Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 19955 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 19955 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 17/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 16862/2020 R.G. proposto da :
NOME COGNOME RAGIONE_SOCIALE rappresentata e difesa dall’avvocato COGNOME COGNOME (CODICE_FISCALE ed elettivamente domiciliata a ll’ indirizzo PEC del difensore iscritto nel REGINDE;
-ricor-
NOME
contro
COGNOME RAGIONE_SOCIALE rappresentata e difesa dagli avvocati COGNOME (DNTCMN55P60D643U), COGNOME (CODICE_FISCALE) ed elettivamente domiciliata agli indirizzi PEC dei difensori iscritti nel REGINDE;
-controricorrente-
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO BARI n. 222/2020 depositata il 04/02/2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 19/02/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Nel 1999 la RAGIONE_SOCIALE prometteva di vendere alla RAGIONE_SOCIALE un suolo sito in Foggia, identificato nel foglio 92, particella 663, per la realizzazione di un programma edilizio PRUSST (la cui promessa di vendita si traduceva in atto definitivo in data 28/04/2000). Inoltre, la RAGIONE_SOCIALE concedeva un’opzione gratuita sulla particella 662 per la realizzazione dell’intero progetto edilizio. Nel 2001 la RAGIONE_SOCIALE prometteva di cedere alla Vittozzi cubatura edilizia da mettere a frutto sulla predetta particella n. 662, con corrispettivo di 500.000.000 di lire, versato integralmente. Il contratto del 2001 prevedeva alla lettera d) che, qualora il piano non fosse stato approvato dal Comune e reso esecutivo entro sei mesi dalla firma della scrittura privata, il contratto avrebbe perso efficacia e la RAGIONE_SOCIALE avrebbe dovuto restituire l’intera somma ricevuta. Alla lettera e) si introduceva inoltre una clausola di rinnovo automatico. Le parti convenivano che il contratto si sarebbe rinnovato ogni sei mesi, salvo che nel frattempo il piano edilizio venisse approvato o che la COGNOME non esercitasse il diritto di richiedere la restituzione delle somme versate. Mancata l’approvazione del piano ed ilizio, nel 2011 la cedente COGNOME comunicò la volontà di rivedere i patti, mentre l’acquirente COGNOME nella primavera del 2013 conveniva la cedente dinanzi Tribunale di Foggia per la restituzione della somma versata (domanda dapprima formulata in via subordinata rispetto all’azione ex art. 2932 c.c. e divenuta poi unica domanda con la prima memoria ex art. 183 co. 6 c.p.c.). In primo grado il Tribunale rigettava la domanda di restituzione, sulla considerazione che l’inadempimento amministrativo, che impediva la realizzazione della cessione di cubatura, non fosse imputabile alla cedente. Il giudice si richiamò al programma unitario del 1999 e ascrisse la condotta delle parti alla loro volontà di proseguire il progetto nonostante i contrasti. La Corte d’ appello ha riformato la decisione di primo grado, rilevando
l’autonomia della scrittura del 2001 rispetto al precedente accordo del 1999, la natura potestativa della clausola di recesso esercitato quindi legittimamente dall’acquirente, nonché l’assenza di giustificazione per la ritenzione del corrispettivo da parte della cedente e condannando la società convenuta alla restituzione di € 258.228,44.
Ricorre in cassazione la cedente convenuta con quattro motivi, illustrati da memoria. Resiste l’attrice acquirente con controricorso e memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo denuncia la violazione dell’art. 345 c.p.c. per aver ammesso in appello la domanda di accertamento del recesso formulata dalla COGNOME per la prima volta in secondo grado. Si sostiene che il passaggio da domanda di risoluzione a domanda di accertamento del recesso è inammissibile.
Il primo motivo è infondato.
L’accesso agli atti di causa (consentito dalla censura di error in procedendo ) conferma l’argomentazione della Corte di appello secondo cui non è nuova la domanda di accertamento del recesso. Infatti nell’ atto di citazione l’acquirente aveva proposto in via principale domanda ex art. 2932 c.c., relativa alla cessione della cubatura e in subordine domanda di restituzione di corrispettivo, mentre nella prima memoria ex art. 183 co. 6 c.p.c. aveva rinunciato alla domanda principale, insistendo su quella subordinata e fondandola sia sull’asserito mancato rinnovo del vincolo contrattuale, in virtù della ‘ disdetta ‘ asseritamente operata dalla venditrice, sia sulla specifica clausola contrattuale -alla fine della lett. e) – che prevedeva la richiesta di restituzione delle somme quale causa risolutiva dell’accordo. In appello la Corte si è limitata a conferire valore a questa seconda qualificazione della domanda restitutoria, mentre in primo grado il Tribunale – secondo la ricostruzione della stessa Corte di appello – aveva valorizzato invece « l’istanza di restituzione nell’ottica
di una domanda implicita di risoluzione del contratto, valutando le condotte ritenute inadempienti, con argomenti che avevano ragion d’essere in forza della domanda principale di esecuzione in forma specifica, e che però non si attagliano alla domanda subordinata; infatti, non pare che il Tribunale abbia mai esaminato la clausola che prevedeva espressamente quella che può qualificarsi come condizione risolutiva potestativa ».
L’operazione è corretta .
Infatti, non può qualificarsi come nuova una domanda – già proposta in primo grado – che la Corte di appello abbia solo qualificato diversamente dal giudice di primo grado. Vale ribadire: « il giudice del merito, nell’indagine diretta all’individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, non è tenuto ad uniformarsi al tenore meramente letterale degli atti nei quali esse sono contenute, ma deve, per converso, avere riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante, mentre incorre nel vizio di omesso esame ove limiti la sua pronuncia alla sola prospettazione letterale della pretesa, trascurando la ricerca dell’effettivo suo contenuto sostanziale » (così, tra le altre Cass. n. 118/2016).
Il primo motivo è rigettato.
2. – Il secondo motivo denuncia la violazione degli artt. 1321 ss. c.c., 1453 e 1456 c.c. Sotto un primo profilo, si contesta la qualificazione della clausola contrattuale de qua come risolutiva potestativa. Si afferma che tale clausola non era configurabile ai sensi dell’art. 1456 c.c. e che la Corte non ha considerato il carattere condizionale della clausola, dipendente dalla volontà della pubblica amministrazione. Sotto un secondo profilo, si contesta l’errata esclusione del collegamento funzionale tra le due scritture contrattuali del 1999 e del 2001, sostenendo che il programma edilizio comune giustificava il collegamento.
Il secondo motivo è infondato.
Quanto al primo profilo, nella disamina del primo motivo si è già chiarito che la Corte di appello ha qualificato la domanda restitutoria come esercizio della facoltà prevista nella lett. e) del contratto del 2001, per cui corretta è la conclusione (sentenza, p. 6) che « La previsione di una risoluzione legata alla sola volontà di una delle parti, da esercitarsi mediante mera richiesta di restituzione della somma, e la carenza di previsione circa la necessaria motivazione dell’esercizio di tale facoltà, è da qualificarsi quale condizione risolutiva potestativa» . L’unica correzione (meramente terminologica) è che tale clausola si qualifica meglio come contenente un patto di recesso unilaterale ex art. 1373 c.c.
Quanto al secondo profilo del motivo, esso si scontra con l’ampia motivazione con cui la Corte di appello ha ricostruito, in modo ineccepibile in sede di giudizio di legittimità, i rapporti tra i due accordi (1999, 2001), pervenendo alla conclusione che « la scrittura del 2001 si pone come autonoma pattuizione anche derogatoria rispetto al programma » (del 1999).
Il secondo motivo è rigettato.
3. – Il terzo motivo di ricorso denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, con riferimento alla valutazione della documentazione prodotta nel giudizio di appello. Il ricorrente sostiene che la Corte di appello ha trascurato elementi documentali rilevanti ai fini della decisione, in particolare il decreto della Regione Puglia n. 167 del 23/03/2015 e il Bollettino Ufficiale della Regione Puglia n. 46 del 2/04/2015. Secondo il ricorrente, questi documenti attestavano l’approvazione definitiva dell’ accordo di programma, determinando così la concreta edificabilità delle aree oggetto della cessione volumetrica. Si afferma
che la sentenza impugnata non ha adeguatamente considerato il rilievo di tali atti e la loro incidenza sulla controversia, limitandosi ad affermare in maniera generica che la loro portata decisoria era limitata.
Il terzo motivo è rigettato.
Lungi dall’essere contraddittoria, la motivazione della Corte sul punto è coerente con la ricostruzione, rievocata nell’esaminare i l primo e il secondo motivo, che vede la domanda restitutoria dell ‘acquirente ancorata alla facoltà unilaterale di recesso riconosciuta alla lett. e) del contratto.
4. – Il quarto motivo di ricorso denuncia la nullità della sentenza impugnata per omessa pronuncia, sostenendo che la Corte di appello non si sia espressa sulle specifiche domande proposte in sede di gravame. Secondo la ricorrente, la sentenza ha accolto la domanda già proposta in primo grado e non ritualmente riproposta in appello, senza esaminare le istanze avanzate nel secondo grado di giudizio. Si afferma che la Corte non ha statuito sugli inadempimenti delle parti né sulle eccezioni sollevate, ma ha configurato una fattispecie contrattuale non conforme ai documenti e alle circostanze emerse nel processo. In particolare, la ricorrente evidenzia che la COGNOME nel proporre appello, aveva chiesto l’accertamento del legittimo esercizio del diritto di recesso e, in via subordinata, l’accertamento dell’inadempimento contrattuale della COGNOME. Tuttavia, la sentenza non avrebbe esaminato queste richieste, limitandosi a confermare la condanna alla restituzione delle somme senza una motivazione puntuale sulle domande avanzate in appello.
Il quarto motivo è rigettato.
Per un verso, tale motivo ripropone un profilo già fatto valere nel primo motivo di ricorso. Per un altro verso, esso non riflette la realtà processuale, che ha visto l’appellante formulare tre domande (una principale e due subordinate) dirette allo stesso scopo pratico della restituzione della somma.
– Il ricorso è rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
Inoltre, ai sensi dell’art. 13 co. 1 -quater d.p.r. 115/2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, ad opera della parte ricorrente, di un’ulteriore somma pari a quella prevista per il ricorso a titolo di contributo uni ficato a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente a rimborsare alla parte controricorrente le spese del presente giudizio, che liquida in € 7.000,00, oltre a € 200 ,00 per esborsi, alle spese generali, pari al 15% sui compensi, e agli accessori di legge.
Sussistono i presupposti processuali per il versamento, ad opera della parte ricorrente, di un’ulteriore somma pari a quella prevista per il ricorso a titolo di contributo unificato, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Se-