Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 1572 Anno 2024
Civile Sent. Sez. 2 Num. 1572 Anno 2024
Presidente: COGNOME PASQUALE
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 16/01/2024
SENTENZA
sul ricorso 7936 -2017 proposto da:
COGNOME NOME e COGNOME NOME, elettivamente domiciliati in Roma, INDIRIZZO, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO, rappresentati e difesi dall’AVV_NOTAIO e dall’AVV_NOTAIO anche quale procuratore di sé stesso, come da procura in calce al controricorso, con indicazione degli indirizzi pec;
– ricorrenti –
contro
NOME COGNOME e NOME, elettivamente domiciliate in Lecce, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO da cui sono rappresentate e
difese con l’AVV_NOTAIO NOME AVV_NOTAIO, come da procura a margine del controricorso, con indicazione degli indirizzi pec;
– controricorrenti –
e contro
NOME, elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO che la rappresenta e difende come da procura in calce al controricorso, con indicazione dell’indirizzo pec;
– controricorrente –
e contro
NOME COGNOME
– intimata – avverso la sentenza n. 2136/2016 della CORTE D’APPELLO di LECCE, pubblicata il 12/1/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 28/6/2023 dal consigliere COGNOME;
lette le conclusioni del P.M. in persona del AVV_NOTAIO Procuratore Generale NOME COGNOME che ha chiesto la declaratoria di inammissibilità o, in subordine, il rigetto del ricorso;
lette le memorie delle parti.
FATTI DI CAUSA
Con ricorso depositato il 1/9/2009, NOME COGNOME e NOME COGNOME convennero, dinanzi al Tribunale del lavoro di Lecce, le sorelle NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, sostenendo che, dal 10/2/59 al 28/2/06, cioè fino al decesso della madre, NOME COGNOME, avevano collaborato in maniera continuativa alla gestione dell’impresa familiare asseritamente
costituitasi alla morte del padre, NOME COGNOME, tra la loro madre, istituita per testamento usufruttuaria dell’intero patrimonio e i sei figli, istituiti nudi proprietari in comunione pro indiviso .
Chiesero, pertanto, che fosse accertata la sussistenza del rapporto associativo, ex art.230 bis cod. civ., con la madre NOME COGNOME e fosse liquidata in loro favore, quali partecipanti, per effetto della cessazione dell’impresa familiare per decesso della titolare, la quota loro spettante sugli utili ed incrementi del patrimonio aziendale, quantificandoli in Euro 948.000,00, da attribuirsi secondo il criterio della quantità e qualità delle prestazioni di ciascuno (presuntivamente di uguale importanza e, quindi, pari ad un terzo dell’intero ammontare per ogni partecipante alla società); chiesero, in conseguenza, la condanna delle sorelle, nella qualità di eredi legittime della titolare, al pagamento, in loro favore, della complessiva somma di Euro 52.666,00, oltre interessi e rivalutazione; sostennero che il credito così quantificato, da rivendicare nei confronti della madre quale titolare dell’impresa, si fosse trasformato in debito dell’eredità, gravando la quota ereditaria di ciascuno dei sei figli coeredi di una porzione pari ad un diciottesimo dell’intero (sesta parte del terzo degli utili attribuibile ad ogni ricorrente); ne reclamarono, quindi, l’attribuzione in denaro.
1.2. NOME COGNOME e NOME COGNOME eccepirono il difetto di legittimazione passiva quali eredi di NOME COGNOME, per essere la loro dante causa soltanto usufruttuaria e non proprietaria dei terreni presuntivamente migliorati, nonché l’insussistenza del rapporto di impresa familiare, dovendosi invece inquadrare l’attività dei ricorrenti quali prestazioni affectionis causa o per società di fatto; nel merito, negarono comunque l’asserito valore degli incrementi, spiegando domanda riconvenzionale per l’imp orto di Euro 780.000,00 a titolo di risarcimento dei danni subiti per la pessima gestione dei terreni dell’azienda ad opera dei ricorrenti e per non aver partecipato alla
divisione dell’indennizzo percepito dall’usufruttuaria negli anni 1976/1991 per l’espianto dei vigneti.
1.3. NOME COGNOME eccepì, per quel che qui ancora rileva, l’inapplicabilità della disciplina di cui all’art. 230 bis cod. civ. per il periodo precedente l’entrata in vigore della legge, l’inesistenza dell’impresa familiare, trattandosi eventualmente di società di fatto rientrante nella competenza del giudice ordinario ovvero di mandato di gestione per singoli incarichi.
Con sentenza n.5809/12, il Tribunale ritennne effettivamente configurabile un’impresa familiare , ma rigettò il ricorso, ritenendo non provata la sussistenza dei pretesi utili ed incrementi e meramente esplorativa la chiesta c.t.u..
3 . La Corte d’appello, adita dai COGNOME COGNOME, con sentenza n.2136/2016 confermò il rigetto della domanda con diversa motivazione.
In particolare, escluse la configurabilità di un’impresa familiare, ravvisando invece la sussistenza di una società di fatto di cui i COGNOME COGNOME erano stati amministratori o, in ogni caso, gestori per conto delle sorelle; affermò che alla società di fatto (o, in alternativa, all’impresa familiare coltivatrice a partire dal 1982), si sarebbe dovuto applicare l’art. 2284 cod. civ., con la conseguenza che la società sarebbe continuata anche dopo la morte della madre e che la quota della defunta sarebbe conf luita nell’asse ereditario; ritenne che essi avessero fruito degli utili nel corso della collaborazione, durata quarantasette anni, senza alcun rendiconto all’usufruttaria della gestione del notevole patrimonio immobiliare; infine, sebbene la qualificazione giuridica dei rapporti intercorsi «rende irrilevanti gli esiti della svolta ctu», esaminandone in dettaglio il contenuto, escluse con giudizio articolato che vi fossero stati miglioramenti o reimpiego di
utili (titoli, obbligazioni e saldo c/c) perché a monte difettava la prova della loro consistenza.
Avverso questa sentenza NOME COGNOME e NOME COGNOME hanno proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi. NOME COGNOME e NOME COGNOME e, con separato atto, NOME COGNOME si sono difese con controricorso. NOME COGNOME non ha svolto difese.
4.1. Con ordinanza n.3140 del 2023 questa Seconda sezione, in considerazione dell’oggetto della controversia, ha rimesso gli atti alla Prima presidente per l’eventuale assegnazione alla Sezione lavoro, competente tabellarmente alla trattazione delle questioni in materia di impresa familiare.
Con provvedimento del 15/3/2023, la Prima presidente ha restituito gli atti a questa Sezione, prevalendo la necessità della trattazione in tempi ragionevoli; la causa è stata perciò fissata alla pubblica udienza del 28 giugno 2023.
Il Pubblico Ministero, reiterando le conclusioni già rese nella prima udienza, ha chiesto la dichiarazione di inammissibilità o, in subordine, il rigetto del ricorso; ha assunto, infatti, che la sentenza impugnata si fondi su due distinte e autonome rationes decidendi , la ravvisabilità nella specie di una società di fatto e non di un’impresa familiare e, in ogni caso, anche in ipotesi di sussumibilità dei rapporti intercorsi nell’art. 230 bis cod. civ., l’assenza di prova di miglioramenti o reimpiego di utili; ha sostenuto, quindi, che la seconda ratio non sia stata adeguatamente censurata con il secondo e il quarto motivo, con conseguente inammissibilità per difetto di interesse del primo e terzo motivo contenenti le censure alla prima ratio .
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, i ricorrenti hanno prospettato, in riferimento all’art. 360 comma I n. 3 cod. proc. civ., la violazione degli artt. 329, 343 e 346 cod. proc. civ., nonché dell’art. 112 cod. proc.
civ., per avere la Corte provveduto a riqualificare il rapporto controverso, come società di fatto invece che come impresa familiare, pur in mancanza di appello incidentale sul punto e in conseguenza della semplice riproposizione delle eccezioni formulate in primo grado.
La sentenza impugnata sarebbe quindi nulla per omessa pronuncia sull’eccezione di giudicato implicito sull’ an formatosi in mancanza di impugnazione incidentale.
1.2. Con il secondo motivo, i due COGNOME hanno lamentato, in relazione all’art. 360 comma I n. 3 cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli artt. 230 bis ss. cod. civ. e della disciplina in materia di società semplici nonché, in relazione all’art. 360 comma I n. 4 cod. proc. civ., la violazione degli artt. 115, 116 e 132 cod. proc. civ per avere la Corte d’appello erroneamente configurato come società d i fatto il rapporto di collaborazione familiare intercorsa, ignorando totalmente gli esiti delle prove escusse in primo grado e privilegiando, in maniera immotivata, congetture prive di gravità, precisione e concordanza, nonché elementi di natura meramente presuntiva; in particolare avrebbe erroneamente ritenuto ex art. 2284 cod. civ. la sussistenza del difetto di legittimazione passiva delle resistenti, convenute in giudizio quali eredi della madre, usufruttuaria dei beni oggetto del rapporto di collaborazione.
1.3. Con il terzo motivo, i ricorrenti hanno denunciato, in relazione all’art. 360 comma I n. 3 e 5 cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 2284 cod. civ. : la Corte d’Appello avrebbe errato nel ritenere meritevole di accoglimento l’eccezione di difetto di legittimazione passiva, in quanto la domanda aveva ad oggetto la corresponsione «della quota di partecipazione all’impresa familiare dell’usufruttuaria in danno degli eredi di quest’ultima»; pertanto, l’incremento di valore dell’impresa agricola costituiva, per loro che ne
erano partecipanti, un credito nei confronti della titolare e, perciò, della defunta.
1.4. Con il quarto motivo, NOME e NOME COGNOME hanno infine sostenuto, in riferimento all’art. 360 comma I n. 4 cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli artt. 230 bis cod. civ. e dell’art. 112 cod. proc. civ., per avere la Corte dapprima escluso la configurazione del rapporto come impresa familiare e poi aver esaminato comunque, nonostante l’espresso giudizio di irrilevanza degli esiti della c.t.u. svolta, le prove sulla sussistenza degli utili e degli incrementi; avrebbe quindi reso una motivazione contraddittoria, in particolare in riferimento alla natura di utili di impresa dei titoli bancari prodotti in giudizio e degli incrementi.
Prima di esaminare l’ammissibilità e la fondatezza di ciascun motivo è necessario considerare che la decisione di merito qui impugnata si fonda su due ragioni tra loro del tutto distinte e autonome, singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico: con la prima ragione, infatti, la Corte territoriale, pur confermando il rigetto della pretesa, ha motivato la riforma della decisione di primo grado in punto di qualificazione del rapporto giuridico prospettato a fondamento della pretesa azionata e, in conseguenza, di legittimazione passiva delle coeredi, mentre con la seconda ragione ha escluso la fondatezza dell’impugnazione anche in ipotesi di sussistenza di una impresa familiare, secondo la qualificazione già operata dal primo giudice.
Ciò precisato, deve ancora puntualizzarsi che con la prima motivazione della decisione di rigetto dell’appello, la Corte territoriale non si è spogliata della propria potestas iudicandi , ipotesi che ricorre quando il giudice di appello, già pronunciatosi su una questione di rito che impedisca l’esame del merito e che giustifichi il rigetto della domanda in rito, enunci pure una motivazione sul merito – o magari
più di una – e reputi infondata nel merito la domanda (Cass. sez. un. 20/02/2007, n. 3840; Sez. 2, n. 9647 del 02/05/2011; Sez. U, n. 15122 del 17/06/2013; Sez. 3, n. 17004 del 20/08/2015; Sez. U, n. 2155 del 01/02/2021).
Nel caso di specie, invece, la Corte d’appello , in conseguenza de ll’articolazione delle difese delle convenute appellate (che, in primo grado, avevano contestato la configurabilità della dedotta impresa familiare e, in ogni caso, avevano pure negato l’asserita sussistenza degli incrementi), ha reso una prima motivazione di merito, ritenendo applicabile al rapporto dedotto in causa la disciplina della società di fatto e non l’invocato articolo 230 bis cod. civ. , per poi articolare una seconda motivazione alternativa, quest’ultima in perfetta corrispondenza con la questione devolutale con l’impugnazione principale e, cioè, l’insussistenza in ogni caso del preteso diritto agli utili ed incrementi.
In particolare, la Corte territoriale ha posto certamente in relazione di alternatività le due motivazioni, laddove, dopo aver esplicitamente rigettato l’appello «alla stregua delle premesse», cioè per la ritenuta inapplicabilità alla fattispecie dell’istituto dell’impresa familiare, ha ulteriormente confermato il giudizio del primo Giudice proseguendo poi nell’ esame delle risultanze della c.t.u. espletata: ha, infatti, introdotto la seconda motivazione con la congiunzione «peraltro» che, per sua natura, è coordinativa avversativa, nel senso che ha la funzione di aggiungere un nuovo concetto in contrapposizione a ciò che è stato già detto.
Il carattere alternativo delle due motivazioni implica allora che la sentenza potrebbe essere utilmente cassata soltanto se entrambe si rivelassero errate e, dunque, soltanto se fossero accolti tutti i quattro motivi di ricorso, dei quali i primi tre concernono la prima ratio e l’ultimo la seconda : la fondatezza dei primi tre motivi, infatti,
comunque non produrrebbe la cassazione della sentenza se dal l’infondatezza e dal l’inammissibilità del quarto motivo conseguisse l’intangibilità della seconda motivazione.
Per principio consolidato, qualora la decisione di merito si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte e autonome, singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, la ritenuta infondatezza delle censure mosse ad una delle rationes decidendi rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione stessa (Cass. Sez. U, n. 7931 del 29/03/2013; Sez. 6 3, n. 16314 del 18/06/2019; Sez. 1, n. 18119 del 31/08/2020).
Ciò posto, l ‘alternatività delle rationes decidendi come stabilita dallo stesso Giudice consente di ritenere ugualmente collocati nell’ordine di trattazione delle questioni il primo gruppo delle prime tre censure (sebbene il primo motivo investa un error in procedendo ) e il quarto motivo.
Giova, dunque, ad una più spedita risoluzione della controversia, esaminare immediatamente proprio il quarto motivo di ricorso che contiene le sole censure in merito alla seconda ratio , cioè la mancanza di prova della consistenza di miglioramenti e utili; il secondo motivo, invero, secondo questa Corte, critica come il primo e il terzo, la qualificazione giuridica del rapporto e, perciò, la prima ratio .
Innanzitutto deve escludersi che la motivazione della sentenza risulti contraddittoria e viziata per violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.
Per principio consolidato, la sentenza in cui il Giudice di merito, dopo aver esposto una prima ragione di decisione, esamini e offra anche una seconda ragione, al fine di sostenere la statuizione anche
nel caso in cui la prima possa risultare erronea, non è viziata da contraddittorietà della motivazione che ricorre nel diverso caso di contrasto di argomenti confluenti nella stessa ratio decidendi (cfr. Cass. Sez. 1, n. 17182 del 14/08/2020; Sez. 3, n. 10815 del 18/04/2019; Sez. 3, n. 21490 del 07/11/2005).
A ciò si aggiunga che, nel delineare i confini del sindacato di legittimità sulla motivazione dopo la riformulazione dell’ art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. ex art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, questa Corte ha individuato la motivazione contraddittoria nel «contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili» e nella «motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile» (Cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014; Sez. U., n. 22232 del 3/11/2016; ex multis , da ultimo, Cass. Sez. 3, n. 10815 del 18/04/2019, con numerosi richiami; Sez. 1, Ordinanza n. 7090 del 03/03/2022): nessuna di tali evenienze ricorre invece nella specie, perché, come detto, nella sentenza impugnata, la Corte territoriale ha escluso in merito la sussistenza dei pretesi utili ed incrementi in aggiunta e in alternativa al riscontrato difetto di legittimazione passiva delle convenute quali eredi, seguito alla riqualificazione giuridica del rapporto intercorso tra le parti.
D’altro canto, in relazione alla prospettata violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., non risulta invero adeguatamente spiegato perché ne sarebbe stato violato il paradigma, atteso che nella premessa del ricorso gli stessi COGNOME espongono di aver proposto appello proprio allo scopo di contestare il giudizio di insufficienza delle prove di utili e incrementi espresso dal primo giudice.
Diversamente non può ritenersi neppure in riferimento all’asserito riconoscimento della consistenza di tali utili ed incrementi per mancata contestazione, ex art. 416 cod. proc. civ.: sul punto, infatti, i ricorrenti, senza considerare che il primo giudice ne aveva
escluso ogni prova sì da rigettare l’istanza di c.t.u. perché esplorativa e trascurando che, nella narrativa della sentenza impugnata, (pag. 3) la Corte territoriale ha esplicitamente riportato che le convenute NOME e NOME COGNOME avevano, in merito, «disconosciuto» il valore degli incrementi, hanno formulato una censura del tutto priva di autosufficienza, omettendo di indicare in quale sede e modo sia invece intervenuto il dedotto riconoscimento (l’onere di questa indicazione è costantemente affermato da questa Corte; cfr. da ultimo, Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 10761 del 04/04/2022).
A ciò si aggiunga che, per principio altrettanto consolidato, neppure può ravvisarsi, nel giudizio di appello, la violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato quando la Corte di merito renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti ovvero quando, rimanendo -come accaduto nella fattispecie -nell’ambito del petitum e della causa petendi , confermi la decisione impugnata sulla base di ragioni diverse da quelle adottate dal giudice di primo grado o formulate dalle parti, mettendo in rilievo nella motivazione elementi di fatto risultanti dagli atti ma non considerati o non espressamente menzionati dal primo giudice (cfr. Cass. Sez. 6 – L, n. 513 del 11/01/2019).
Quanto poi al profilo della condivisione delle risultanze della c.t.u. espletata, lo stesso motivo si rivela pure inammissibile in quanto, senza articolare la censura alla motivazione di rigetto nei limiti dei parametri fissati dal n. 5 del comma I dell’art. 360 cod. proc. civ., i ricorrenti si sono limitati a proporre una diversa valutazione degli elementi probatori raccolti, risolvendo così la loro critica in una richiesta di riesame in merito dei fatti, invece evidentemente precluso in questa sede di legittimità.
Il quarto motivo risulta perciò in parte infondato e, in parte, inammissibile.
Come anticipato al punto 2, in conseguenza del rigetto del quarto motivo i primi tre motivi di ricorso risultano inammissibili per difetto di interesse: la conferma della seconda ratio decidendi della sentenza impugnata, cioè la mancanza di prova della consistenza di miglioramenti e utili dei quali con citazione è stata reclamata la quota, implica necessariamente che, quand’anche si dovesse qualificare l’impresa come impresa familiare e non come società di fatto, la domanda sarebbe comunque respinta.
Il ricorso è perciò rigettato, con conseguente condanna dei ricorrenti al rimborso delle spese processuali in favore delle controricorrenti, liquidate in dispositivo in relazione al valore della controversia, con distrazione in favore degli AVV_NOTAIOti NOME COGNOME e NOME COGNOME, difensori di NOME e NOME COGNOME e dell’AVV_NOTAIO. NOME COGNOME, difensore di NOME COGNOME, dichiaratisi antistatari.
Non vi è statuizione di spese nei confronti di NOME COGNOME che non ha svolto difese.
Stante il tenore della pronuncia, va dato atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna NOME COGNOME e NOME COGNOME al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in favore di NOME COGNOME e NOME COGNOME in Euro 4.800,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge e, in favore di NOME COGNOME, in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura
del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge, con distrazione in favore degli AVV_NOTAIOti NOME COGNOME e NOME COGNOME e dell’AVV_NOTAIO. NOME COGNOME .
Dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1 -bis, del d.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda