Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 9439 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 9439 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 10/04/2025
Oggetto: Preliminare di vendita – Recesso e incameramento caparra – Valutazione inadempimenti.
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 20875/2020 R.G. proposto da
SOCIETA’ RAGIONE_SOCIALE rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME ed elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME.
– ricorrente –
contro
COGNOME NOMECOGNOME rappresentata e difesa dagli avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME ed elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME
-controricorrente –
COGNOME
-intimati – avverso la sentenza n. 5552/2019, pubblicata il 19/11/2019 e non notificata;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 26 marzo 2025 dalla dott.ssa NOME COGNOME
Rilevato che:
1. Con citazione notificata il 11/04/2008, la società RAGIONE_SOCIALE premesso che, in data 29/05/2006, aveva compromesso in acquisto, da NOME COGNOME e NOME COGNOME, un complesso immobiliare costituito da un terreno agricolo di circa mq. 32.575 e da due fabbricati con annessa area scoperta, sito in Santa Maria a Vico, al prezzo di euro 2.000.000,00, versando una caparra confirmatoria di euro 400.000,00 e stabilendo la data del 29/08/2007 per la stipula del contratto definitivo, che, acquisito il certificato di destinazione urbanistica, aveva scoperto che gli immobili insistenti sul terreno presentavano difformità edilizie e che i promittenti venditori, ancorché invitati alla loro eliminazione, l’avevano diffidata alla stipula del contratto definitivo nel termine concordato e, data l’impossibilità di provvedervi, avevano comunicato la sua avvenuta risoluzione con raccomandata del 22/12/2007, convenne in giudizio, davanti al Tribunale di Napoli, i predetti perché fosse accertato il loro grave inadempimento rispetto agli obblighi assunti e perché venisse di conseguenza dichiarata la risoluzione del contratto, con loro condanna alla restituzione della caparra confirmatoria percepita, al risarcimento del danno per lucro cessante e al rimborso delle spese sostenute. Costituitisi in giudizio, NOME e NOME COGNOME contestarono le avverse pretese, evidenziando che la società, che, in sede di stipula del preliminare, aveva dichiarato di essere ben consapevole dello stato di fatto e di diritto dell’immobile e degli strumenti urbanistici, si era resa inadempiente al pagamento dell’ultima tranche di caparra confirmatoria, pattuita nella misura complessiva di euro 600.000,00, sì da indurli a recedere dal contratto, e chiesero di chiamare in causa l’arch. NOME COGNOME incaricato da essi del reperimento di un acquirente dei terreni al prezzo di euro 2 milioni, dietro pagamento di un compenso, e dalla stessa società affinché si
occupasse anche di tutte le pratiche amministrative e di progettazione del piano di lottizzazione sul fondo compromesso, ritenendolo unico responsabile nei confronti di entrambe le parti per non avere rappresentato la presenza di strutture abusive idonee a ostacolare la stipula della compravendita, onde ottenere la restituzione del compenso ricevuto per avere questi svolto attività di mediazione senza possedere il titolo abilitativo.
Costituitosi in giudizio, NOME COGNOME eccepì la propria carenza di legittimazione, posto che, in ragione della procura conferita dai promittenti venditori alla società, soltanto quest’ultima avrebbe potuto attivarsi per ottenere le necessarie autorizzazioni amministrative, dedusse di non aver potuto accedere agli immobili prima della sottoscrizione del preliminare e di non aver potuto perciò accertare – se non in epoca successiva – l’esistenza di manufatti abusivi, e chiese, in via riconvenzionale, la condanna dei chiamanti al pagamento del compenso pattuito e al risarcimento del danno.
Con sentenza n. 9518/2015, pubblicata il 30/6/2015, il Tribunale di Napoli rigettò la domanda proposta dalla società e, in accoglimento della domanda spiegata dai convenuti COGNOME, dichiarò la legittimità del recesso da essi esercitato e di conseguenza dell’incameramento della caparra ricevuta, rigettando, invece, la domanda proposta da NOME COGNOME nei confronti della società.
Il giudizio di gravame, instaurato dalla RAGIONE_SOCIALE, si concluse, nella resistenza sia di NOME e NOME COGNOME sia di NOME COGNOME che proposero anche appello incidentale, con la sentenza n. 5552/2019, pubblicata il 19/11/2019, con la quale la Corte d’Appello di Napoli rigettò l’appello principale, condannando la società al pagamento delle spese del grado in
favore dei COGNOME e compensando quelle tra la medesima società e NOME COGNOME.
Contro la predetta sentenza, la Societa’ RAGIONE_SOCIALE propone ricorso per cassazione, affidato a sei motivi, illustrati anche con memoria. COGNOME NOME si difende con controricorso, mentre COGNOME NOME e COGNOME NOME sono rimasti intimati.
Considerato che :
Con il primo motivo di ricorso, si lamenta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1362, 1363, 1364, 1366 e 1369 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.; la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1490 e 1341 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.; la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 132, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., per mancata esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione error in procedendo , perché i giudici di merito, con motivazione inesistente o meramente apparente e assolutamente inadeguata, avevano ritenuto di confermare la sentenza di primo grado di rigetto della domanda di inadempimento contrattuale dei promittenti venditori e la declaratoria di legittimità del recesso dal contratto preliminare da essi operato, fondando la decisione su un’errata interpretazione della clausola contenuta al capo 2) del contratto preliminare di vendita, allorché avevano affermato che la società era a conoscenza della presenza sul fondo compromesso di fabbricati abusivi, come risultante dalle stesse dichiarazioni contenute nel contratto preliminare su consistenza, ubicazione e caratteristiche degli stessi e su strumenti urbanistici vigenti.
Peraltro, se le parti avessero convenuto di limitare la garanzia per i vizi del bene compromesso, tale dovendosi considerare la
dichiarazione di conoscenza dello stato di fatto e di diritto dell’immobile, la relativa clausola, comunemente detta ‘vista e piaciuta’, avrebbe dovuto comunque essere approvata per iscritto con doppia sottoscrizione ex art. 1341 cod. civ. in quanto vessatoria.
2. Con il secondo motivo di ricorso, si lamenta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1362 e ss. cod. civ., 1387 e ss. cod. civ., 1453, 1460, 1463 e ss. e 1469 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.; la violazione dell’art. 2697 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.; la violazione e falsa applicazione dell’art. 111, sesto comma, Cost. e 132, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ.; error in procedendo , perché i giudici di merito, con motivazione meramente apparente e comunque inadeguata, avevano ritenuto che il mancato adempimento nei termini pattuiti, da parte della promissaria acquirente, delle obbligazioni assunte, non potesse trovare giustificazione nella presenza di manufatti abusivi sul fondo compromesso, in quanto detta situazione era presumibilmente da essa già conosciuta, e che questa si fosse assunta l’onere di richiedere il certificato di destinazione urbanistica e ogni altra documentazione necessaria per il trasferimento degli immobili, agevolata, in questo, dalla procura speciale che le sarebbe stata rilasciata all’uopo dai promittenti venditori. La ricorrente ha, sul punto, obiettato che la clausola contrattuale non attribuiva alla promissaria acquirente l’onere di procedere alla demolizione dei fabbricati abusivi e di richiedere alla P.A. il certificato di destinazione urbanistica e ogni altro documento necessario ai fini del trasferimento del bene, né le era stata conferita alcuna procura per l’istruzione delle pratiche necessarie presso le diverse autorità, né esonerava i promittenti venditori dal provare la sussistenza dei
presupposti per la commerciabilità del bene, ma stabiliva soltanto che le spese del preliminare, dell’atto pubblico e della documentazione necessaria ai fini del trasferimento sarebbero state a carico della promissaria acquirente, mentre la procura da rilasciare aveva la finalità di anticipare i tempi per l’utilizzazione edificatoria, prevedendo una mera facoltà di acquisire la documentazione e non un obbligo, che gravava invece sui promittenti venditori, tenuti altresì a regolarizzare urbanisticamente l’immobile al fine di evitarne la incommerciabilità. Infine, il soggetto giuridico cui era stata rilasciata la procura era diverso dal soggetto giuridico acquirente.
3. Con il terzo motivo di ricorso, si lamenta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 30 e 46 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.; la violazione degli artt. 1256, 1346, 1385, 1453, 1455, 1460, 1476 n. 3 e 1490 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.; la violazione e falsa applicazione dell’art. 111, sesto comma, Cost. e l’art. 132, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., error in procedendo , perché i giudici di merito, con motivazione meramente apparente e, comunque, assolutamente inadeguata, avevano ritenuto sussistente l’inadempimento della promissaria acquirente nelle obbligazioni contrattuali assunte, nonostante l’impossibilità giuridica del trasferimento dei beni promessi in vendita, sia per l’esistenza di manufatti abusivi sul fondo compromesso, sia per la mancanza della certificazione attestante la regolarità urbanistica dei due fabbricati compromessi, sia per la mancanza del certificato di destinazione urbanistica del terreno oggetto della progettata vendita, richiesta dalle citate norme del Testo Unico per l’Edilizia a pena di nullità dell’atto anche per il preliminare di vendita.
Con il quarto motivo di ricorso, si lamenta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 30 e 46 d.P.R. n. 380 del 2001 e degli artt. 1346, 1351, 1362, 1363, 1385, 1418, 1453, 1455, 1460, 1469 e 1477, terzo comma, cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., perché la Corte d’Appello aveva ritenuto sussistere l’inadempimento della promissaria acquirente e aveva, conseguentemente, reputato legittimo il recesso operato dai promittenti venditori, nonostante l’illiceità e l’incommerciabilità, ai sensi del Testo Unico dell’Edilizia, dei beni promessi in vendita, atta a viziare la validità del preliminare di vendita. Ad avviso della ricorrente, infatti, la mancanza della documentazione urbanistica necessaria per il trasferimento precludeva la stipulazione del definitivo, legittimandola a richiedere la restituzione della caparra versata a causa del grave inadempimento dei promittenti venditori sia nella rimozione degli abusi edilizi, sia nella produzione della predetta documentazione, di cui non erano ancora in possesso alla data della stipula del definitivo, trattandosi di situazione idonea ad alterare in modo significativo il sinallagma contrattuale.
Il terzo e quarto motivo, da trattare per primi per motivi di priorità logica e congiuntamente in quanto afferenti alla medesima questione della rilevanza dell’irregolarità urbanistica dei beni ai fini della validità del contratto, sono infondati.
La ricorrente non tiene, infatti, conto degli ultimi arresti giurisprudenziali di questa Corte con riguardo al negozio di trasferimento di proprietà immobiliare, allorché ha affermato, a Sezioni Unite, che la nullità comminata dall’art. 46 del d.P.R. n. 380 del 2001 e dagli artt. 17 e 40 della legge n. 47 del 1985 va ricondotta nell’ambito del comma terzo dell’art 1418 cod. civ., di cui costituisce una specifica declinazione, e deve qualificarsi come nullità “testuale”, con tale espressione dovendo intendersi, in stretta adesione al dato normativo, un’unica fattispecie di nullità
che colpisce gli atti tra vivi ad effetti reali elencati nelle norme che la prevedono, volta a sanzionare la mancata inclusione in detti atti degli estremi del titolo abilitativo dell’immobile, titolo che, tuttavia, deve esistere realmente e deve esser riferibile, proprio, a quell’immobile, sicché, in presenza nell’atto della dichiarazione dell’alienante degli estremi del titolo urbanistico, reale e riferibile all’immobile, il contratto è valido a prescindere dal profilo della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo menzionato (Cass., Sez. U, 22/3/2019, n. 8230).
L’affermata irrilevanza, ai fini della sussistenza del vizio genetico del contratto, della conformità o meno della costruzione al titolo menzionato, valevole, come detto, nel contratto ad effetti reali, non può che ridondare, a maggior ragione, nel contratto ad effetti obbligatori, quale il contratto preliminare di compravendita immobiliare, per la cui esistenza non è richiesta neppure la dichiarazione del promittente alienante degli estremi del titolo urbanistico, la quale può anche sopravvenire all’atto ed essere prodotta in giudizio, ove si intenda ottenere con esso la sentenza di trasferimento coattivo del bene ai sensi dell’art. 2932 cod. civ. (Cass., Sez. 3, 15/1/2020, n. 538).
Come chiaramente affermato da questa Corte, anche di recente, infatti, in ipotesi di compravendita di costruzione realizzata in difformità della licenza edilizia, non è ravvisabile un vizio della cosa, non vertendosi in tema di anomalie strutturali del bene, ma trova applicazione l’art. 1489 cod. civ., in materia di oneri e diritti altrui gravanti sulla cosa medesima, sempre che detta difformità non sia stata dichiarata nel contratto o, comunque, non sia conosciuta dal compratore al tempo dell’acquisto (Cass., Sez. 2, 28/9/2023, n. 27559; Cass., Sez. 2, 28/2/2007, n. 4786; Cass., Sez. 2, 23/10/1991, n. 11218).
In sostanza, esclusa l’incidenza della difformità edilizia sulla validità del contratto e affermata la sussunzione della non conformità del bene a norme urbanistiche nel vizio di cui all’art. 1489 cod. civ., è a questa disposizione che occorre fare riferimento onde stabilirne l’applicabilità alla specie, tenendo però conto del fatto che l’operatività di siffatta garanzia per gli oneri reali o personali gravanti sulla cosa venduta, applicabile in via analogica anche al contratto preliminare di compravendita (Cass., Sez. 2, 4/10/2004, n. 19812), è vincolata al duplice accertamento della mancata conoscenza del vizio da parte dell’acquirente e della sua incidenza sulla fruibilità e sul valore del bene compravenduto.
Quanto al primo punto, il giudice, oltre alla persistenza del potere repressivo della P.A. (adozione di sanzione pecuniaria o di ordine di demolizione), è tenuto ad accertare se il vizio non sia stato dichiarato nel contratto oppure se di questo non ne sia a conoscenza il compratore al momento dell’acquisto (Cass., Sez. 2, 6/12/1984, n. 6399; Cass., Sez. 2, 23/10/1991, n. 11218; Cass., Sez. 2, 28/2/2007, n. 4786; Cass., Sez. 2, 28/11/2014, n. 25357). Questo accertamento è stato compiuto dalla Corte d’Appello, allorché ha ritenuto che la promissaria acquirente fosse perfettamente a conoscenza, già al momento della conclusione del preliminare, delle difformità edilizie riscontrate sui beni compromessi, sia in quanto lo aveva espressamente detto nell’atto, sia in quanto ne era comunque venuta a conoscenza prima di allora grazie all’incarico conferito per il recupero di aree edificabili all’arch. COGNOME, sia in quanto aveva ricevuto una procura speciale da parte dei promittenti venditori perché desse avvio anzitempo alle pratiche edilizie per l’edificazione, sicché la censura, ancorché prospettata in termini di violazione e/o falsa applicazione di legge, non fa altro che sollecitare una diversa ricostruzione della vicenda fattuale, la quale è preclusa a questa Corte di legittimità,
costituendo la valutazione delle prove raccolte attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito (Cass., Sez. 1, 3/7/2023, n. 18857; Cass. 19/07/2021, n. 20553; Cass. 29/10/2018, n. 27415).
Quanto al secondo punto, questa Corte ha già affermato che, perché operi la garanzia di cui all’art. 1489 cod. civ., è altrettanto necessario valutare la natura e l’intensità degli oneri e dei diritti del terzo sulla cosa, e cioè controllare se essi incidano sulla stessa nel modo o nella misura richiesti dalla norma citata, risolvendosi in una limitazione del libero godimento della cosa medesima o, quanto meno, in una diminuzione del suo valore (vedi sul punto Cass., Sez. 2, 27/4/1982, n. 2620, che ha ritenuto corretta la decisione impugnata di rigetto della domanda di risoluzione del preliminare di vendita di uno stabile, trattandosi di costruzione pienamente conforme agli strumenti urbanistici vigenti in loco ed avente solo una difformità, rispetto alle prescrizioni della licenza edilizia, di entità trascurabile, puramente formale ed agevolmente risolvibile in via amministrativa, quanto meno con una sanatoria, con conseguente insussistenza di limitazioni del godimento del bene o di una diminuzione del suo valore), tanto da determinare il deprezzamento o la minore commerciabilità dell’immobile, condizioni queste in assenza delle quali non è possibile riconoscere all’acquirente la facoltà di chiedere la risoluzione del contratto o la riduzione del prezzo (Cass., Sez. 2, 6/12/1984, n. 6399; Cass., Sez. 2, 23/10/1991, n. 11218; Cass., Sez. 2, 28/2/2007, n. 4786; Cass., Sez. 2, 28/11/2014, n. 25357).
Proprio nello specifico ambito urbanistico, soccorrono, al riguardo, le teorie che si sono avvicendate quando ancora si discorreva di nullità urbanistiche, allorché si distingueva tra abusi c.d. maggiori (perché consistenti nella costruzione dal nulla di un intero edificio oppure, nella realizzazione, su un edificio preesistente, di una parte
autonoma del tutto nuova e suscettibile di essere commercializzata autonomamente dalla restante parte e non come porzione inscindibile perché pertinenza, senza il titolo abilitativo, oppure nell’esecuzione dell’opera in totale difformità dal titolo edilizio) e abusi c.d. minori (perché riguardanti opere soggette ad autorizzazione edilizia, titolo abilitativo in sanatoria relativo ad abusi minori o D.I.A., tranne che per alcune tipologie di manufatti, o, in genere, opere poste in condizione di ‘ tollerabilità urbanistica’ ), onde escludere solo questi ultimi dall’alveo del vizio genetico del contratto.
Tale distinzione costituisce infatti un elemento di discrimine anche ora che le violazioni urbanistiche vengono sussunte nell’ambito dell’art. 1489 cod. civ., in quanto consentono di verificare di volta in volta se sia integrato l’elemento oggettivo del deprezzamento o della minore commerciabilità dell’immobile prescritto da tale disposizione.
Questo aspetto è stato affrontato anche nel caso di specie, allorché la Corte d’Appello ha ritenuto marginale l’incidenza economica del costo di demolizione dei manufatti abusivi, consistenti in alcune serre e fabbricati fatiscenti, rispetto al realizzando intervento edilizio sul fondo compromesso in vendita, comprendente cinque villini a schiera, una palazzina, servizi, parcheggi e zone verdi, oltre a osservare che la società, una volta attivatasi con la presentazione della DIA per la demolizione delle opere abusive, in data 29/10/2007, avesse ottenuto dal Comune di Santa Maria a Vico l’approvazione del piano di lottizzazione, senza che la questione, che pure costituisce autonoma ratio decidendi , in sé sufficiente a fondare la decisione, sia stata in alcun modo sindacata nella censura.
L’ampia articolazione delle argomentazioni proposte nella sentenza, come sopra riportate, consente, peraltro, di escludere la dedotta nullità per difetto di motivazione.
Infatti, va, sul punto, osservato come la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, debba essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (tra le varie, Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014 Rv. 629830). Scendendo più nel dettaglio sull’analisi del vizio di motivazione apparente, la costante giurisprudenza di legittimità ritiene che il vizio ricorra quando la motivazione, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (v. da ultimo, Cass., Sez. U, 30/1/2023, n. 2767; vedi anche, tra le tante, Sez. U, Sentenza n. 22232 del 03/11/2016 Rv. 641526; Sez. U, Sentenza n. 16599 del
2016; Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 6758 del 01/03/2022 Rv. 664061; Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 13977 del 23/05/2019 Rv. 654145).
6.1 Il primo motivo è parimenti infondato.
Quanto al difetto di motivazione, deve escludersi la sussistenza della violazione del c.d. minimo costituzionale, posto a fondamento dei principi ricordati nel precedente punto 5, avendo i giudici di merito dato ampiamente conto delle ragioni per le quali hanno rigettato le domande proposte dall’appellante, così da rendere una motivazione immune dai vizi lamentati.
Come si legge nella sentenza impugnata, infatti, la Corte d’Appello ha fondato la decisione ritenendo, per un verso, che non fosse ravvisabile alcun inadempimento in capo ai promittenti venditori, in quanto la promissaria acquirente era consapevole, fin da prima della stipulazione del preliminare, dell’irregolarità urbanistica degli immobili insistenti sul fondo compromesso in vendita, e in quanto gli abusi riscontrati erano marginali rispetto alla complessiva operazione edilizia da realizzare, e, per altro verso, che i promittenti venditori avessero legittimamente esercitato il recesso dal contratto, non avendo la loro controparte rispettato i termini essenziali fissati per il pagamento della quarta tranche di caparra e per la stipula del definitivo di vendita.
Quanto al primo punto (esclusione dell’inadempimento dei promittenti venditori), detto convincimento è stato tratto principalmente dai contenuti dello stesso contratto preliminare del 26/6/2006 (ossia dalle dichiarazioni confessorie della società promissaria acquirente sulla conoscenza dello stato di fatto e di diritto dei beni compromessi in vendita; dall’onere assunto di addivenire in tempi brevi alla realizzazione del progetto edificatorio sui fondi compromessi in vendita, tra cui il certificato di destinazione urbanistica e la documentazione necessaria al trasferimento del bene, come dimostrato anche dalla previsione di
un termine lungo di quindici mesi per addivenire al rogito di vendita; dall’assunzione del rischio connesso al rilascio dei provvedimenti amministrativi e dell’onere di spesa relativo all’edificazione del fondo; dall’assunzione dell’obbligo di stipulare il definitivo anche in caso di mancato ottenimento delle concessioni prima del termine fissato per la stipula; dalla procura speciale rilasciata dai promittenti venditori per l’istruzione delle pratiche necessarie davanti all’autorità), ma anche da altri fattori di carattere logico-presuntivo, avendo i giudici di merito affermato che la società non poteva essere venuta a conoscenza degli abusi edilizi soltanto in occasione del rilascio del certificato di destinazione urbanistica, in data 10/7/2007, sia perché questo si sarebbe posto in contrasto con le sue stesse ammissioni contenute nel preliminare del 2006, sia perché detto certificato non conteneva alcuna informazione in proposito, sia perché la società aveva conferito incarico all’arch. COGNOME in data 5/6/2006, così da porsi nelle condizioni di conoscere i riferimenti catastali dei beni e la loro destinazione urbanistica, con conseguente presumibile conoscenza dello stato dei luoghi.
6.2 La ricorrente critica la sentenza proprio con riferimento all’interpretazione data dai giudici ai contenuti del preliminare del 2006, adducendo la violazione delle norme di ermeneutica contrattuale laddove erano state attribuite alla società dichiarazioni sostanzialmente confessorie sulla conoscenza, da parte sua, delle irregolarità urbanistiche e assunzioni di obblighi che avrebbero ribaltato sulla stessa l’acquisizione della documentazione necessaria per la stipula del definitivo e della conoscenza dello stato giuridico del bene.
Detta doglianza non considera però non soltanto che la ratio decidendi è stata fondata, come si è visto, anche su prove diverse dai contenuti della scrittura, rimaste in questa sede insindacate,
ma altresì che l’interpretazione di un atto negoziale è tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità, se non nell’ipotesi di violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, di cui all’art. 1362 cod. civ., e segg., o di motivazione inadeguata (ovverosia, non idonea a consentire la ricostruzione dell’iter logico seguito per giungere alla decisione), sicché, per far valere una violazione sotto il primo profilo, occorre non solo fare puntuale riferimento alle regole legali d’interpretazione (mediante specifica indicazione dei canoni asseritamente violati ed ai principi in esse contenuti), ma altresì precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito se ne sia discostato; con l’ulteriore conseguenza dell’inammissibilità del motivo di ricorso che si fondi sull’asserita violazione delle norme ermeneutiche o del vizio di motivazione e si risolva, in realtà, nella proposta di una interpretazione diversa (Cass. 26/10/2007, n. 22536). D’altra parte, per sottrarsi al sindacato di legittimità, quella data dal giudice del merito al contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili e plausibili interpretazioni (tra le altre: Cass. 12/7/2007, n. 15604; Cass. 22/2/2007, n. 4178), con la conseguenza che non può trovare ingresso in sede di legittimità la critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca esclusivamente nella prospettazione di una diversa valutazione degli stessi elementi già dallo stesso esaminati e che, pertanto, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Cass., Sez. 2, 15/5/2018, n. 11823; Cass. 7500/2007; 24539/2009).
A questi principi non si è attenuta la ricorrente, non avendo specificato in che modo la decisione assunta si sia posta in contrasto con le norme ermeneutiche che si intendevano violate, con la conseguenza che la censura è, sotto questo profilo, inammissibile, prima ancora che infondata.
Deve, invece, considerarsi nuova la doglianza relativa alla forma che la clausola ‘vista e piaciuta’ avrebbe dovuto rivestire, non essendovene menzione nella sentenza.
7. Il secondo motivo è parimenti infondato.
In proposito, vanno richiamati i principi, già ricordati nei punti che precedono, relativi al difetto di motivazione e di violazione delle norme di ermeneutica contrattuale, in virtù dei quali deve escludersi la sussistenza della dedotta nullità della sentenza in quanto mancante di argomentazioni e della violazione di legge.
I giudici hanno, infatti, ampiamente argomentato sul fatto che la società fosse al corrente della presenza di irregolarità urbanistiche del bene compromesso in vendita, avendo la stessa dichiarato di avere preventivamente accertato, anche con l’ausilio di tecnici e legali, della consistenza, ubicazione e caratteristiche dei beni, e di avere assunto ogni onere necessario per addivenire in tempi brevi alla realizzazione del progetto edificatorio sugli stessi, agevolata in ciò dal rilascio di una procura speciale da parte dei promittenti venditori che le consentiva di istruire tutte le pratiche necessarie presso le diverse autorità. Ad avviso dei giudici, la circostanza che l’abusività del bene fosse rimasta sconosciuta fino al 10/7/2007 era smentita dallo stesso contratto, nel quale la società aveva dichiarato di conoscere lo stato degli immobili, assumendo, altresì, ogni rischio connesso al rilascio delle necessarie autorizzazioni amministrative per lo sfruttamento edilizio del bene e impegnandosi a concludere il contratto anche in caso di mancato ottenimento delle stesse.
Andando nello specifico in ordine ai contenuti della procura, che costituisce, in sostanza, il bersaglio principale della censura, deve osservarsi come l’argomentazione fondata sulla non coincidenza tra soggetto destinatario della procura e soggetto stipulante il contratto preliminare non soltanto non sia affatto perspicua, ma sia altresì smentita dalla sua stessa formulazione, nella quale è sempre il medesimo soggetto giuridico, ossia la società, ad essere citato come promissaria acquirente e come destinataria della procura stessa.
Peraltro, la ricorrente, oltre a evidenziare la non corretta interpretazione delle clausole contrattuali, per le quali valgono le stesse considerazioni di cui al punto 6, deduce in definitiva il cattivo esercizio del potere di apprezzamento della prove non legali da parte del giudice di merito, il quale però non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), né in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 n. 4, cod. proc. civ., -dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (Cass., Sez. 1, 26/9/2018, n. 23153; Cass., Sez. 3, 10/6/2016, n. 11892), sia perché la contestazione della persuasività del ragionamento del giudice di merito nella valutazione delle risultanze istruttorie attiene alla sufficienza della motivazione, non più censurabile secondo il nuovo parametro di cui all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., sia perché con il ricorso per cassazione la parte non può rimettere in discussione, contrapponendovi le proprie, la valutazione delle risultanze
processuali e la ricostruzione della fattispecie concreta operate dai giudici del merito, trattandosi di accertamento di fatto, precluso in sede di legittimità ( ex plurimis Cass., Sez. 1, 6/11/2023, n. 30844; Cass., Sez. 5, 15/5/2018, n. 11863, Cass., Sez. 6-5, 7/12/2017, n. 29404; Cass., Sez. 1, 2/8/2016, n. 16056).
8. Con il quinto motivo di ricorso, si lamenta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1456 e 1457 cod. civ., 1385 e 1362 e ss. cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., l’omesso esame di fatti decisivi ai fini della decisione, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., nonché la violazione e falsa applicazione dell’art. 132, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., error in procedendo , per avere i giudici di merito ritenuto legittimo il recesso dal contratto preliminare operato dai promittenti venditori, in quanto la promissaria acquirente non aveva effettuato, nei termini convenuti da ritenere essenziali, il pagamento della terza rata di caparra, né aveva proceduto alla stipula del contratto definitivo di vendita.
La ricorrente ha sul punto obiettato che i giudici di merito non avevano però considerato la scrittura del 4/6/2007, con la quale il termine per il pagamento dell’ultima rata, scaduto quello del 29/5/2007, era stato posticipato al rogito di vendita, né l’intervenuta rinuncia, con essa, da parte dei promittenti venditori all’essenzialità del termine originariamente fissato, siccome dimostrativa del mantenimento, da parte loro, dell’interesse alla conclusione del contratto, senza che assumesse alcuna rilevanza la previsione di una penale per ogni giorno di ritardo, siccome volta esclusivamente a rafforzare l’impegno assunto.
Peraltro, lo stesso termine fissato con il preliminare per la stipula del rogito, pari a quindici mesi decorrenti dal 29/8/2007, non poteva considerarsi essenziale, sia in quanto restava comunque
subordinato alla regolarità urbanistica degli immobili e al possesso, in capo ai promittenti venditori, della documentazione urbanistica necessaria al trasferimento della proprietà, sia in quanto non era stata prevista alcuna clausola risolutiva del preliminare per il caso di mancata stipula del rogito di vendita, sia in quanto la dicitura ‘entro e non oltre’ non era sufficiente ad attribuire detta qualifica al termine apposto in assenza di ulteriori elementi atti a indicare la perduta utilità economica del contratto con l’inutile decorso del termine, sia in quanto la procura rilasciata per eventualmente chiedere e ritirare i certificati di destinazione urbanistica non fissava alcun termine per l’espletamento del mandato.
7. Con il sesto motivo di ricorso, si lamenta, infine, la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1385, 1218 e 1256 cod. civ., 1455 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.; la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 111, sesto comma, Cost. e 132, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., error in procedendo , perché i giudici di merito, con motivazione inesistente ovvero meramente apparente e assolutamente inadeguata, avevano ritenuto infondati anche i motivi di appello relativi all’illegittimità del recesso dal contratto preliminare operato dai promittenti venditori, reputando questo legittimo e per contro sussistente l’inadempimento dell’appellante, sul presupposto che i termini fissati per il pagamento della terza rata di acconto sul corrispettivo della vendita e per la stipula del rogito notarile di vendita fossero essenziali. Ad avviso della ricorrente i giudici non avevano considerato, che, presupponendo il recesso dal contratto l’inadempimento imputabile e di non scarsa importanza della controparte, avrebbero dovuto verificare, per un verso, l’incidenza dell’inadempimento sull’economia complessiva del rapporto, ossia se questo avesse determinato uno squilibrio nel sinallagma
contrattuale (criterio oggettivo), e, per altro verso, il comportamento di entrambe le parti secondo un criterio di proporzione fondato sulla buona fede contrattuale (criterio soggettivo), mentre, invece, nessuna indagine era stata svolta sulla gravità dell’inadempimento e sulla sua imputabilità.
8.1 Il quinto e sesto motivo, da trattare congiuntamente in quanto strettamente connessi, vertendo entrambi sulla questione dell’essenzialità del termine apposto per i pagamenti e la conclusione del definitivo di vendita e alla conseguente dedotta illegittimità del recesso operato dai promittenti venditori, sono infondati.
Vanno intanto ribaditi i principi ricordati al precedente punto 5.1 sulla nullità della sentenza per motivazione apparente, la quale non può dirsi sussistente nella specie, avendo i giudici di merito adeguatamente motivato anche in ordine alla reputata essenzialità del termine, allorché hanno detto che, alla stregua delle produzioni documentali di parte appellante, era stata quest’ultima a dirsi inadempiente nel pagamento, alla data fissata al 29/5/2007, dell’ultima rata della caparra, senza imputare l’omissione all’impossibilità di concludere il contratto definitivo, dedotta solo successivamente, allorché le era stato ricordato il termine del 29/8/2007 per quest’ultimo adempimento, e a proporre di addivenire al saldo di caparra e prezzo al 4/7/2007, riconoscendo contestualmente che quest’ultima data sarebbe stata essenziale per i promittenti venditori.
Ad avviso dei giudici, non era rimasto provato che tra le parti vi fossero stati incontri successivi al 29/8/2007, ma solo che con raccomandata del 18/12/2007 i promittenti venditori avessero comunicato il loro recesso per scadenza del predetto termine essenziale, dopo avere a monte fissato quindici mesi per la
conclusione del definitivo e avere aspettato ulteriori quattro mesi dalla fissazione della data ultima all’uopo fissata.
8.2 Quanto al dedotto omesso esame, si osserva come, nell’ipotesi di c.d. «doppia conforme», prevista dall’art. 348 -ter , quinto comma, cod. proc. civ. (applicabile, ai sensi dell’art. 54, comma 2, del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, ai giudizi d’appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal giorno 11 settembre 2012), il ricorrente in cassazione per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. (nel testo riformulato dall’art. 54, comma 3, del d.l. n. 83 cit. ed applicabile alle sentenze pubblicate dal giorno 11 settembre 2012) – debba indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (per tutte, Cass., Sez. 5, 18/12/2014, n. 26860; Cass., Sez. 5, 11/05/2018, n. 11439; Cass., sez. 1, 22/12/2016, n. 26774; Cass., sez. L., 06/08/2019, n. 20994), incombente questo rimasto inadempiuto nella specie, con conseguente inammissibilità della censura.
8.3 Quanto alla dedotta violazione di legge, si osserva come il recesso previsto dal secondo comma dell’art. 1385 cod. civ. configuri una forma di risoluzione stragiudiziale del contratto, avente quale presupposto l’inadempimento della controparte e condizione di operatività la semplice sua comunicazione a quest’ultima (Cass., Sez. 1, 13/3/2015, n. 5095), e presupponga, in ipotesi di versamento della caparra confirmatoria, l’inadempimento colpevole e di non scarsa importanza in relazione all’interesse dell’altro contraente, alla stregua della disciplina generale in tema di risoluzione per inadempimento (Cass., Sez. 2, 8/8/2019, n. 21209; Cass., Sez. 1, 10/5/2019, n. 12549), sicché
l’esercizio del diritto di recesso non può che comportare, in presenza dei suddetti presupposti, il trattenimento della caparra ricevuta (o l’esazione del doppio di essa), in ossequio alla sua funzione tipica, data dalla liquidazione dei danni preventivamente e convenzionalmente stabiliti, così determinando l’estinzione ope legis di tutti gli effetti giuridici del contratto e dell’inadempimento ad esso (Cass., Sez. 3, 20/2004, n. 18850).
La disciplina di cui al secondo comma dell’art. 1385 cod. civ., peraltro, non deroga affatto a quella generale della risoluzione per inadempimento, in quanto consente il recesso di una parte solo quando l’inadempimento della controparte sia colpevole e di non scarsa importanza in relazione all’interesse dell’altro contraente, sicché, nell’indagine sull’inadempienza contrattuale da compiersi al fine di stabilire se e a chi spetti il diritto di recesso, i criteri da adottarsi sono quegli stessi che si debbono seguire nel caso di controversia su reciproche istanze di risoluzione, nel senso che occorre in ogni caso una valutazione comparativa del comportamento di entrambi i contraenti in relazione al contratto, in modo da stabilire quale di essi abbia fatto venir meno, con il proprio comportamento, l’interesse dell’altro al mantenimento del negozio (Cass., Sez. 1, 10/5/2019, n. 12549; Cass., Sez. 2, 8/8/2019, n. 21206; Cass., Sez. 2, 23/1/1989, n. 398).
Questa valutazione, contrariamente a quanto affermato nelle censure, è stata compiuta dai giudici di merito nei termini precisati nei precedenti punti 5.1 e ss., oltre ad essere stata ulteriormente avallata dalla considerazione del termine apposto ai vari adempimenti cui la promissaria acquirente era chiamata in termini di essenzialità.
Come già osservato da questa Corte, la domanda di risoluzione del contratto per inosservanza del termine essenziale richiede la verifica dell’esistenza, nel contratto, di tale termine e del suo
mancato rispetto, mentre quella di risoluzione per inadempimento consistente nell’inosservanza di un termine non essenziale implica un apprezzamento complessivo del sinallagma contrattuale, al fine di verificare quale fosse l’intenzione delle parti e quale di esse, con la sua condotta, si sia resa responsabile del mancato raggiungimento dello scopo negoziale che era stato originariamente prefisso, così incorrendo in un inadempimento di non scarsa importanza ex art. 1455 cod. civ. (Cass., Sez. 2, 20/4/2023, n. 10682).
Il termine per l’adempimento può, in particolare, ritenersi essenziale ai sensi e per gli effetti dell’art. 1457 cod. civ., solo quando risulti inequivocabilmente la volontà delle parti di ritenere perduta l’utilità economica del contratto con l’inutile decorso del termine medesimo (Cass., Sez. 2, 16/2/2007, n. 3645; Cass., Sez. 2, 14/7/1989, n. 3293), mentre la relativa indagine, da condursi alla stregua delle espressioni usate dai contraenti (quali, ad esempio, ” entro e non oltre “), e soprattutto alla stregua della natura e dell’oggetto del contratto, si risolve in un apprezzamento di fatto, riservato al giudice del merito e non sindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione congrua e priva di vizi logici e giuridici (conf. Cass., Sez. 2, 1/6/2020, n. 10353; Cass., Sez. 2, 16/2/2007, n. 3645), così come è insindacabile la valutazione in fatto circa la natura essenziale od ordinatoria assunta dal termine in conseguenza della proroga, tenuto conto della volontà delle parti di intervenire non solo sulla decorrenza del termine, ma anche sulla sua natura giuridica (Cass., Sez. 2, 26/3/2018, n. 7450).
Orbene, i giudici di merito hanno escluso la fondatezza delle doglianze della società appellante in merito alla non essenzialità del termine, sostenendo che fosse stata propria la stessa a definirsi inadempiente per avere omesso di pagare l’ultima rata della caparra alla scadenza del termine all’uopo fissato e a fissare un
nuovo termine, che sarebbe rimasto comunque essenziale per i promittenti venditori, con la conseguenza che la censura si risolve ancora una volta in un’inammissibile richiesta di rivisitazione nel merito della questione.
In conclusione, dichiarata l’infondatezza di tutti i motivi, il ricorso deve essere rigettato.
Le spese del giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza e devono essere poste a carico della ricorrente.
Considerato il tenore della pronuncia, va dato atto -ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del D.P.R. n. 115 del 2002 -della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
Rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 12.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente del contributo unificato previsto per il ricorso a norma dell’art. 1 -bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 26 marzo 2025.
La Presidente NOME COGNOME