Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 32505 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 32505 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 14/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 28567/2022 R.G. proposto da:
COGNOME NOME, elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’ Avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE, che la rappresenta e difende giusta procura speciale allegata al ricorso
– ricorrente
–
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del curatore p.t. , elettivamente domiciliato in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’ Avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE, che lo rappresenta e difende giusta procura speciale in calce al controricorso
– controricorrente –
avverso il decreto del Tribunale di Roma n. 2838/2022 depositato il 20/10/2022;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 25/9/2024 dal Consigliere NOME COGNOME
Rilevato che:
NOME COGNOME deducendo di aver svolto, senza regolare contratto, lavoro subordinato alle dipendenze di RAGIONE_SOCIALE dal
1° gennaio 1978 al 23 ottobre 2017, in qualità di responsabile ufficio acquisti e pagamenti ai fornitori, addetta al controllo della relativa contabilità e della documentazione bancaria, domandava al giudice delegato al fallimento della società di ammettere al passivo, in privilegio ex art. 2751bis , comma 1, n. 1), cod. civ., il complessivo credito di € 445.861,72, vantato a titolo di differenze retributive, trattamento di fine rapporto, contributi maturati e non versati e interessi legali.
Il G.D. non ammetteva il credito, ritenendolo non provato.
L’opposizione proposta da COGNOME contro il decreto di esecutività dello stato passivo veniva respinta dal Tribunale di Roma, che -premesso fra l’altro , e per quanto qui di interesse, che in linea generale la domanda volta ad ottenere l’accertamento dell’esistenza di un rapporto di lavoro deve essere proposta al giudice fallimentare quando costituisca solo il presupposto per ottenere vantaggi patrimoniali di natura retributiva o risarcitoria all’interno della procedura concorsuale e che pertanto il giudizio non doveva essere sospeso in attesa della definizione di quello avente identico oggetto promosso d all’opponente d inanzi al giudice del lavoro -riteneva che difettasse la prova della sussistenza del dedotto rapporto di lavoro subordinato.
Rilevava che dalla documentazione prodotta da COGNOME non emergeva alcun dato dimostrativo del fatto che l’attività lavorativa da lei prestata per la società poi fallita fosse stata svolta in regime di subordinazione e che elementi univoci e significativi in tal senso non potevano essere tratti neppure dal contenuto delle deposizioni testimoniali assunte nel corso del giudizio svoltosi dinanzi al giudice del lavoro, che risultavano non solo contraddittorie ma anche generiche e inconcludenti.
Sottolineava, in particolare, che nulla era stato indicato in merito alla sottoposizione di COGNOME al potere direttivo, disciplinare e di controllo dell’asserito datore di lavoro e sulle modalità di espletamento della
prestazione, essendosi la ricorrente limitata a descrivere le proprie mansioni e gli orari di lavoro osservati.
NOME COGNOME ha proposto ricorso per la cassazione del decreto, pubblicato in data 20 ottobre 2022, prospettando tre motivi di doglianza, ai quali ha resistito con controricorso il Fallimento RAGIONE_SOCIALE
Parte ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380 -bis .1 cod. proc. civ..
Considerato che:
4. Il primo motivo di ricorso denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 3), cod. proc. civ., la violazione o errata applicazione degli artt. 24 e 52, comma 2, l. fall. e 295 cod. proc. civ., perché il tribunale si è ritenuto competente a decidere in punto di accertamento della sussistenza del rapporto di lavoro tra COGNOME e la società fallita senza disporre la sospensione necessaria del procedimento in attesa che la Corte d’appello di Roma esaminasse il gravame proposto avverso la statuizione del giudice del lavoro del Tribunale di Roma di improponibilità dei ricorsi presentati in sede ordinaria per l’accertamento, da un lato, della sussistenza del rapporto di lavoro, dall’altro del danno pensionistico.
L’esistenza di una pregiudizialità sia logica (giacché l’accertamento della sussistenza del rapporto di lavoro innanzi al giudice del lavoro precede necessariamente l’accertamento dell a sussistenza dei crediti di cui era stata chiesta l’ammissione al passivo del fallimento) che temporale (poiché il giudizio innanzi al giudice del lavoro era stato incardinato prima di quello ex art. 98 l. fall.) imponeva -in tesi di parte ricorrente – di sospendere il processo di opposizione in attesa della decisione del magistrato del lavoro.
Il motivo non è fondato.
Il tribunale ha correttamente fatto richiamo alla giurisprudenza di questa Corte secondo cui, nel riparto di competenza tra il giudice del lavoro e quello del fallimento, qualora difetti un interesse del lavoratore alla tutela della propria posizione all’interno dell’impresa e
sia domandato un accertamento del diritto di credito risarcitorio, in via strumentale alla partecipazione al concorso nella procedura, la cognizione spetta al giudice fallimentare (cfr. Cass. 30512/2021, Cass. 7990/2018).
Nel caso di specie la domanda introdotta in sede fallimentare da COGNOME era rivolta, secondo i rilievi dei giudici di merito, ad acclarare la natura subordinata del rapporto intercorso con la società fallita solo in funzione del successivo accertamento del diritto di credito da ammettere al passivo.
Nessuna censura, dunque, può essere rivolta al provvedimento impugnato per aver preso in esame una domanda la cui cognizione spettava, secondo i principi appena richiamati, al giudice fallimentare in sede di verifica delle domande di insinuazione al passivo.
Questi principi non soffrivano eccezione per il solo fatto che la ricorrente, nelle more delle operazioni di verifica della sua insinuazione (come spiegato a pag. 7 del ricorso), avesse introdotto davanti al giudice del lavoro due giudizi per l’accertamento della sussistenza del rapporto di lavoro e del danno pensionistico: non solo perché non risulta affatto che il giudice delegato avesse imposto una simile condotta (avendo egli invece escluso il credito, dopo l’introduzione del giudizio lavoristico, rit enendolo non provato, stando a quanto indicato a pag. 1 del decreto impugnato), ma perché questa successiva duplicazione di parte della domanda in sede lavoristica non giovava certo a creare un rapporto di pregiudizialità in senso tecnicogiuridico fra le due cause di identico contenuto promosse nelle diverse sedi processuali, né valeva a sottrarre al giudice fallimentare la propria cognizione.
6.1 Il secondo motivo di ricorso lamenta, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 3), cod. proc. civ., la violazione o falsa applicazione degli artt. 2094 e 2697 c.c. e 116 cod. proc. civ., perché il tribunale ha ritenuto non provata l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra l’opponente e la fa llita sulla base di un esame degli elementi istruttori -in tesi del tutto parziale e sostanzialmente immotivato, all’esito
del quale sono state disattese le univoche risultanze dei mezzi di prova, malgrado fossero tutte convergenti e concludenti nel dimostrare l’effettiva esistenza del rapporto di lavoro subordinato addotto dalla COGNOME.
Il tribunale, inoltre, avrebbe respinto la domanda limitandosi a fare un richiamo generico e parziale al verbale contenente le deposizioni testimoniali, in tal modo rendendo impossibile comprendere, in violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4), cod. proc. civ., le ragioni del rigetto.
6.2 Il terzo motivo di ricorso denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5), cod. proc. civ., l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio e discussi fra le parti, costituiti: i) dalla circostanza che la RAGIONE_SOCIALE avesse lavorato per la società fallita dalla sua fondazione fino al fallimento; ii) dall’esistenza di un unico ufficio per la società fallita e la RAGIONE_SOCIALE dove la ricorrente aveva lavorato per l’intero periodo; iii) dalla circostanza che la ricorrente aveva sempre ricevuto direttive ed era stata sottoposta al potere disciplinare e gerarchico dell’amministratore unico della società poi fallita; iv) dal versamento da parte dell’amministratore unico di una retribuzione pari, da ultimo, a € 3.000 mensili; v) dalla circostanza che la ricorrente era tenuta a garantire la presenza nelle ore e nei giorni stabiliti, giustificando eventuali ritardi o assenze; vi) dalla circostanza che alla ricorrente era stata affidata la gestione degli incontri e dei rapporti con i produttori di latte; vii) dalla circostanza che i terzi che entravano in contatto con la società fallita si rivolgevano alla ricorrente, al suo indirizzo di posta elettronica aziendale.
I motivi, che possono essere esaminati congiuntamente, non meritano accoglimento.
7.1 E’ opportuno ricordare, anzitutto, che l’elemento indefettibile del rapporto di lavoro subordinato – e il criterio discretivo, nel contempo, rispetto a quello di lavoro autonomo – è la subordinazione, intesa come vincolo di soggezione personale del prestatore al potere direttivo del datore di lavoro, che inerisce alle intrinseche modalità di
svolgimento delle prestazioni lavorative e non già soltanto al loro risultato, mentre hanno carattere sussidiario e funzione meramente indiziaria altri elementi del rapporto di lavoro (quali, ad esempio, la collaborazione, l’osservanza di un determinato orario, la continuità della prestazione lavorativa, l’inserimento della prestazione medesima nell’organizzazione aziendale e il coordinamento con l’attività imprenditoriale, l’assenza di rischio per il lavoratore e la forma della retribuzione), i quali -lungi dal surrogare la subordinazione o, comunque, dall’assumere valore decisivo ai fini della prospettata qualificazione del rapporto – possono, tuttavia, essere valutati globalmente, appunto, come indizi della subordinazione stessa, tutte le volte che non ne sia agevole l’apprezzamento diretto a causa di peculiarità delle mansioni, che incidano sull’atteggiarsi del rapporto (cfr. Cass. 29973/2022, Cass. 11207/2009, Cass. 4500/2007).
Pertanto, solo quando l’elemento dell’assoggettamento del lavoratore alle direttive altrui non sia agevolmente apprezzabile a causa della peculiarità delle mansioni e del relativo atteggiarsi del rapporto, è possibile fare riferimento a criteri complementari e sussidiari appena richiamati (Cass., Sez. U., 379/1999).
In questa prospettiva di indagine costituivano circostanze rilevanti tutte quelle che dimostravano, per usare le stesse parole del giudice di merito, ‘ il pieno assoggettamento ‘ della lavoratrice ‘ al potere direttivo, organizzativo, gerarchico e disciplinare del datore di lavoro ‘ (pag. 5 del provvedimento impugnato), mentre non assumevano alcuna decisività tutti i diversi fatti, elencati nel terzo mezzo, di differente natura che avrebbero potuto costituire al più un criterio sussidiario e complementare nel caso (che non ricorreva nella fattispecie in esame, dato che la stessa lavoratrice aveva dedotto espressamente la sussistenza di un suo rapporto di soggezione al potere gerarchico e disciplinare della società datrice di lavoro) in cui il criterio indefettibile e discretivo rispetto al lavoro autonomo non fosse stato agevolmente apprezzabile.
Dunque, il tribunale, nell’indagare la sussistenza del rapporto di subordinazione dedotto dall’opponente, ha fatto corretta applicazione dei principi appena richiamati, preoccupandosi di verificare l’esistenza di un potere direttivo del datore di lavoro, in assenza della deduzione di aspetti peculiari delle mansioni svolte che rendessero difficilmente apprezzabile l’elemento dell’assoggettamento del lavoratore alle direttive altrui.
7.2 Una volta constatata la correttezza della prospettiva di indagine seguita dal giudice di merito, non rimane che ricordare che nel giudizio di cassazione è sindacabile solo la determinazione dei criteri generali ed astratti da applicare al caso concreto, mentre costituisce accertamento di fatto -incensurabile in questa sede ove congruamente motivata -la relativa valutazione (v. Cass. 22785/2013, Cass. 5079/2009).
Né è possibile sostenere che ricorra nel caso di specie un vizio di motivazione apparente (che sussiste ogni qual volta la decisione, benché graficamente esistente, non renda percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture; Cass., Sez. U., 22232/2016).
Il decreto impugnato, al contrario, spiega che la documentazione prodotta (mail aziendali, documenti elaborati dalla stessa ricorrente, conteggi ed estratti contributivi) nulla provava in ordine alla subordinazione ed evidenzia che le dichiarazioni testimoniali assunte (di cui riporta i passi rilevanti) non erano in grado di dimostrare che la COGNOME ricevesse direttive e fosse sottoposta al potere disciplinare della compagine poi fallita, in ragione della contraddittorietà e della genericità delle risposte date.
La doglianza concernente l’esistenza di un vizio di motivazione, quindi, non può che essere rigettata, dato che nel decreto impugnato
esiste (ed è ben comprensibile) una motivazione idonea a illustrare l’iter logico -intellettivo seguito dal giudice per arrivare alla decisione. 7.3 In questa sede di legittimità non può neppure essere predicata una violazione dell’art. 116 cod. proc. civ. sostenendo che le risultanze delle deposizioni testimoniali raccolte dovevano essere valorizzate in ben altra maniera.
Infatti, in tema di ricorso per cassazione la doglianza circa la violazione dell’art. 116 cod. proc. civ. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (Cass., Sez. U., 20867/2020).
7.4 Rispetto alla sola circostanza decisiva, costituita dall’esistenza di un potere direttivo, disciplinare e di controllo ad opera della compagine fallita, il terzo mezzo lamenta non tanto un omesso esame, ma un esame non conforme alla lettura che l’odierna ricorrente vorrebbe dare delle emergenze processuali; interpretazione, questa, che tuttavia non è coerente con la censura sollevabile ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., che consente di lamentare l’omissione dell’ esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio e non la valorizzazione di tale fatto in un senso differente da quello voluto dalla parte (Cass. 14929/2012, Cass. 23328/2012).
8. Per tutto quanto sopra esposto, il ricorso deve essere respinto.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in € 7.200, di cui € 200 per esborsi, oltre accessori come per legge e contributo spese generali nella misura del 15%.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, ove dovuto.
Così deciso in Roma in data 25 settembre 2024.