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Registrazione marchio mala fede: il consenso la esclude

La Corte di Cassazione ha stabilito che non sussiste una registrazione di marchio in mala fede se avviene con il consenso, anche presunto, del titolare del segno preusato, specialmente in un contesto di società collegate. Il caso riguardava una società che aveva registrato un marchio di fatto utilizzato da un’altra società dello stesso gruppo, poi fallita. La Corte ha ritenuto legittima la registrazione, finalizzata a conservare il valore di beni dati in pegno, escludendo l’intento anticoncorrenziale o distrattivo ai danni della massa fallimentare.

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Registrazione Marchio in Mala Fede: Quando il Consenso tra Società Collegate la Rende Legittima

La registrazione di un marchio in mala fede rappresenta una delle questioni più delicate nel diritto della proprietà industriale. Ma cosa succede quando la registrazione avviene tra società strettamente collegate e con un apparente obiettivo comune? Una recente ordinanza della Corte di Cassazione affronta proprio questo scenario, chiarendo che il consenso del titolare del segno preusato, anche se dedotto da presunzioni, può escludere la mala fede e rendere legittima la registrazione.

I Fatti di Causa

La vicenda vede contrapposte la curatela fallimentare di una società storica, utilizzatrice da decenni di un marchio di fatto per prodotti in plastica, e un’altra società dello stesso gruppo imprenditoriale. Quest’ultima, poco prima del fallimento della prima, aveva provveduto a registrare a proprio nome il marchio a livello nazionale e internazionale.

La curatela fallimentare ha agito in giudizio sostenendo che tale operazione costituisse una registrazione di marchio in mala fede, finalizzata a sottrarre un asset di valore alla massa dei creditori. Inoltre, veniva contestata la nullità del marchio per difetto di novità, dato il suo uso ultraquarantennale da parte della società poi fallita.

Il Tribunale di primo grado aveva dato ragione alla curatela, dichiarando la nullità della registrazione. La Corte d’Appello, tuttavia, ha ribaltato la decisione, respingendo le domande del fallimento. Secondo i giudici di secondo grado, non vi era stata mala fede, in quanto le due società erano riconducibili allo stesso nucleo familiare e l’operazione era finalizzata a tutelare il valore di alcuni beni (stampi con impresso il marchio) che la società fallita aveva dato in pegno alla società registrante. In sostanza, la Corte d’Appello ha ravvisato un consenso implicito alla registrazione.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sul ricorso della curatela, ha confermato la sentenza d’appello, rigettando tutti i motivi di impugnazione. Gli Ermellini hanno ritenuto infondate le censure relative alla violazione delle norme sulla registrazione in mala fede e sulla prova del consenso.

Le motivazioni sulla registrazione marchio in mala fede

La Corte ha chiarito che la norma sulla registrazione marchio in mala fede (art. 19, comma 2, c.p.i.) è una clausola di chiusura, destinata a risolvere conflitti non coperti da altre disposizioni specifiche. Essa presuppone un’intenzione disonesta, come l’abuso di rapporti di fiducia o la volontà di ostacolare l’attività di un concorrente.

Nel caso specifico, la Cassazione ha avallato il ragionamento della Corte d’Appello, secondo cui il contesto del gruppo societario e il legame tra le parti escludevano un intento fraudolento o anticoncorrenziale. L’obiettivo non era sottrarre il bene alla società in difficoltà, ma preservare il valore di una garanzia patrimoniale (il pegno sugli stampi) attraverso la formalizzazione del marchio. La stretta connessione tra le società e l’origine comune del marchio dal patronimico della famiglia a capo del gruppo sono stati considerati elementi chiave per escludere l’abuso.

Il Consenso alla Registrazione e la Prova Presuntiva

Un punto cruciale della decisione riguarda la prova del consenso. La curatela lamentava che la Corte d’Appello avesse dedotto l’esistenza di un accordo sulla base di mere presunzioni, senza prove scritte. La Cassazione ha respinto questa doglianza, affermando la legittimità del ricorso alla prova presuntiva (art. 2729 c.c.).

I giudici di legittimità hanno ritenuto che la Corte di merito avesse correttamente costruito il proprio ragionamento su una serie di elementi gravi, precisi e concordanti:

1. Lo stretto legame societario e familiare tra le parti.
2. L’interesse comune a non disperdere il valore dei beni oggetto del contratto di pegno.
3. L’assenza di un effettivo pregiudizio per la società titolare del marchio di fatto, che ha continuato a poterlo utilizzare.

Sulla base di questi fatti noti, è stato logicamente dedotto il fatto ignoto, ovvero il consenso interno al gruppo per la registrazione del marchio. Questo consenso, hanno concluso i giudici, equivale a una cessione del diritto alla registrazione, rendendo l’operazione pienamente legittima ai sensi dell’art. 19, comma 1, c.p.i.

Conclusioni: Implicazioni Pratiche della Pronuncia

Questa ordinanza offre importanti spunti di riflessione per le imprese, specialmente all’interno dei gruppi societari. La decisione sottolinea che la valutazione della mala fede nella registrazione di un marchio non può prescindere dal contesto concreto in cui essa avviene. La presenza di legami societari e di interessi economici condivisi può giustificare operazioni che, viste dall’esterno, potrebbero apparire abusive. Inoltre, la pronuncia ribadisce la validità e l’importanza della prova presuntiva, che consente al giudice di ricostruire la volontà delle parti anche in assenza di un accordo scritto, basandosi su un’analisi logica degli indizi disponibili. Per le aziende, ciò significa che la gestione dei diritti di proprietà intellettuale all’interno di un gruppo deve essere attentamente documentata per evitare future contestazioni, ma al contempo, la giurisprudenza riconosce la flessibilità richiesta dalle dinamiche imprenditoriali.

Quando una registrazione di marchio è considerata in ‘mala fede’?
Si ha registrazione in mala fede quando chi deposita la domanda agisce con l’intento di pregiudicare l’attività altrui, con scopo emulativo o profittatorio, oppure abusando di rapporti societari o di fiducia. Non è sufficiente la mera conoscenza dell’uso altrui del segno, ma occorre un’intenzione disonesta. La Corte ha chiarito che tale ipotesi è residuale e non si applica se esiste un consenso, anche presunto, del precedente utilizzatore.

È possibile provare il consenso alla registrazione di un marchio senza un accordo scritto?
Sì. La Corte di Cassazione ha confermato che il consenso può essere provato anche attraverso presunzioni semplici, purché siano ‘gravi, precise e concordanti’. Nel caso esaminato, elementi come lo stretto legame tra le società, l’interesse comune a tutelare beni dati in garanzia e l’assenza di pregiudizio sono stati considerati sufficienti a dedurre l’esistenza di un consenso alla registrazione.

La registrazione di un marchio già usato da un’altra società è sempre nulla per mancanza di novità?
No. Se la registrazione avviene con l’autorizzazione o il consenso del titolare del marchio di fatto preusato, la domanda di nullità per difetto di novità viene respinta. Il consenso del titolare del diritto anteriore sana la potenziale mancanza di novità, legittimando la registrazione da parte di un soggetto diverso.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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