Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 6193 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 6193 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 08/03/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 223/2021 R.G. proposto da :
NOME COGNOME NOMECOGNOME NOME COGNOME COGNOME NOME COGNOME NOMECOGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOMECOGNOME NOME COGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME COGNOME, elettivamente domiciliati in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE rappresentati e difesi dagli avvocati COGNOME COGNOME (RRAPNR59C10L989M), COGNOME (PTZRND56B13B354E)
-ricorrenti- contro
ALLEVATORI DI RAGIONE_SOCIALE
NOME NOME, domiciliato ex lege in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati NOME (CODICE_FISCALE, NOME (CODICE_FISCALE, NOME (CODICE_FISCALE
-controricorrente-
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO SEZ.DIST. DI SASSARI n. 164/2020 depositata il 21/05/2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 11/02/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Gli odierni ricorrenti, già soci della Società RAGIONE_SOCIALE Mores (CAM), Organizzazione di Produttori nel settore latte e prodotti caseari ai sensi del d. lgs. n. 102/2005 (Regolazione dei mercati agroalimentari), previo recesso dalla Società cooperativa, hanno interposto domanda di arbitrato avverso la comunicazione della società di cui alla lettera circolare in data 3/7 agosto 2016, con la quale si comunicava l’interruzione della raccolta latte tra i soci per il periodo 13 agosto -15 novembre 2016.
In particolare, i soci hanno chiesto al collegio arbitrale dichiararsi la legittimità del recesso con risoluzione del vincolo associativo, sul presupposto della illegittimità della determinazione in oggetto, sia in quanto non preceduta da delibera del CdA, sia in quanto in contrasto con gli artt. 3, 4, 10 dello Statuto, nonché idonea a snaturare il rapporto sociale e in contrasto con la finalità della CAM quale RAGIONE_SOCIALE. I soci hanno, pertanto, dichiarato di interrompere il conferimento del latte; stante, poi, una successiva comunicazione della società cooperativa emessa nel corso del procedimento arbitrale (14 luglio 2017), con cui si la società cooperativa si dichiarava disponibile a liquidare il valore delle quote,
i soci hanno chiesto dichiararsi in principalità la cessazione della materia del contendere per cessazione del vincolo associativo e, in subordine, hanno insistito per la legittimità del recesso dal rapporto associativo. La società cooperativa ha chiesto -per quanto ancora rileva -dichiararsi l’inadempimento dei ricorrenti all’obbligo di conferimento di cui all’art. 10, lett. f ) dello statuto.
Il lodo arbitrale in data 16 aprile 2018 ha rigettato le domande dei soci e, per quanto qui rileva, ha accolto la domanda di CAM di inadempimento dei soci all’obbligo di conferimento del prodotto caseario. Ha ritenuto il Collegio arbitrale che la successiva raccomandata della cooperativa del 14 luglio 2017, sulla base della quale era stata chiesta la cessazione della materia del contendere, non costituiva manifestazione di volontà di scioglimento del vincolo associativo ma mero tentativo di conciliazione della controversia. Quanto, poi, al rigetto della domanda di recesso, il collegio arbitrale ha ritenuto che l’originaria comunicazione del 3 agosto 2016 non fosse in contrasto con l’oggetto sociale e rientrava tra i poteri di gestione degli amministratori; né si sarebbero potute applicare le disposizioni relative alle società a responsabilità limitata, con conseguente inadempimento dei soci all’obbligo di conferimento.
Hanno interposto impugnazione i soci, deducendo, sotto diversi profili, la nullità del lodo sia per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia, sia per contrarietà all’ ordine pubblico, nonché per contraddittorietà della motivazione, nella parte in cui era stata rigettata la domanda di cessazione della materia del contendere.
Con sentenza in data 21 maggio 2020, la Corte di Appello di Cagliari, Sezione Distaccata di Sassari, ha rigettato l’appello dei soci . Ha ritenuto il giudice di appello inammissibili i motivi relativi alla violazione delle regole di diritto a termini dell’art. 829, terzo comma,
cod. proc. civ., trattandosi -in applicazione dei principi affermati da Cass., Sez. U., n. 9284/2016 – di convenzione di arbitrato successiva all’entrata in vigore del d. lgs. n. 40/2006, in quanto approvata in data 12 settembre 2014, nonché contenuta in una precedente convenzione di arbitrato, risalente al 2008, anch’essa successiva all’entrata in vigore della nuova disciplina. Sotto diverso profilo, la Corte di merito ha ritenuto che la clausola compromissoria fosse priva di richiami a disposizioni contenute negli statuti precedenti, e che la convenzione di arbitrato avesse escluso richiami alle disposizioni statutarie contenute negli statuti anteriori. Con una seconda ratio decidendi , la Corte di Appello ha ritenuto inammissibile la deduzione della sussistenza della clausola statutaria sin dallo statuto sociale del 1951, in quanto questione nuova, mai dedotta davanti agli arbitri.
E’ stat a, poi, rigettata la censura di contraddittorietà del lodo in relazione alla domanda di cessazione della materia del contendere, trattandosi di statuizione incentrata sulla assenza di contenuto negoziale della raccomandata della cooperativa del 14 luglio 2017.
Quanto, infine, alla censura di violazione dell’ordine pubblico, la Corte di Appello ha osservato che il motivo di censura è fondato su allegazioni nuove, in ogni caso infondate, essendo l’interpretazione proposta dagli appellanti in contrasto con l’interpretazione letterale della clausola statutaria di cui all’art. 10, lett. h) -che prevedeva il mantenimento del vincolo associativo per almeno un triennio e che, in ogni caso, l’interpretazione della clausola statutaria non integra violazione dell’ordine pubblico ; ha osservato, infine, che la clausola statutaria che prevedeva la durata della società sino al 2050 e demandava agli amministratori la valutazione di legittimità del recesso (art. 12), non era stata impugnata dai soci.
Propongono ricorso per cassazione i soci, affidandosi a otto motivi, cui resiste con controricorso la società cooperativa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo si deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 829 cod. proc. civ., nel testo previgente il d. lgs. n. 40/2006, nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto che la convenzione di arbitrato di cui all’art. 45 dello Statuto fosse quella di cui alla modifica statutaria del 12 settembre 2014, laddove la clausola compromissoria era già ricompresa nello statuto del 1951, modificato nel 2004, ed era da allora rimasta invariata. Osserva parte ricorrente che le modifiche del contratto sociale non costituiscono mutazione del l’ente collettivo , né hanno incidenza sul contenuto della clausola compromissoria.
Sotto un ulteriore profilo, si censura la sentenza impugnata per avere omesso la Corte di appello di ricercare quale fosse la comune volontà delle parti al momento delle modifiche statutarie del 2014, in violazione de ll’art. 1362 cod. civ. Supposta, difatti, l’invarianza nel tempo della clausola compromissoria, si sarebbe dovuto dedurre, ad avviso di parte ricorrente, l’irrilevanza delle modifiche statutarie intervenute nel 2014, con conseguente applicazione dell’art 829 cod. proc. civ. precedente la novella del 2006.
Con il secondo motivo si deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione degli artt. 183, 342, 345 e 347 cod. proc. civ., nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto che la contestazione relativa all’applicazione dell ‘originario statuto del 1951 alla clausola compromissoria in questione fosse questione nuova, potendo nel giudizio di impugnazione del lodo arbitrale essere proposte nuove eccezioni e
prodotti nuovi documenti, non essendo applicabile in tale giudizio il regime delle preclusioni proprio del rito ordinario.
Il primo motivo è inammissibile sotto un duplice profilo. In primo luogo, non è stato censurato l’accertamento compiuto dal giudice di appello, secondo cui la clausola compromissoria era stata oggetto di una precedente modifica statutaria, approvata nel 2008, anch’essa successiva all’entrata in vigore del d. lgs. n. 40/2006, con conseguente stabilizzazione della decisione relativa all’applicazione della suddetta disciplina con altro percorso argomentativo.
In secondo luogo, il primo motivo si apprezza ulteriormente inammissibile, essendo stato accertato che lo statuto del 1951 è stato superato dalla modifica statutaria approvata nel 2014, la quale ha disciplinato autonomamente l’accesso alla clausola arbitrale («senza alcun richiamo a disposizioni contenute negli statuti precedenti (…) non prevede l’impugnabilità del lodo per violazione di norme di diritto» : pag. 6 sent. imp., 2° cpv.). Parte ricorrente non ha compiutamente censurato tale statuizione, la quale non è incentrata sulla identità della struttura della clausola compromissoria contenuta nella modifica statutaria del 2014 rispetto a quella contenuta nell’originar io statuto del 1951, ma sulla rinnovata volontà dei soci di regolare autonomamente la clausola compromissoria sulla base delle modifiche statutarie del 2014.
Conseguentemente, va dichiarato inammissibile anche il secondo motivo per difetto di interesse. Il giudice di appello ha, difatti, adottato due ragioni della decisione in ordine alla inapplicabilità delle originarie disposizioni statutarie del 1951, una fondata sulla irrilevanza dello statuto del 1951, l’altra incentrata sulla inammissibilità delle allegazioni relative alla continuità della clausola compromissoria secondo le indicazioni contenute nell’originario statuto, questioni non dedotte in sede arbitrale. Tale iter
argomentativo costituisce autonoma ratio decidendi che, in quanto non oggetto di impugnazione, priva di interesse il ricorrente dall’esame del proprio ricorso, in quanto detto esame non risulterebbe idoneo a determinare l’annullamento della sentenza impugnata, risultando comunque consolidata l’autonoma motivazione non oggetto di censura (Cass., n. 15399/2018; Cass., n. 9752/2017).
Con il terzo motivo si deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione o falsa applicazione degli artt. 1362 e ss. cod. civ., nella parte in cui la sentenza impugnata, in relazione al quarto motivo di appello, ha negato la nullità del lodo in relazione alla domanda di cessazione della materia del contendere, attribuendole natura di un tentativo di conciliazione. Deduce parte ricorrente che la raccomandata non contiene alcun riferimento al giudizio arbitrale ed è indirizzata alla liquidazione del capitale sociale e allo scioglimento del rapporto sociale, circostanza che si traduce nella nullità della motivazione del lodo.
Il terzo motivo è inammissibile, in quanto il ricorrente, attraverso la censura di violazione di legge, intende giungere a un diverso accertamento rispetto a quello operato dal giudice del merito in ordine al contenuto negoziale della comunicazione (raccomandata) della società cooperativa. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto di un negozio giuridico si traduce in una indagine di fatto affidata al giudice di merito, in relazione alla quale il ricorrente per cassazione, al fine di far valere la violazione dei canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., non solo deve fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione, mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale
modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti non potendo, invece, la censura risolversi nella mera contrapposizione dell’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata (Cass., n. 9461/2021; Cass., n. 27937/2024).
Con il quarto motivo si deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., omesso esame di fatto decisivo per il giudizio, costituito «dalla indagine sulla comune volontà al momento della conclusione del contratto e sulla violazione dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede» in sede di rigetto del motivo di appello di impugnazione del lodo per violazione dell’ordine pubblico relativamente all’interpretazione della clausola n. 10 dello Statuto . Osserva parte ricorrente che l’interpretazione di tal e clausola ha costituito tema di discussione, non oggetto di esame da parte del lodo arbitrale, laddove i ricorrenti avevano ritenuto che l’intento della clausola fosse di vincolare i soci per il primo triennio e non per tutta la durata della società e che la diversa interpretazione del vincolo sociale protratto per tutta la durata della società sarebbe contrario a buona fede.
Con il quinto motivo si deduce , in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, violazione « di norme di diritto rappresentate dai principi fondamentali dell’ordinamento» e della Costituzione, nella parte in cui la sentenza impugnata avrebbe ritenuto di parificare il vincolo associativo dei soci alla intera durata della società, laddove dovrebbe riconoscersi il libero recesso dal rapporto sociale.
Con il sesto motivo si deduce , in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 2437 e 2519 cod. civ., nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto sussistente il vincolo associativo e insussistente il diritto
di recesso per essere la durata della società a tempo determinato sino al 2050. Osserva parte ricorrente che una durata così estesa del rapporto sociale dovrebbe consentire il recesso ad nutum del socio dopo il primo triennio di adesione e che deve ritenersi in contrasto con le norme in materia di società cooperative l’attribuzione agli amministratori del controllo sul recesso dei soci-
Con il settimo motivo si deduce , in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione degli artt. 1359 e 2437 cod. civ., nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto legittimo demandare agli amministratori la valutazione del recesso dei soci. Osserva parte ricorrente che tale facoltà non è riscontrata nello Statuto e che, in ogni caso, il merito del recesso non è sindacabile dagli amministratori.
13 . Con l’ottavo motivo si deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., omesso esame di fatto decisivo, costituito dalla lettera circolare del 3/7 agosto 2016. Osserva parte ricorrente il contenuto di tale comunicazione incide profondamente sulle regole statutarie, in quanto l’interruzione del ritiro del latte incide sul rapporto sinallagmatico socio -società, per cui non può essere atto di ordinaria amministrazione di competenza dell’organo amministrativo.
Il quarto e l’ ottavo motivo sono inammissibili, in quanto -in disparte la mancanza della decisività dei fatti dedotti – non vi è a priori deduzione di un fatto storico, bensì prospettazione – sotto il profilo dell’omesso esame di fatto storico – di una supposta erronea interpretazione di atti e documenti di causa e, quindi, una sollecitazione per un rinnovato esame della clausola. Il vizio di cui all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. deve, invero, essere relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, inteso in senso naturalistico, la cui esistenza risulti dal testo della
sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo e non può attenere all’omesso o erroneo esame di elementi istruttori ove il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass., n. 17005/2024).
15. Il quinto, il sesto e il settimo motivo, i quali possono essere esaminati congiuntamente, sono inammissibili sotto vari profili. In primo luogo, non è stata censurata la statuizione secondo cui la violazione dell’art. 10 dello Statuto fosse censura nuova (« i soci hanno contestato il lodo per non avere correttamente interpretato, in violazione delle norme “di diritto privato cogente” sull’interpretazione di buona fede del contratto, la clausola n. 10 dello statuto, la quale, secondo la loro tesi, li avrebbe impegnati solo per un triennio e con diritto di recedere liberamente dal rapporto nel periodo successivo In ogni caso, tale violazione va esclusa poiché l’allegazione è del tutto nuova. Nel lodo non si fa alcuna menzione del significato da attribuire alla clausola n. 10 citata e pertanto, alcuna errata interpretazione, che peraltro avrebbe comportato esclusivamente una violazione di norme di diritto in quanto tale inammissibile, può essere addebitata agli arbitri »).
16. In secondo luogo, il quinto e il sesto motivo si rivelano ulteriormente inammissibili, in quanto intendono riproporre davanti al giudice di legittimità l’interpretazione della clausola statutaria dell’art. 10, lett. h). L’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto di un atto negoziale si traduce in una indagine di fatto affidata al giudice di merito, per cui il ricorrente per cassazione non solo deve fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione, mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto,
altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti non potendo, invece, la censura risolversi nella mera contrapposizione dell’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata (Cass., n. 9461/2021).
17. In ogni caso, va osservato che, con riferimento ai limiti della facoltà di recesso del socio, la sentenza impugnata ha ricondotto la questione sul piano della previsione statutaria, la quale operava un fa rinvio al l’art. 2532 cod. civ. e, per l’effetto, all’art. 2437 cod. civ., secondo il quale deve ritenersi escluso di recesso ad nutum del socio di società per azioni nel caso in cui lo statuto preveda una prolungata durata della società, non potendo tale ipotesi essere assimilata a quella, prevista dall’art. 2437, terzo comma, cod. civ., della società costituita per un tempo indeterminato, stante la necessaria interpretazione restrittiva delle cause che legittimano la fuoriuscita del socio dalla società (Cass., n. 4716/2020).
18. Inammissibile è, poi, il sesto motivo, in quanto estraneo alla ratio decidendi , avendo la sentenza impugnata (pag. 8) ritenuto che la clausola sulla durata e sul recesso (attraverso cui si faceva rinvio al disposto dell’art. 2437 cod. civ.) non era stata impugnata ed era stata accettata dai soci, onde non si sarebbe posto un problema di ordine pubblico, essendo i soci liberi di aderire alla cooperativa. Sotto questo profilo, va valorizzata la circostanza in diritto secondo cui il rimando alla clausola dell’ordine pubblico da parte dell’art. 829, terzo comma, cod. proc. civ. deve essere interpretato in senso restrittivo, come rinvio limitato alle norme fondamentali e cogenti dell’ordinamento, escludendosi, in radice, una nozione attenuata di ordine pubblico, che coincide con il c.d. ordine pubblico interno e, cioè, con l’insieme delle norme imperative (Cass., n. 8718/2024).
Inammissibile è, infine, il settimo motivo, ove si denuncia la violazione anche dell’art. 1359 cod. civ. e si deduce che il Consiglio di Amministrazione non avrebbe avuto facoltà discrezionale nel valutare il recesso dei soci. Anche sul punto, parte ricorrente non coglie pienamente la ratio decidendi, avendo la sentenza impugnata statuito che, proprio in base alle clausole statutarie, sarebbe stato di competenza del Consiglio di Amministrazione valutare la legittimità del recesso dei soci.
Il ricorso va, pertanto, rigettato, con spese regolate dalla soccombenza e liquidate come da dispositivo, oltre al raddoppio del contributo unificato.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali del giudizio di legittimità in favore della controricorrente , che liquida in complessivi € 7.200,00, oltre € 200,00 per esborsi, 15% di rimborso forfetario e accessori di legge; dà atto che sussistono i presupposti processuali, a carico di parte ricorrente , nonché a parte ricorrente, ai sensi dell’art. 13 comma 1 -quater d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. 24 dicembre 2012, n. 228, per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso articolo 13, se dovuto. Così deciso in Roma, il 11/02/2025.