Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 5844 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 5844 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 05/03/2025
ORDINANZA
sul ricorso 26860 – 2020 proposto da:
COGNOME, elettivamente domiciliato in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME rappresentato e difeso dall’avv. NOME COGNOME COGNOME giusta procura in calce al ricorso, con indicazione dell’indirizzo pec;
– ricorrente –
contro
ORDINE DEI MEDICI CHIRURGHI E DEGLI ODONTOIATRI DI ENNA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME giusta procura in calce al controricorso, con indicazione dell’indirizzo pec;
– controricorrente –
MINISTERO DELLA SALUTE, in persona del Ministro pro tempore PROCURA DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI ENNA – intimati – avverso la decisione n. 92/2019 della COMMISSIONE CENTRALE PER GLI ESERCENTI LE PROFESSIONI SANITARIE, depositata il 15/7/2020; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 2/7/2024 dal consigliere NOME COGNOME
lette le memorie delle parti.
FATTI DI CAUSA
1. Con delibera del 10/01/2017, la Commissione Medica di Disciplina dell’Ordine Provinciale dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri di Enna inflisse a NOME COGNOME in servizio presso l’Unità di Terapia Intensiva Cardiologica (UTIC) dell’Unità operativa complessa (UOC) di Cardiolo gia dell’Azienda sanitaria provinciale di Enna, la sanzione della censura ex art. 40 punto 2) D.P.R. 221/1950 per violazione dell’art. 58 del Codice deontologico dei Medici (nel testo del 1995 aggiornato al 15 dicembre 2006, applicabile ratione temporis ), per avere posto in essere un comportamento scorretto, in violazione del dovere di rispetto reciproco e fiducia nei confronti di un collega, il dott. NOME COGNOME; in particolare, la dott.ssa COGNOME aveva registrato senza autorizzazione una conversazione privata, intercorsa con il collega in ambiente e orario di lavoro, allo scopo di utilizzarne il contenuto come prova contro il direttore della U.O.C., dott. NOME COGNOME da lei denunciato per abuso di ufficio e omissi one di atti d’ufficio commessi in suo danno; con nota del 16/1/2015, il dott. COGNOME aveva segnalato all’Ordine Provinciale dei Medici Chirurghi e Odontoiatri di Enna la condotta della dott. COGNOME che, violando il suo diritto alla riservatezza, aveva irreparabilmente compromesso il loro
rapporto fiduciario (la registrazione era stata depositata in Procura in un giudizio penale a carico del terzo, dott. NOME COGNOME.
Avverso questa decisione la dott.ssa COGNOME propose ricorso ex art. 5 d.lgs. 233/1946 innanzi alla Commissione centrale per gli esercenti le professioni sanitarie eccependo, per quel che ancora rileva ai fini del presente giudizio di legittimità, l’incompetenza dell’Ordine dei Medici a sanzionare un comportamento posto in essere non nell’esercizio della libera professione ma nello svolgimento di funzioni di pubblico impiego e sostenendo la legittimità del proprio comportamento, necessitato dall’esercizio del proprio diritto alla difesa nel procedimento penale con un terzo.
Con decisione n. 92/2019, la Commissione centrale per gli esercenti le professioni sanitarie respinse il ricorso.
Avverso questa decisione NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi, a cui l’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri di Enna ha resistito con controricorso; entrambe le parti hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Preliminarmente deve rilevarsi che nessuno dei due motivi di ricorso risulta riferito ad una delle cinque ipotesi previste dal primo comma dell’art. 360 cod. proc. civ.; il ricorso risulta, tuttavia, comunque ammissibile perché dall’articolazione delle cen sure risulta chiaramente individuabile il vizio denunciato (cfr. Cass. Sez. U, n. 17931 del 24/07/2013; cfr. Cass. Sez. 6 – 3, n. 4036 del 20/02/2014).
Con il primo motivo, NOME COGNOME ha sostenuto la violazione degli artt. 3 e 10 d.lgs. C.P.S. n. 233/1946, per avere la Commissione affermato il potere disciplinare del Consiglio dell’Ordine con riferimento a fatti avvenuti nell’ambito di un rapporto di pubblico impiego, estranei all’esercizio della libera professione.
1.1. Il primo motivo è INFONDATO.
Per principio ormai consolidato, il potere disciplinare spettante al Consiglio dell’Ordine nei confronti del professionista, per la repressione degli abusi e delle mancanze di cui gli iscritti si rendono colpevoli nell’esercizio della professione, non si riferisce solo alla professione espletata secondo un modello organizzativo autonomo, ma anche a fatti e violazioni connessi allo svolgimento di ogni attività che sia estrinsecazione delle particolari conoscenze tecniche attestate dal titolo di studio, con la conseguenza che, nei confronti degli iscritti che siano pubblici dipendenti, detto potere può essere legittimamente esercitato anche con riguardo a violazioni di norme deontologiche inerenti l’esercizio di attività legata allo status del professionista e svolta nell’ambito del rapporto di lavoro ( ex multis , Cass. Sez. 3, n. 8639 del 29/05/2003; Sez. 6 – 3, n. 17418 del 19/08/2011; Sez. 2, n. 16045 del 28/07/2020). Possono essere considerati, in altri termini, illeciti disciplinari i comportamenti tenuti dagli iscritti anche se nello svolgimento di attività diverse dall’esercizio della libera professione, se il comportamento sia suscettibile di essere considerato di pregiudizio per il decoro della stessa, con il limite che l’organo disciplinare non può sindacare gli atti che siano invece strettamente riconducibili all’attività amministrativa dell’ente pubblico.
Nella specie, dunque, la violazione contestata era attinente al dovere di correttezza del comportamento tra colleghi e non era, perciò, collegata specificamente e unicamente all’esercizio delle funzioni del rapporto di pubblico impiego.
Con il secondo motivo, la ricorrente ha prospettato la violazione degli artt. 24 Cost., 51 cod. pen. e 24 d.lgs. 196/2003 (cd. Codice Privacy) per non avere la Corte considerato che la registrazione di un colloquio fra colleghi, a cui partecipi chi registra, finalizzata ad acquisire prove da utilizzare in sede giudiziaria, non è lesiva del diritto alla riservatezza, seppure realizzata senza il consenso dell’interessato,
perché necessaria ai fini dello svolgimento delle indagini difensive o comunque per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria.
2.1. Il motivo è ammissibile. È vero che, per principio consolidato, nei giudizi disciplinari nei confronti dei professionisti, l’individuazione delle regole di deontologia professionale e la loro applicazione nella valutazione degli addebiti attengono al merito del procedimento e sono insindacabili in sede di legittimità, se congruamente motivate, perché esse si riferiscono a precetti extragiuridici ovvero a regole interne alle categorie e non già ad atti normativi (Cass. Sez. 3, n. 21732 del 11/10/2006; Sez. U, n. 8239 del 23/07/1993).
È vero altresì, tuttavia, che nella fattispecie è stato contestato un illecito a condotta orientata e a forma libera, individuato da una norma cosiddetta «elastica» che, al fine di sanzionare, sotto il profilo disciplinare, fatti omissivi o commissivi posti in essere da soggetti appartenenti a determinate categorie o tenuti ad osservare determinati comportamenti nei confronti di altri soggetti, rimanda, quanto alla definizione della condotta rilevante, a modelli o clausole di contenuto generale per l’impossibilità di identificare in via preventiva ed astratta tutti i possibili comportamenti materiali integranti la fattispecie: in tale ipotesi, allora, è certamente compito esclusivo del giudice di merito collegare la previsione normativa astratta al caso concreto, valutando il comportamento dei singoli sotto il profilo disciplinare e facendo ricorso, ove necessario, a regole ricavabili, oltre che da specifiche previsioni di legge, anche da canoni di condotta espressi dalla collettività o da principi deontologici dettati all’interno di determinati sistemi; la suddetta attività interpretativa e sussuntiva, tuttavia, è sindacabile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ. quando il Giudice del merito, esorbitando dal caso concreto, abbia
espresso valutazioni palesemente erronee in diritto rispetto alle clausole generali richiamate dalla norma e al loro significato.
In particolare, respingendo il terzo motivo di impugnazione proposto dalla dott.ssa COGNOME avverso la delibera della Commissione medica del Consiglio dell’Ordine di Enna, la Commissione centrale ha affermato di dover «incentrare l’esame della vicenda non sui motivi di carattere soggettivo che hanno spinto la ricorrente ad attuare una condotta palesemente scorretta», ma di dover «rilevare che il comportamento posto in essere dalla ricorrente non solo viola il diritto alla riservatezza, ma anche il precetto di cui all’art. 58 del Codice deontologico».
Nella specie, l’art. 58 del codice deontologico , nella versione approvata il 15 dicembre 2006, prevedeva che «il rapporto tra medici deve ispirarsi ai principi di corretta solidarietà, di reciproco rispetto e di considerazione della attività professionale di ognuno»; in termini semplificanti, la Commissione ha considerato scorretta deontologicamente la registrazione in assenza di previo consenso perché attuata in violazione del diritto alla riservatezza e non scriminata dalla addotta necessità, da parte dell’incolpata, di procurarsi una prova rilevante in un giudizio penale.
La censura in esame, dunque, è stata formulata in riferimento alla violazione di due norme imperative, l’art. 51 cod. pen. e l’art. 24 del d.lgs. 196/2003 (Codice della privacy), vigente all’ epoca di compimento dei fatti (9/10/12), perché nella motivazione del provvedimento impugnato la condotta sanzionata è stata specificamente individuata come deontologicamente illecita in riferimento al diritto alla riservatezza, la cui violazione si sarebbe tradotta nella violazione delle norme di correttezza tra colleghi.
Nell’art. 24 invocato, tuttavia, la violazione del diritto alla riservatezza risulta specificamente scriminata dalla sussistenza di una
particolare ipotesi, il contrapposto esercizio del diritto di difesa (e lo risulta tutt’oggi, in riferimento al decreto legislativo 10/08/2018 n. 101 recante l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento UE 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati). L’articolo, peraltro, è applicazione specifica del principio generale sancito nell’art. 51 cod. pen., secondo cui l ‘esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude la punibilità.
In tal senso, la Commissione centrale, nell’esaminare le ragioni scriminanti addotte dalla incolpata, non si è conformata a un principio di diritto consacrato nella norma dell’art. 24 del Codice della privacy, in applicazione -ancor prima -del principio generale di cui all’art. 51 cod. pen., secondo cui non è illecita la violazione del diritto alla riservatezza, cioè la condotta di registrazione d’una conversazione tra presenti in mancanza dell’altrui consenso, ove rispondente alle necessità conseguenti al legittimo esercizio del diritto di difesa in giudizio; in particolare, per quel che qui rileva, la scriminante opera a prescindere dalla esatta coincidenza soggettiva tra i conversanti e le parti processuali, purché l’utilizzazione di tale registrazione avvenga solo in funzione del perseguimento di tale finalità e per il periodo di tempo strettamente necessario (cfr., in materia di licenziamento disciplinare, Cassazione civile, Sez. L, n. 31204 del 02/11/2021; Sez. L. n. 28398 del 29/09/2022, non mass., con indicazione dei precedenti rilevanti).
A ciò si aggiunga che questa Corte ha, pure, esplicitamente affermato che «il diritto di difesa non è limitato alla pura e semplice sede processuale, estendendosi a tutte quelle attività dirette ad
acquisire prove in essa utilizzabili, ancor prima che la controversia sia stata formalmente instaurata mediante citazione o ricorso; non a caso, nel codice di procedura penale, il diritto di difesa costituzionalmente garantito dall’art. 24 Cost. sussiste anche in capo a chi non abbia ancora assunto la qualità di parte in un procedimento» (Cass. 29 dicembre 2014, n. 27424).
Pertanto, la decisione n. 92 del 2019 qui impugnata deve essere cassata in riferimento al secondo motivo accolto, con rinvio alla Commissione centrale per gli esercenti le professioni sanitarie, in diversa composizione, perché provveda al riesame della impugnazione in conformità con i principi suesposti e alle spese di ciascun grado.
Le spese di questo giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo, sono poste a carico del Consiglio dell’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri di Enna, in favore di NOME COGNOME.
P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso, rigettato il primo; cassa la decisione n. 92 del 2019 qui impugnata in riferimento al motivo accolto, con rinvio alla Commissione centrale per gli esercenti le professioni sanitarie, in diversa composizione, anche per le spese di ciascun grado;
condanna il Consiglio dell’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri di Enna al pagamento, in favore di NOME COGNOME, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.800,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda