RAGIONE_SOCIALE, il suo socio accomandante, NOME COGNOME, e la sua socia accomandataria, la RAGIONE_SOCIALE) riconducibile alla famiglia RAGIONE_SOCIALE di Isola Vicentina. E il marchio denominativo di cui si discute origina dal patronimico « Marchioro ».
Lo stretto collegamento tra le due società e il comune contesto societario è stato ritenuto elemento utile a dimostrare un accordo, tra la RAGIONE_SOCIALE, socia accomandataria di RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE, e la RAGIONE_SOCIALE, socia accomandante, alla presentazione della domanda di registrazione da parte di un’impresa, facente parte « della compagine societaria », del marchio in uso all’altra società.
E si è evidenziato il fatto che l’intento non fosse anticoncorrenziale, operando le due società in ambiti diversi di attività commerciali, o di abuso di rapporti societari, ma fosse quello di garantire il valore dei beni (tra i quali erano inclusi gli stampi recati il suddetto marchio) oggetto del contratto di pegno concluso nel 2016.
3.3. Ma soprattutto, nella specie, si è ritenuta raggiunta la prova di una disciplina convenzionale intervenuta tra le parti, ritenendo provato il consenso, all’interno della Marchioro, tra i soci, accomandante e accomandatario, alla registrazione del marchio « RAGIONE_SOCIALE », prima nazionale e poi internazionale, da parte della socia accomandante, all’epoca, SFM.
Ai sensi del primo comma dell’art.19 c.p.i. , « può ottenere una registrazione per marchio d’impresa chi lo utilizzi o si proponga di utilizzarlo, nella fabbricazione o commercio di prodotti o nella prestazione di servizi della propria impresa o di imprese di cui abbia il controllo o che ne facciano uso con il suo consenso ».
Quindi al titolare avente diritto alla registrazione di segno notorio è riconosciuto anche il diritto di consentire ad altri la registrazione in sua vece.
Il che esclude, oltre all’elemento soggettivo della registrazione in mala fede, dovendosi ritenere assente in tal caso lo scopo emulativo di impedire l’uso del segno da parte del titolare del segno anteriore o l’abuso di conoscenze o informazioni acquisite in base a rapporti contrattuali e societari, la stessa illiceità della condotta di registrazione.
Oggetto dell’accordo è stato non il trasferimento dei diritti su titoli di proprietà industriale, i cui atti sono soggetti alla disciplina degli artt.138 e 139 c.p.i. ed al criterio della priorità della trascrizione per risolvere i conflitti tra più aventi diritto, ma l’attribuzione del diritto alla registrazione, mero atto propedeutico.
Peraltro, il negozio traslativo (cessione o licenza) del marchio, registrato, non è sottoposto a forma vincolata, potendo risultare anche per facta concludentia e la trascrizione non è condizione di validità della cessione, essendo la forma scritta del contratto necessaria solo affinché si possa procedere alla trascrizione della cessione secondo le modalità e con gli effetti di cui agli artt.138 e 139 c.p.i. La pubblicità non ha efficacia costitutiva ma è utile a risolvere gli eventuali conflitti tra più aventi diritto: l’atto trascritto per primo prevale sugli atti trascritti successivamente, anche se questi siano di data anteriore.
La disciplina del marchio comunitario di cui al Reg. UE 2017/1001 (ove la forma scritta per il trasferimento è di regola richiesta, art.17) è estranea al presente giudizio.
Quanto alla registrazione internazionale, che dà luogo ad un fascio di esclusive nazionali, tutte sottoposte al principio di territorialità e alla disciplina dell’ordinamento statale di riferimento, l’Accordo del 14 aprile 1891, rivisto anch’esso a Stoccolma nel 1967, all’art. 9 ter (indicato in ricorso), disciplina l’iscrizione nel Registro della cessione di un marchio internazionale per una parte soltanto dei prodotti o servizi registrati o della cessione del marchio internazionale limitata ad uno o più paesi contraenti .
Nella specie si è ritenuto provato, sulla base di una serie di elementi (lo stretto legame tra le società, l’interesse a non disperdere il valore dei beni del contratto di pegno, il diverso ambito di operatività di RAGIONE_SOCIALE e di RAGIONE_SOCIALE, la mancata dimostrazione di un effettivo pregiudizio per la titolare del marchio preusato, il fatto che la registrazione fosse intervenuta, quanto al marchio nazionale, due anni prima del fallimento), il consenso, tra i soci della Marchioro, avente diritto alla registrazione del segno anteriore preusato, alla registrazione da parte della socia accomandante SFM del segno, con insorgenza in capo alla registrante di tutti i diritti e le facoltà connesse alla titolarità del marchio.
In sostanza, il consenso alla registrazione del marchio di fatto presusato equivale a cessione del diritto alla registrazione del marchio stesso.
Il primo e il secondo motivo sono dunque infondati.
4. La terza doglianza, laddove censura la sentenza impugnata per avere la Corte d’appello fatto ricorso alla prova presuntiva, sulla base di presunzioni non gravi, precise e concordanti, con un giudizio illogico e contraddittorio, è inammissibile.
Affinché sia riconoscibile valore giuridico alle presunzioni semplici, è necessario che gli elementi presi in esame siano gravi, precisi e concordanti.
Con riferimento agli artt. 2727 e 2729 c.c., questa Corte ha affermato che spetta al giudice di merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni semplici, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità, dovendosi tuttavia rilevare che la censura per vizio di motivazione in ordine all’utilizzo o meno del ragionamento presuntivo non può limitarsi a prospettare l’ipotesi di un convincimento diverso da
quello espresso dal giudice di merito, ma deve fare emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio, restando peraltro escluso che la sola mancata valutazione di un elemento indiziario possa dare luogo al vizio di omesso esame di un punto decisivo, e neppure occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo criterio di normalità, visto che la deduzione logica è una valutazione che, in quanto tale, deve essere probabilmente convincente, non oggettivamente inconfutabile (Cass. n. 22366/2021).
Questa Corte ha, altresì, affermato che, in tema di presunzioni, qualora il giudice di merito sussuma erroneamente sotto i tre caratteri individuatori della presunzione (gravità, precisione, concordanza) fatti concreti che non sono invece rispondenti a quei requisiti, il relativo ragionamento è censurabile in base all’art. 360, n. 3, c.p.c. (e non già alla stregua del n. 5 dello stesso art. 360), competendo alla Corte di cassazione controllare se la norma dell’art. 2729 c.c., oltre ad essere applicata esattamente a livello di declamazione astratta, lo sia stata anche sotto il profilo dell’applicazione concreta; nondimeno, per restare nell’ambito della violazione di legge, la critica deve concentrarsi sull’insussistenza dei requisiti della presunzione nel ragionamento condotto nella sentenza impugnata, mentre non può svolgere argomentazioni dirette ad infirmarne la plausibilità (criticando la ricostruzione del fatto ed evocando magari altri fatti che non risultino dalla motivazione), vizio valutabile, ove del caso, nei limiti di ammissibilità di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c., (Cass. n. 18611/2021). Questa Corte (Cass. 9054/2022) ha ulteriormente chiarito che «
In tema di prova presuntiva, il giudice è tenuto, ai sensi dell’art. 2729 c.c., ad ammettere solo presunzioni “gravi, precise e concordanti”,
laddove il requisito della “precisione” è riferito al fatto noto, che deve essere determinato nella realtà storica, quello della “gravità” al grado di probabilità della sussistenza del fatto ignoto desumibile da quello noto, mentre quello della “concordanza”, richiamato solo in caso di pluralità di elementi presuntivi, richiede che il fatto ignoto sia -di regola -desunto da una pluralità di indizi gravi, precisi e univocamente convergenti nella dimostrazione della sua sussistenza, e ad articolare il procedimento logico nei due momenti della previa analisi di tutti gli elementi indiziari, onde scartare quelli irrilevanti, e nella successiva valutazione complessiva di quelli così isolati, onde verificare se siano concordanti e se la loro combinazione consenta una valida prova presuntiva (c.d. convergenza del molteplice), non raggiungibile, invece, attraverso un’analisi atomistica degli stessi. Ne consegue che la denuncia, in cassazione, di violazione o falsa applicazione del citato art. 2729 c.c., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., può prospettarsi quando il giudice di merito affermi che il ragionamento presuntivo può basarsi su presunzioni non gravi, precise e concordanti ovvero fondi la presunzione su un fatto storico privo di gravità o precisione o concordanza ai fini dell’inferenza dal fatto noto della conseguenza ignota e non anche quando la critica si concreti nella diversa ricostruzione delle circostanze fattuali o nella mera prospettazione di una inferenza probabilistica diversa da quella ritenuta applicata dal giudice di merito o senza spiegare i motivi della violazione dei paradigmi della norma ».
Sempre in tema di prova presuntiva ex art. 2729 c.c., si ricorda che: – il requisito della « gravità » è riferito al grado di probabilità della sussistenza del fatto ignoto desumibile da quello noto (Cass. n. 23154/2024): dato un fatto « A » noto è probabile che si sia verificato il fatto « B », secondo un criterio di normalità, senza che occorra che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale (Cass. n. 3513 del 2019;
Cass. n. 22656 del 2011); – la precisione indica che l’inferenza probabilistica deve condurre alla conoscenza del fatto ignoto con un grado di probabilità che si indirizzi solo verso il fatto « B » e non lasci spazio, sempre al livello della probabilità, ad indirizzarsi in senso diverso, cioè anche verso un altro o altri fatti; -la concordanza esprime un requisito del ragionamento presuntivo, che non lo concerne in modo assoluto, cioè di per sé considerato, come invece gli altri due elementi, bensì in modo relativo, cioè nel quadro della possibile sussistenza di altri elementi probatori considerati, volendo esprimere l’idea che, in tanto la presunzione è ammissibile, in quanto indirizzi alla conoscenza del fatto in modo concordante con altri elementi probatori, che, peraltro, possono essere o meno anche altri ragionamenti presuntivi (Cass. n. 19856/2024).
Il ricorrente lamenta la violazione anche dell’art. 2729 c.c., ex art. 360, n. 3, c.p.c., sostenendo l’insussistenza dei requisiti necessari che devono essere posti a base del ragionamento presuntivo, deducendo che non poteva ritenersi grave, preciso e concordante la deduzione, in concreto, del fatto ignoto (l’accordo o meno il consenso alla cessione del diritto alla registrazione del segno anteriore preusato) da fatti noti (l’oggetto sociale delle società, lo stretto collegamento tra le stesse, tutte facenti parte delle imprese della RAGIONE_SOCIALE di Isola Vicentina, il contratto di pegno del 2016 e l’interesse del creditore pignoratizio a garantirsi il valore dei beni dati in pegno, l’intervallo temporale tra la registrazione nazionale del marchio e il fallimento, la manca prova di una procedura avviata dalla Marchioro per la registrazione del segno).
Ma non emerge l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio della Corte d’appello e la censura si rivolge ad un apprezzamento di fatto che, adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità.
4.Il quarto motivo è inammissibile.
In punto di nullità per difetto di novità, la domanda è stata respinta, in appello, sulla base della premessa decisiva che la registrazione da parte di RAGIONE_SOCIALE era avvenuta con l’autorizzazione di RAGIONE_SOCIALE e quindi con il consenso della titolare del marchio anteriore preusato di fatto.
E come osserva la Corte d’appello la RAGIONE_SOCIALE ha conservato la titolarità del marchio di fatto (e della denominazione sociale), tanto da averne fatto oggetto di vendita fallimentare a terzi.
Va ricordato che, in seguito alle novelle del 1992 8d.lgs. n. 480/1992) e del 1999 (d.lgs. n. 447/1999), l’azione di nullità del marchio d’impresa per difetto di novità (stante la preesistenza di un segno distintivo altrui) è relativa e l’art.122, comma 2, prevede che tale azione possa essere esercitata soltanto dal titolare di diritti anteriori e dal suo avente causa o dall’avente diritto se è fondata sulla sussistenza di diritti anteriori, tra i quali rientrano i diritti su un marchio di fatto, dotato di notorietà non puramente locale.
Inoltre, vi possono essere limiti alla disponibilità del diritto del titolare del marchio e alla facoltà di far valere la nullità del marchio successivo, interferente e confondibile, derivanti da negozi con i quali si è disposto del diritto di esclusiva, quali quelli con cui è stato dato il consenso alla registrazione o si sia regolata la coesistenza di distinti marchi appartenenti a soggetti diversi.
Tali accordi sono validi, rientrando nella disponibilità del diritto di marchio (art. 1, R.D. 21 giugno 1942, n. 929 legge marchi, nel testo introdotto dal D.Lgs. 4 dicembre 1992, n. 480, secondo cui il titolare ha diritto di vietare ai terzi determinati comportamenti « salvo proprio consenso »; ora, l’art.20, comma 1, c.p.i., secondo cui il titolare del marchio, registrato, ha diritto di vietare ai terzi determinati comportamenti, « salvo proprio con senso»), escluse le ipotesi di decettività ovvero di inganno per il pubblico sull’effettiva provenienza dei prodotti o servizi (art.21, comma 2, ev art.23, comma 4, c.p.i.).
Nell’ambito del marchio comunitario, esiste una norma specifica, l’art. 60, comma 3, del nuovo Regolamento 1001/2017 (ma di identico tenore era l’art. 52, comma 3, del Regolamento n. 40/94/CE e l’art.53 del Regolamento n. 207/2009/CE), il quale, pur essendo intitolato « Motivi di nullità relativa », prevede al terzo comma che « Il marchio comunitario non può essere dichiarato nullo se il titolare del diritto di cui ai paragrafi 1 o 2 dà espressamente il suo consenso alla registrazione di tale marchio prima della presentazione della domanda di nullità o della domanda riconvenzionale».
Per tutto quanto sopra esposto, va respinto il ricorso.
Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza, con distrazione in favore del procuratore di parte controricorrente qualificatosi antistatario.
P.Q.M.
La Corte respinge il ricorso; condanna il ricorrente al rimborso delle spese processuali del presente giudizio di legittimità, liquidate, in favore del procuratore antistatario di parte controricorrente, in complessivi € 4.500,00, a titolo di compensi, oltre € 200,00 per esborsi, nonché al rimborso forfetario delle spese generali, nella misura del 15%, ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art.13, comma 1 quater del DPR 115/2002, dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per i ricorsi, ove dovuto, a norma del comma 1 bis dello stesso art.13.
Così deciso, in Roma, nella camera di consiglio del 19 giugno 2025.