Sentenza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 20768 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 3 Num. 20768 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 22/07/2025
Oggetto
Locazione ad uso diverso – Recesso del conduttore per gravi motivi ex art. 27, comma 8, l. n. 392 del 1978 -Omessa consegna dell’Attestato di Certificazione Energetica -Conseguenze -Combinato disposto artt. 6 (comma 4), 15 (comma 9) e 11 (comma 1bis ) d. lgs. n. 192 del 2005 – Interpretazione
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 4088/2021 R.G. proposto da RAGIONE_SOCIALE rappresentata e difesa dall’Avv. NOME COGNOME domiciliata digitalmente ex lege ;
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE NOME COGNOME RAGIONE_SOCIALE rappresentata e difesa dall’Avv . NOME COGNOME e dall’ Avv. NOME COGNOME domiciliata digitalmente ex lege ;
-controricorrente e ricorrente incidentale -Trieste, n. 427/2020, avverso la sentenza della Corte d’appello di
pubblicata il 30 novembre 2020.
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 14 luglio 2025 dal Consigliere NOME COGNOME
udito l’Avvocato NOME COGNOME;
udito l’Avvocato NOME COGNOME;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso riportandosi alla memoria depositata e chiedendo che la Corte accolga il terzo e il quarto motivo del ricorso principale di RAGIONE_SOCIALE e dichiari inammissibili e rigetti i restanti motivi; chiede inoltre il rigetto e la dichiarazione di inammissibilità del ricorso incidentale come esplicitato nella stessa memoria.
FATTI DI CAUSA
Con ricorso proposto ai sensi dell’art. 447 -bis cod. proc. civ. davanti al Tribunale di Pordenone, la RAGIONE_SOCIALE (d’ora in poi RAGIONE_SOCIALE convenne in giudizio la RAGIONE_SOCIALE (d’ora in poi RAGIONE_SOCIALE, chiedendo che fosse dichiarata l’illegittimità dell’atto di recesso esercitato da quest’ultima in relazione al contratto di locazione ad uso commerciale concluso tra le parti con decorrenza dal 1° agosto 2012.
Espose, a sostegno della domanda, che il motivo di recesso era da ritenere non idoneo e che la conduttrice era perciò tenuta al pagamento dei canoni fino alla scadenza naturale del contratto, stabilita per il 31 luglio 2024.
Si costituì in giudizio la società conduttrice, chiedendo il rigetto della domanda e proponendo domanda riconvenzionale con la quale sollecitò la declaratoria di nullità del precedente contratto di locazione del 14 marzo 2008 intercorso tra le parti, con richiesta di restituzione di tutti i canoni dalla stessa pagati.
A seguito di tale domanda riconvenzionale, la società RAGIONE_SOCIALE chiese a sua volta, in via di reconventio reconventionis , che fosse dichiarata la piena validità dei due contratti stipulati dalle parti; e aggiunse che,
per la denegata ipotesi di accoglimento della riconvenzionale della società RAGIONE_SOCIALE, la stessa avrebbe dovuto essere condannata al pagamento della relativa indennità, in quanto occupante dell’immobile senza titolo.
Il Tribunale accolse la domanda principale, accertò l’illegittimità del recesso comunicato dalla società RAGIONE_SOCIALE in relazione al contratto del 1° agosto 2012, condannò la convenuta al pagamento dei canoni di locazione fino alla scadenza naturale del contratto, rigettò ogni altra domanda e condannò la società RAGIONE_SOCIALE al pagamento delle spese di lite.
La pronuncia è stata impugnata in via principale dalla società RAGIONE_SOCIALE e in via incidentale dalla società RAGIONE_SOCIALE e la Corte d’appello di Trieste, con sentenza del 30 novembre 2020, ha rigettato entrambe le impugnazioni e ha condannato l’appellante principale alla rifusione di tre quarti delle ulteriori spese del grado, compensate quanto al quarto residuo.
2.1. Ha osservato la Corte territoriale che risultava provata l’esistenza di due contratti tra le parti, uno stipulato il 14 marzo 2008 con decorrenza dal 1° agosto 2008 e l’altro con decorrenza dal 1° agosto 2012; il primo tra la società RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE e l’altro tra le due parti in causa. I due contratti avevano un diverso canone e un oggetto diverso, posto che il secondo riguardava un immobile solo in parte coincidente col primo e non conteneva alcun riferimento al precedente (come risultava dal fatto che nel preliminare del secondo contratto era espressamente prevista la risoluzione del primo). Doveva quindi ritenersi che il primo contratto non fosse più operante, in quanto oggetto di scioglimento per mutuo consenso.
Ciò premesso, la Corte giuliana ha affermato che ogni questione relativa alla nullità del primo contratto doveva essere esaminata al solo scopo di rispondere alla domanda di restituzione dei relativi canoni, avanzata dalla società RAGIONE_SOCIALE; quanto, invece, alla nullità del secondo, si trattava di una questione priva di fondamento, dal
momento che la sanzione di nullità era venuta meno a seguito delle modifiche apportate al decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, dalla legge di conversione 6 agosto 2008, n. 133, con decorrenza dal 22 agosto 2008.
2.2. In relazione alla presunta nullità del contratto del 1° marzo 2008, la Corte d’appello ha affermato di condividere la motivazione resa dal Tribunale, che aveva escluso tale nullità.
Al riguardo ha anzitutto osservato che:
-presupposto imprescindibile per ottenere un Attestato di Certificazione Energetica era l’emanazione dei decreti di cui all’art. 4 d. lgs. n. 192 del 2005 per la fissazione dei criteri e dei requisiti professionali per l’individuazione degli esperti o degli organismi cui affidare la certificazione energetica nonché delle linee guida nazionali per la certificazione energetica di cui all’art. 6, ultimo comma, d. lgs. n. 192 del 2005;
-la disciplina transitoria, applicabile in attesa dell’emanazione della normativa regolamentare, venne dettata dall’art. 11, comma 1bis , del d.lgs. n. 192 del 2005, introdotto, con decorrenza dal 2 febbraio 2007, dal d.lgs. n. 311 del 2006, prevedendosi che, fino a quando non fossero state emanate le norme regolamentari che consentano la redazione dell’attestato di certificazione energetica degli edifici, lo stesso era sostituito a tutti gli effetti dall’attestato di qualificazione energetica o da una equivalente procedura di certificazione energetica stabilita dal Comune con proprio regolamento antecedente alla data dell’8 ottobre 2005; in pratica, in questa fase transitoria di applicazione del d. lgs. 192/2005, l’A.C.E. era sostituito, ai fini dell’allegazione agli atti traslativi, dall’Attestato di Qualificazione Energetica o da una equivalente procedura di certificazione energetica stabilita dal Comune con proprio regolamento antecedente alla data dell’8 ottobre 2005;
-la qualificazione energetica rimase in vigore fino all’uscita delle
Linee Guida nazionali per la Certificazione Energetica (D.M. 26/06/2009); le prime due norme attuative vennero infine pubblicate con il d.P .R. 59/2009 (” Regolamento di attuazione dell’articolo 4, comma 1, lettera a) e b), del Decreto Legislativo 19 agosto 2005, n. 192, concernente attuazione della Direttiva 2002/91/CE sul rendimento energetico in edilizia “); la terza norma attuativa, d.P.R. 16 aprile 2013, n. 75, ha infine definito i requisiti professionali e i criteri di accreditamento per assicurare la qualificazione e l’indipendenza degli esperti o degli organismi a cui affidare la certificazione energetica degli edifici e l’ispezione degli impianti di climatizzazione;
-al di fuori di quanto previsto all’articolo 8 comma 2, l’attestato di qualificazione energetica era facoltativo ed era predisposto a cura dell’interessato al fine di semplificare il successivo rilascio della certificazione energetica; non si può pertanto sostenere che il primo contratto fosse nullo per difetto dell’attestazione di certificazione energetica e ciò indipendentemente dal fatto che tale mancanza poteva ben essere sanata trattandosi di nullità relativa;
-la possibilità di simile «validità sopravvenuta» sarebbe venuta meno, secondo la Corte d’appello, solo in caso di eventuale proposizione di un’azione giudiziale di nullità, la quale avrebbe reso inutile la sopravvenienza legislativa; ma se, invece, tale nullità non era stata fatta valere, solo uno « sterile formalismo » poteva condurre a dare rilievo alla nullità; in assenza, cioè, « dell’attualità dell’interesse pubblico ostativo all’esecuzione del contratto », la Corte di merito ha affermato che ad esso deve essere restituita piena validità.
2.3. Esaminando, poi, il secondo motivo dell’appello principale, avente ad oggetto la legittimità del recesso anticipato della società Iglu dal secondo contratto di locazione, la Corte d’appello, richiamata la giurisprudenza di legittimità sul punto, ha rilevato che le ragioni che consentono al conduttore di liberarsi in anticipo dal vincolo
contrattuale « devono essere determinate da avvenimenti estranei alla volontà del conduttore, imprevedibili e sopravvenuti alla costituzione del rapporto, che ne rendano oltremodo gravosa la prosecuzione ». Tale gravosità deve avere una connotazione oggettiva e consistere « in un sopravvenuto squilibrio tra le prestazioni originarie idoneo a incidere significativamente sull’andamento dell’azienda ». Nel caso specifico, al contrario, i gravi motivi addotti dalla società conduttrice non erano di tal genere, posto che non erano sopravvenuti, in quanto ben noti alla società RAGIONE_SOCIALE fin dal 2011, e mancavano del carattere di imprevedibilità.
Dal rigetto dei motivi dell’appello principale la Corte d’appello ha dedotto l’assorbimento di tutte le questioni poste in sede di appello incidentale condizionato, escludendo anche che potessero sussistere le condizioni per porre a carico dell’appellante principale l’ulteriore condanna per responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96 cod. proc. civ., come sollecitato dalla società locatrice.
Per la cassazione di tale sentenza la RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso affidato a sette motivi.
La RAGIONE_SOCIALE ha depositato controricorso, con lo stesso atto proponendo ricorso incidentale con un motivo e ricorso incidentale condizionato con un motivo, per resistere ai quali COGNOME ha depositato controricorso.
All’esito dell’adunanza camerale del 24 aprile 2024, in vista della quale le parti avevano depositato memorie, questa Corte, con ordinanza interlocutoria n. 20644 del 24/07/2024, ha disposto il rinvio della causa a nuovo ruolo, perché fosse trattata in pubblica udienza, in relazione alle questioni poste con il terzo e quarto motivo del ricorso principale.
Il P .M. ha depositato, in data 23 giugno 2025, conclusioni scritte con le quali ha chiesto che la Corte « accolga il terzo e il quarto motivo del ricorso principale di RAGIONE_SOCIALE e dichiari inammissibili e
rigetti i restanti motivi …; rigetti e dichiari inammissibile il ricorso incidentale …» .
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in relazione all’art. 360, comma primo, num. 4, cod. proc. civ., nullità della sentenza per illegittimità costituzionale della normativa che prevede che la Corte d’appello abbia come componente anche un giudice ausiliario.
La parte ricorrente assume che tale normativa, illegittima in riferimento agli artt. 3, 25 e 106 Cost., renderebbe nulla la sentenza per vizio di costituzione del giudice.
1.1. Il motivo è infondato.
Sulla questione è, come noto, intervenuta la Corte costituzionale che, con sentenza n. 41 del 17 marzo 2021, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 62, 63, 64, 65, 66, 67, 68, 69, 70, 71 e 72 del d.l. 21 giugno 2013, n. 69 ( Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia ), convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, « nella parte in cui non prevedono che essi si applichino fino a quando non sarà completato il riordino del ruolo e delle funzioni della magistratura onoraria nei tempi stabiliti dall’art. 32 del d.lgs. 13 luglio 2017, n. 116 (Riforma organica della magistratura onoraria e altre disposizioni sui giudici di pace, nonché disciplina transitoria relativa ai magistrati onorari in servizio, a norma della L. 28 aprile 2016, n. 57) ».
Fino ad allora, la stessa sentenza ha riconosciuto la « temporanea tollerabilità costituzionale » dell’attuale assetto, stante l’esigenza di evitare l’annullamento delle decisioni pronunciate con la partecipazione dei giudici ausiliari e di non privare immediatamente le Corti d’appello dell’apporto di questi giudici onorari per la riduzione dell’arretrato nelle cause civili; rimane di conseguenza legittima la costituzione dei collegi delle Corti d’appello con la partecipazione di
non più di un giudice ausiliario a collegio e nel rispetto di tutte le altre disposizioni, sopra richiamate, che garantiscono l’indipendenza e la terzietà anche di questo magistrato onorario.
Per tali ragioni è dunque da escludere che la sentenza impugnata possa ritenersi affetta da nullità per vizio di costituzione del giudice ex art. 158 c.p.c. per essere stata resa da Collegio composto anche da giudice ausiliario, quale relatore.
Con il secondo motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360, primo comma, num. 4, cod. proc. civ., nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. in relazione agli artt. 346 e 324 cod. proc. civ., per non avere la Corte d’appello riconosciuto l’esistenza di un giudicato interno.
Lamenta che la Corte d’appello, dopo aver escluso la configurabilità della nullità a proposito del secondo contratto, sia giunta alla stessa conclusione anche in rapporto al primo, sulla base della disciplina transitoria. Richiamati alcuni passaggi della sentenza del Tribunale, la ricorrente afferma che in quella sede fu accertato che il primo contratto era nullo, ma che tale nullità era da ritenere sanata per effetto della sopravvenuta abrogazione della normativa in tema di attestato di certificazione energetica. Quello specifico capo della decisione di primo grado non era stato fatto oggetto di appello, sicché l’affermata nullità del contratto del 14 marzo 2008 doveva considerarsi passata in giudicato.
2.1. Il motivo è manifestamente infondato.
Nessun giudicato interno è predicabile sulla nullità del primo contratto di locazione intercorso tra le parti. Le statuizioni performative del primo giudice non contengono alcuna affermazione in tal senso, ma anzi escludono che una tale nullità possa ritenersi sussistere. È vero che a tale conclusione la prima sentenza giunge per il ritenuto rilievo sanante della normativa sopravvenuta ed è vero anche che con l’appello Iglu si era doluta (ovviamente) solo della
correttezza in iure di tale ultimo argomento, mentre nessuna censura aveva attinto l’affermazione che lo precedeva circa la originazione nullità del contratto per mancanza della AQE, ma ciò attiene all’argomentazione giuridica utilizzata al detto fine dal Tribunale, dalla quale non è possibile trarre alcuna statuizione intermedia nel senso prospettato in ricorso. La stessa appellante principale, odierna ricorrente principale, nell’impugnare la sentenza sul punto aveva fatto sì che l’intera questione, in tutta la sua ampiezza e con riferimento a tutti i temi da essa implicati, fosse sottoposta al vaglio del giudice superiore.
Giova in tal senso rammentare che, secondo pacifico insegnamento, « il giudicato si determina su una statuizione minima della sentenza, costituita dalla sequenza fatto, norma ed effetto, suscettibile di acquisire autonoma efficacia decisoria nell’ambito della controversia, sicché l’appello motivato con riguardo ad uno soltanto degli elementi di quella statuizione riapre la cognizione sull’intera questione che essa identifica, così espandendo nuovamente il potere del giudice di riconsiderarla e riqualificarla anche relativamente agli aspetti che, sebbene ad essa coessenziali, non siano stati singolarmente coinvolti, neppure in via implicita, dal motivo di gravame (v. Cass. n. 12202 del 16/05/2017; cui adde , tra le pronunce massimate, Cass. n. 24783 del 08/10/2018; n. 10760 del 17/04/2019; n. 30728 del 19/10/2022; v. anche, tra le più recenti pronunce non massimate sul punto, Cass. n. 22177 del 24/07/2023; n. 13825 del 19/05/2023; n. 4809 del 15/02/2023; n. 3227 del 02/02/2023; n. 28217 del 06/10/2023).
La censura è argomentata sulla base della implicita premessa che il giudice d’appello fosse tenuto a seguire pedissequamente i binari argomentativi segnati dalla motivazione del primo giudice (nullità originaria del contratto; successiva sanatoria per effetto della norma sopravvenuta).
Si tratta, però, di una falsa premessa, essendo appena il caso di rammentare che il giudizio di appello ha bensì struttura di revisio prioris instantiae ma come tale trova il suo perimetro delimitato dai motivi di gravame, non certo dalle qualificazioni e valutazioni di merito operate dal primo giudice, salvo solo il formarsi di giudicato interno nella specie non predicabile per le ragioni già dette.
In tal senso va ribadito che, in tema di giudizio di appello, il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, come il principio del tantum devolutum quantum appellatum , non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti, ovvero in base alla qualificazione giuridica dei fatti medesimi ed all’applicazione di una norma giuridica diverse da quelle invocate dall’istante, né incorre nella violazione di tale principio il giudice d’appello che, rimanendo nell’ambito del petitum e della causa petendi , confermi la decisione impugnata sulla base di ragioni diverse da quelle adottate dal giudice di primo grado o formulate dalle parti, mettendo in rilievo nella motivazione elementi di fatto risultanti dagli atti ma non considerati o non espressamente menzionati dal primo giudice (Cass. n. 513 del 11/01/2019 in un caso in cui il giudice di primo grado aveva rigettato la domanda di risarcimento del danno da perdita di chance per la mancata selezione nell’ambito di una procedura finalizzata alla somministrazione di lavoro a tempo determinato, sulla base del contenuto dell’avviso di reclutamento diffuso in vista della selezione; il giudice d’appello, invece, con decisione confermata dalla S.C., aveva reputato fondata la suddetta domanda, ma sulla base della diversa circostanza di fatto – risultante dagli atti, ancorché non considerata dal primo giudice – che alla partecipante non erano state comunicate le ragioni della sua esclusione dalla procedura selettiva, secondo quanto previsto nel capitolato d’appalto tra il somministrante e l’utilizzatore; v. anche, ex plurimis , Cass. n. 16213 del 2015; n.
8142 del 2009; n. 4008 del 2006; n. 19090 del 2007; n. 28217 del 2023, cit.).
Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, con riferimento all’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 15, comma 9, dell’art. 6, comma 4, e dell’art. 11, comma 1bis , in relazione all’art. 8, comma 2, del d.lgs. n. 192 del 2005, nella versione vigente alla data del 14 marzo 2008.
Richiamata la motivazione della Corte d’appello sul regime transitorio di cui all’art. 11, comma 1 -bis , cit., la società ricorrente sostiene che, una volta affermato che vi era una parificazione tra attestato di certificazione energetica (ACE) e attestato di qualificazione energetica (AQE), ne sarebbe dovuta derivare l’affermazione per cui la mancanza di uno dei due doveva condurre a dichiarare la nullità della locazione. Non sarebbe condivisibile, dunque, l’esegesi della Corte di merito secondo la quale la sanzione dell’art. 15, comma 9, cit., non poteva trovare applicazione per difetto di obbligatorietà dell’AQE.
3.1. Il motivo è infondato, nei termini appresso precisati.
La parificazione, ai fini della pretesa sanzione della nullità del contratto, tra attestato di certificazione energetica (ACE) e attestato di qualificazione energetica (AQE) è sostenuta dalla ricorrente (ed anche dal P.G. nelle proprie conclusioni scritte) sulla base della norma transitoria di cui al comma 1bis de ll’art. 11 del d.lgs. n. 192 del 2005 (comma aggiunto dall’art. 5, comma 1, d.lgs. 29 dicembre 2006, n. 311, a decorrere dal 2 febbraio 2007) a mente del quale « Fino alla data di entrata in vigore delle Linee guida nazionali per la certificazione energetica degli edifici, di cui all’articolo 6, comma 9, l’attestato di certificazione energetica degli edifici è sostituito a tutti gli effetti dall’attestato di qualificazione energetica rilasciato ai sensi dell’articolo 8, comma 2, o da una equivalente procedura di
certificazione energetica stabilita dal comune con proprio regolamento antecedente alla data dell’8 ottobre 2005 ».
La tesi in particolare fa leva sull’inciso « a tutti gli effetti » che, nella struttura sintattica della disposizione, dovrebbe valere a qualificare importanza giuridica e ambito operativo del certificato sostitutivo.
Tale tesi, però, non può essere avallata.
Essa omette infatti di considerare, da un lato, che trattandosi di «nullità testuale», essa è soggetta a interpretazione restrittiva, e dall’altro, e correlativamente, gli indici che, nella ricostruzione diacronica del susseguirsi delle modifiche normative, rafforzano la conclusione della necessaria limitazione della interpretazione della norma che ne costituisce la fonte a ciò – e solo a ciò – che è detto espressamente in essa.
3.2. Sotto il primo profilo va rimarcato, per quanto in questa sede interessa, che:
-l’art. 15 del d.lgs. n. 192 del 2005 sanziona, al comma 9, con la nullità (relativa, in quanto deducibile solo dal conduttore), « la violazione dell’obbligo previsto dall’articolo 6, comma 4 »; tale previsione era contenuta nel testo originario della disposizione ed è rimasta immutata anche a seguito della emanazione del d.lgs. 29 dicembre 2006, n. 311;
-l’art. 6, comma 4, d.lgs. cit. (richiamato dalla norma sopra ricordata) prevedeva:
nel testo originario: « Nel caso di locazione, l’attestato di certificazione energetica è messo a disposizione del conduttore o ad esso consegnato in copia dichiarata dal proprietario conforme all’originale in suo possesso »:
b) nel testo risultante dalla modifica introdotta dall’art. 2, comma 4, d.lgs. n. 311 del 2006 (in vigore dal 2 febbraio 2007 al 21 agosto 2008): « Nel caso di locazione di interi immobili o di singole unità
immobiliari già dotati di attestato di certificazione energetica in base ai commi 1, 1bis , 1ter e 1quater , detto attestato è messo a disposizione del conduttore o ad esso consegnato in copia dichiarata dal proprietario conforme all’originale in suo possesso ».
Non è dunque revocabile in dubbio che, in base al combinato disposto delle due norme, nel testo vigente alla data di stipula del contratto del 1° agosto 2008, la sanzione di nullità fosse testualmente prevista con espresso riferimento ad obblighi che attenevano alla messa a disposizione o consegna di copia conforme del (solo) attestato di certificato urbanistica (ACE) e non di altro attestato: obbligo previsto dal comma 4 dell’art. 6 che, con la modifica introdotta dal d.lgs. n. 311 del 2006, è stato peraltro ulteriormente limitato in relazione ai suoi presupposti (essendo previsto non, come in origine, per ogni contratto di locazione, ma solo per quelli aventi ad oggetto « interi immobili o di singole unità immobiliari già dotati di attestato di certificazione energetica in base ai commi 1, 1bis , 1ter e 1quater»).
3.3. Sotto il secondo profilo appare dirimente la considerazione che proprio il testo normativo (il citato d.lgs. n. 311 del 2006) che ha introdotto (con l’art. 5, comma 1), a decorrere dal 2 febbraio 2007, nel d.lgs. n. 192 del 2005, la norma transitoria di cui al comma 1bis dell’art. 11, è espressamente intervenuto, come visto, anche sul testo dell’art. 6, modificando pure il comma 4, del quale, come detto, ha ulteriormente limitato la portata circoscrivendone ad un ambito più ristretto i presupposti applicativi, ma lasciando inalterato il riferimento, quanto all’oggetto dell’obbligo, all’ Attestato di Certificazione Energetica (ACE).
Non può dunque non apparire significativo che il legislatore del 2006, certamente consapevole della mancata entrata in vigore delle Linee guida nazionali per la certificazione energetica degli edifici (oltre che dell’altra normativa regolamentare di cui sopra s’è detto) -tanto
da dettare per tal motivo la vista norma transitoria -e dunque dell’impossibilità, ancora al momento della emanazione del d.lgs. n. 311, che alcuno potesse ottenere in nessun caso un Attestato di Certificazione Energetica, abbia confermato la norma che ne prevedeva, a pena di nullità del contratto, l’obbligo di messa a disposizione o di consegna in copia conforme al conduttore, sebbene ben potesse prevedern e l’inoperatività a quella data e ben pote sse, se ritenuto confacente agli obiettivi perseguiti, estenderne la riferibilità anche all’Attestato di Qualificazione Energetica (AQE), sia pure alternativa e/o limitata nel tempo, in parallelo a quanto previsto dalla norma transitoria di cui all’art. 11, comma 1 -bis .
In tale contesto e per converso, risulta ancor più problematico ricavare una sanzione di nullità (testuale) del contratto di locazione dal combinato disposto della menzionata norma transitoria (l’art. 11, comma 1bis ) che si limita a prevedere, fino all’emanazione delle dette Linee Guida, la sostituzione dell’AQE all’ACE « ad ogni effetto », con le norme di cui all’art. 15, comma 9, e 6, comma 4 (che, nel medesimo contesto, continuano invece a riferire l’obbligo predetto e la relativa sanzione di nullità all’ACE), ove si consideri, da un lato, la difficoltà di conciliare il principio della necessaria ricavabilità di una nullità testuale ex art. 1418, terzo comma, cod. civ., direttamente dal testo della norma, con la generica previsione di una norma transitoria quale quella in discorso, dall’altro, che, nel contesto descritto, sarebbe stato agevole incidere anche sulla fonte della sanzione di nullità del contratto intervenendo o sul binomio normativo che la prevede (art. 6, comma 4, e art. 15, comma 9, d.lgs. n. 192 del 2005) o sulla stessa norma transitoria (art. 11, comma 1bis , d lgs. n. 192 del 2005).
3.4. D’altro canto, mette conto di rilevare che l’espressione « l’attestato di certificazione energetica degli edifici è sostituito a tutti gli effetti dall’attestato di qualificazione energetica », là dove dispone
la sostituzione « a tutti gli effetti », secondo la letteralità dell’espressione, riferendosi agli effetti della certificazione sostituita, allude chiaramente agli effetti che l’ordinamento in thesi (cioè potenzialmente, data la mancanza di normativa attuativa di quella figura) avrebbe ricollegato a detta certificazione, nel senso del valore certificatorio sul piano energetico. Il disposto del comma 4 del citato art. 6, proclamante nel testo originario la nullità del contratto locativo carente della sua allegazione, non poteva intendersi come un effetto diretto dell’efficacia della certificazione, trattandosi, invece, di una conseguenza ricollegata a detta allegazione e, dunque, ad un quid del tutto estraneo a detta efficacia, individuato da una norma diversa da quella regolante la stessa. Inoltre e sempre sul piano dell’esegesi letterale, l’espressione « a tutti gli effetti » sottende un quid in senso positivo, cioè un effetto ricollegato alla presenza della certificazione e non estensibile alla sua mancanza. Sicché, anche per questo la previsione normativa di cui si discorre non poteva contemplare la previsione, tanto più come s’è detto – anche ridimensionata, del comma 4.
Con il quarto motivo di ricorso si lamenta, in relazione all’art. 360, comma primo, num. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 1423 cod. civ. in relazione agli artt. 11 e 15 delle disposizioni sulla legge in generale.
Rileva la società ricorrente che, nel momento in cui la Corte triestina ha affermato che la nullità originaria del contratto di locazione del 14 marzo 2008 era stata sanata dalla normativa successiva, essa avrebbe sostanzialmente ammesso la sanatoria di un contratto nullo, ciò che l’art. 1423 cod. civ. tassativamente vieta. La sanatoria derivante dall’abrogazione dell’art. 15, comma 9, del d.lgs. n. 192 del 2005 non potrebbe operare che per l’avvenire, cioè a partire dal 22 agosto 2008 (data di entrata in vigore della legge n.
133 del 2008); di talché la Corte d’appello avrebbe attribuito alla modifica una portata retroattiva che è da escludere.
Rispetto a tale nullità, ancora esistente alla data del 1° agosto 2008, sarebbe irrilevante, secondo la ricorrente, la sanatoria disposta dall’art. 1, comma 8, del decreto -legge 23 dicembre 2013, n. 145, convertito, con modifiche, nella legge 21 febbraio 2014, n. 9.
La sanatoria, avente ad oggetto soltanto l’Attestato di prestazione energetica (APE), introdotto nel 2013, degradando la nullità ad illecito amministrativo, ha previsto una sorta di convalida a richiesta. La norma, quindi, poteva riguardare soltanto i nuovi contratti di locazione, stipulati nella vigenza dell’art. 6, comma 3 -bis , del d.lgs. n. 192 del 2005.
La legge n. 133 del 2008, invece, relativa al caso odierno, non ha, secondo la società ricorrente, disposto alcuna sanatoria per le nullità venute a determinarsi nella vigenza della norma poi abrogata.
Ne consegue che il Tribunale e la Corte d’appello, secondo la ricorrente, interpretando in modo errato la successione di leggi nel tempo, avrebbero attribuito alla legge n. 133 del 2008 -che si limita ad abrogare per il futuro la sanzione di nullità di cui all’art. 15, comma 9, del d.lgs. n. 192 del 2005 -un « effetto retroattivo e sanante valevole per quei contratti -nulli -stipulati nella validità del previgente disposto ».
Non sarebbe corretto, quindi, ipotizzare un’equivalenza tra l’APE e l’ACE; e da tanto conseguirebbe che i contratti perfezionati prima del 22 agosto 2008 erano e rimangono nulli, non essendo per loro ammissibile alcuna convalida in difetto di un’espressa previsione legislativa.
Conseguenza necessitata, quindi, sarebbe la nullità del primo contratto con conseguente nullità anche del secondo. Anche ipotizzando, come fa la Corte d’appello, infatti, la diversità dei due contratti, ricorrerebbe, secondo la ricorrente, un caso di novazione
oggettiva « che, per l’essersi innestata su di un contratto nullo è a sua volta inefficace ».
La conclusione del ragionamento è che, comunque vada, anche il contratto del 1° agosto 2012 sarebbe nullo.
4.1. Il motivo è inammissibile.
Quanto argomentato dalla Corte triestina circa l’ipotesi della sanatoria per effetto della normativa sopravvenuta costituisce una motivazione aggiuntiva, che, una volta consolidatasi quella criticata con il terzo motivo (ossia, una volta esclusa l’ipotizzata nullità per violazione dell’art. 6 , comma 4, d. lgs. n. 192 del 2005 perché disposizione non operante nel periodo in questione in mancanza delle norme di attuazione e non incisa, per le ragioni dette, dalla norma transitoria di cui all’art. 11, comma 1 -bis , d. lgs. cit.) rimane inutile e, dunque, non censurabile.
Varrà soggiungere che, per le considerazioni sopra esposte nello scrutinio del terzo motivo, deve concludersi che il 22 agosto 2008, data di entrata in vigore del comma 2bis dell’art. 35 d.l. 25 giugno 2008, n. 112 (comma aggiunto dalla legge di conversione 6 agosto 2008, n. 133 ), che ha abrogato (tra gli altri) l’art. 6, comma 4, e l’art. 15, comma 9, del d.lgs. n. 192 del 2005, tali norme -che, come s’è detto, costituiscono la fonte della nullità testuale infondatamente evocata nella fattispecie -non avevano ancora potuto trovare applicazione in mancanza della normativa regolamentare integrativa che ne costituiva presupposto imprescindibile (normativa poi emanata, come ricordano i giudici a quibus , solo a cominciare dal 2009).
Ne deriva che detta norma abrogatrice, lungi dal potersi considerare quale sopravvenuta sanatoria di precedenti nullità eventualmente verificatesi (tesi in effetti incompatibile con il sistema civilistico delle nullità negoziali e con il principio di irretroattività della legge, in mancanza di espressa diversa disposizione), ha
semplicemente avuto l’effetto di eliminare per il futur o una previsione di nullità che solo in futuro, per l’appunto, avrebbe potuto trovare eventuale applicazione ma non ancora al momento della entrata in vigore della norma abrogatrice.
È poi del tutto eccentrico ogni riferimento -per trarne argomento a contrario a supporto alla tesi della nullità del contratto de quo -all’art. 1, comma 8, del decreto -legge 23 dicembre 2013, n. 145, convertito, con modifiche, nella legge 21 febbraio 2014, n. 9 (a mente del quale « su richiesta di almeno una delle parti o di un suo avente causa, la stessa sanzione amministrativa di cui al comma 3 dell’articolo 6 del decreto legislativo n. 192 del 2005 si applica altresì ai richiedenti, in luogo di quella della nullità del contratto anteriormente prevista, per le violazioni del previgente comma 3-bis dello stesso articolo 6 commesse anteriormente all’entrata in vigore del presente decreto, purché la nullità del contratto non sia già stata dichiarata con sentenza passata in giudicato »).
Tale norma fa infatti riferimento a un quadro normativo -la cui prima fonte è costituita dal d.l. 4 giugno 2013, n. 63 (recante « Modificazioni al decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 192, in materia di attestato di prestazione energetica, rilascio e affissione ») e che è quindi di molto successivo a quello che nella specie trova applicazione -nel quale l’Attestato di Certificazione Energetica (ACE) non era più previsto ed al suo posto era stato introdotto l’Attestato di Prestazione Energetica (APE) , prevedendosi per esso l’obbligo di allegazione ai « nuovi contratti di locazione », obbligo sanzionato: a) in un primo tempo con la sanzione di nullità del contratto (art. 6, comma 3bis , d.lgs. n. 192 del 2005, aggiunto in sede di conversione del d.l. n. 63 del 2013, in vigore dal 4 agosto 2013 al 23 dicembre 2013); b) quindi con la sola sanzione amministrativa pecuniaria (art. 6, comma 3, d.lgs. n. 192 del 2005, come modificato dal d.l. 23
dicembre 2013, n. 145, in vigore dal 24 dicembre 2013 al 21 febbraio 2014).
Evidentemente la citata norma transitoria non poteva che far riferimento alla sola sanzione di nullità per la mancata allegazione del Certificato di Prestazione Energetica (APE) ed al limitato periodo in cui essa ha potuto trovare applicazione, e non certo all’Attestato di Certificazione Energetica (ACE), a quella data ormai eliminato dalla realtà giuridica, né tanto meno alla nullità conseguente alla sua mancata consegna o messa a disposizione del conduttore, come detto già da diversi anni prima ormai non più operante, né di fatto, per quanto detto, mai operativa.
Con il quinto motivo di ricorso si lamenta, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 cod. civ. in tema di interpretazione contrattuale.
La censura ha ad oggetto la sentenza nella parte in cui ha sostenuto la diversità tra i due contratti stipulati dalle parti. Tale esegesi sarebbe in contrasto col dato testuale e non avrebbe preso in considerazione l’effettiva volontà delle parti. A dimostrazione dell’identità vi sarebbero, infatti, una serie di elementi: la sostanziale identità delle parti, l’identità del contenuto del contratto, l’inesistenza di una cesura temporale tra il primo e il secondo contratto e l’espressa ammissione, da parte della società RAGIONE_SOCIALE in ordine alla qualificazione del secondo contratto come mero aggiornamento del primo. Non potrebbe sostenersi, in definitiva, che il secondo contratto sia cosa diversa dal primo.
5.1. Il motivo è inammissibile.
Si prospetta con esso, in termini meramente oppositivi rispetto alla valutazione svolta dalla Corte di merito, una diversa interpretazione del secondo contratto come diretto, in tesi, a operare un mero aggiornamento del precedente in relazione ad alcuni aspetti
e senza effetti novativi.
Il convincimento al riguardo espresso in sentenza risulta adeguatamente motivato e la Corte territoriale non omette di considerare la gran parte degli elementi fattuali su cui parte ricorrente torna a far leva in favore di una opposta conclusione, non potendo considerarsi quelli invece non considerati (quali in particolare l’identità dei soggetti) di rilievo decisivo in tal senso.
La censura si risolve, dunque, nella prospettazione di questioni di merito, comunque eccedenti dai limiti in cui al riguardo ne è consentita la deduzione: in ultima analisi nella mera assertiva contrapposizione di un esito diverso dell’attività esegetica riservata al giudice del merito e legittimamente nella specie compiuta.
Con il sesto motivo di ricorso si lamenta, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 27 e 28 della legge 27 luglio 1978, n. 392, e dell’art. 115 cod. proc. civ., anche in relazione all’art. 1375 cod. civ. e al principio di buona fede.
6.1. Osserva la ricorrente che la Corte d’appello avrebbe affermato sia che i sopravvenuti motivi di recesso non erano validi sia che quei motivi erano comunque noti già prima del 31 gennaio 2018, ultima data utile entro la quale la società conduttrice avrebbe potuto comunicare la disdetta del contratto stesso. Tale ragionamento sarebbe in contrasto con l’art. 115 cit., perché la società RAGIONE_SOCIALE non aveva contestato l’esistenza degli elementi che la società RAGIONE_SOCIALE aveva posto a fondamento del recesso; ne consegue che la Corte d’appello avrebbe dovuto limitare il proprio sindacato alla rilevanza di quei fatti. La società RAGIONE_SOCIALE in altri termini, avrebbe dato pieno riconoscimento ai fatti indicati dalla controparte, per cui il sindacato compiuto dalla Corte di merito sarebbe avvenuto in violazione del principio di non contestazione.
6.2. Vi sarebbe, poi, un ulteriore vizio della sentenza: essa, equiparando la facoltà di recesso di cui all’art. 27 della legge n. 392 del 1978 a quella di disdetta prevista dall’art. 28 della stessa legge, avrebbe interpretato in modo scorretto la giurisprudenza di legittimità. La facoltà di recesso di cui all’art. 27, infatti, sopravvive a quella di disdetta, trattandosi di due poteri «ontologicamente diversi» per volontà del legislatore; e in concreto ciò significa che il diritto di recesso per gravi motivi continua a sussistere anche quando essi sono emersi «a ridosso del termine ultimo per disdettare, ai sensi dell’art. 28 della legge n. 392 del 1978, il contratto di locazione». Interpretando detta normativa alla luce del principio di buona fede contrattuale, ne deriva che il conduttore, avendo a disposizione due diversi poteri, non può scegliere di esercitare quello che arreca al locatore il maggior danno. La sentenza, quindi, sarebbe incorsa nell’errore di utilizzare l’assioma secondo cui il mancato esercizio del potere di disdetta equivale alla rinuncia a far valere il diritto di recesso.
La prima delle due censure svolte con il motivo è inammissibile, restando conseguentemente assorbito l’esame della seconda.
La Corte d’appello ha esaminato a fondo i motivi di recesso e li ha ritenuti ingiustificati.
Ha richiamato correttamente i connotati di questi motivi (sopravvenuti, imprevisti, estranei alla volontà).
Anche in tal caso gli argomenti rivelano una consistenza prettamente meritale e oppositiva, che li rende inidonei a costituire ammissibile strumento di critica cassatoria.
In particolare, il riferimento alla acquisizione in giudizio dei fatti dedotti a fondamento del recesso in conseguenza della loro non contestazione da parte della locatrice, di cui aveva già dato atto il giudice di primo grado, è del tutto inconferente, dal momento che la
decisione della Corte è fondata non già su un giudizio di mancata dimostrazione di tali fatti quanto sulla valutazione giuridica di inidoneità degli stessi a costituire valido motivo di recesso, oltre che sulla emergenza, anche per ammissione della stessa appellante, di circostanze di segno opposto.
Con il settimo motivo di ricorso si lamenta, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5), cod. proc. civ., omesso esame di un fatto decisivo.
Lamenta la ricorrente che la Corte d’appello, per obliterare la sussistenza dei gravi motivi di recesso di cui all’art. 27 della legge n. 392 del 1978, abbia affermato che non era stata dedotta e provata dall’appellante la sopravvenienza di circostanze eccezionali, impreviste e imprevedibili, rispetto alla scadenza del termine per la disdetta di cui all’art. 28 della legge citata. Obietta che fin dal primo grado essa aveva indicato una serie di ragioni sopravvenute e giustificative del recesso, che la Corte d’appello non avrebbe valutato e che, se fossero state considerate, avrebbero condotto ad una diversa decisione.
8.1. La censura investe, questa volta per ragioni in facto , la seconda delle autonome rationes decidendi addotte in sentenza per negare la legittimità del recesso.
Anch’essa, pertanto, rimane assorbita dal rigetto della prima censura del sesto motivo, per effetto del quale la sentenza impugnata rimane comunque sul punto pienamente giustificata dal rilievo assorbente delle inidoneità delle circostanze dedotte a costituire valido motivo di recesso ex art. 27 l. n. 392 del 1978.
Con l’unico motivo d el ricorso incidentale si lamenta, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 96 cod. proc. civ., per avere la Corte d’appello ingiustamente respinto il motivo di appello volto ad ottenere
la condanna di controparte al risarcimento dei danni derivanti dalla temerarietà della lite.
La società RAGIONE_SOCIALE rileva che la pretesa avanzata dalla società RAGIONE_SOCIALE di ottenere la restituzione delle somme corrisposte alla società RAGIONE_SOCIALE a titolo di canoni d’affitto, pur avendo ininterrottamente occupato ed usufruito dell’immobile dall’agosto 2008, si caratterizza per la sua temerarietà, e per tale ragione avrebbe dovuto essere sanzionata in modo adeguato.
9.1. Il motivo è infondato.
La decisione della Corte d’appello, sebbene del tutto immotivata, si rivela in iure corretta non potendosi ravvisare, specie in considerazione delle questioni poste con il primo motivo dell’appello principale (in questa sede riproposte con il terzo e quarto motivo di ricorso), i presupposti per la invocata sanzione processuale.
Con l’unico motivo di ricorso incidentale condizionato l a società RAGIONE_SOCIALEdopo aver ricordato che la sentenza impugnata ha stabilito che il rigetto dei motivi dell’appello principale comportava l’assorbimento di ogni questione proposta con l’appello incidentale condizionato -rileva che, nella non creduta ipotesi di accoglimento del ricorso principale, dovranno ritenersi come riproposte tutte le domanda avanzate con l’appello incidentale; e fra queste, soprattutto, quella di pagamento dell’indennità da occupazione illegittima per tutto il periodo di durata del primo contratto di locazione oggetto di causa.
10.1. Il motivo rimane assorbito dal rigetto di tutti i motivi del ricorso principale.
In caso contrario, peraltro, avrebbe dovuto dirsi inammissibile, essendo noto che per le domande o eccezioni non esaminate, o ritenute assorbite dal giudice di merito, non è ammissibile il ricorso incidentale condizionato, in quanto sul punto non è stata pronunciata alcuna decisione, sicché l’eventuale accoglimento del ricorso
principale comporta pur sempre la possibilità di riesame nel giudizio di rinvio di dette domande o eccezioni (v. ex plurimis Cass. n. 29662 del 2023; n. 22095 del 2017; n. 3796 del 2008; n. 1691 del 2006).
11. Sia il ricorso principale che quello incidentale devono dunque, in definitiva, essere rigettati, mentre quello incidentale condizionato deve essere dichiarato assorbito.
La reciproca soccombenza giustifica l’integrale compensazione delle spese del presente giudizio di legittimità
Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale e di quella incidentale , ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , d.P .R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1 -bis dello stesso art. 13.
P.Q.M.
rigetta il ricorso principale e quello incidentale; dichiara assorbito il ricorso incidentale condizionato.
Compensa per intero tra le parti le spese processuali.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 -quater del d.P .R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale e di quella incidentale , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per i rispettivi ricorsi, a norma del comma 1bis , dello stesso articolo 13.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza