Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 27256 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 27256 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 12/10/2025
ORDINANZA
sul ricorso 26211-2024 proposto da: COGNOME NOME, rappresentato e difeso dagli avvocati
NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2586/2024 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 12/07/2024 R.G.N. 2275/2023; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
11/09/2025 dal AVV_NOTAIO Dott. COGNOME.
Fatti di causa
Oggetto
Qualificazione
rapporto privato
R.G.N.NUMERO_DOCUMENTO
COGNOME.
Rep.
Ud 11/09/2025
CC
La Corte di Appello di Napoli ha confermato la pronuncia del Tribunale di Torre Annunziata di rigetto delle domande, proposte da NOME COGNOME nei confronti della RAGIONE_SOCIALE, dirette ad ottenere l’accertamento della ricorrenza, dal settembre 2019 al 16 febbraio 2020, di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, con le mansioni di direttore del ristorante ‘RAGIONE_SOCIALE sito in Pompei, riconducibili al 2° livello del CCNL Turismo RAGIONE_SOCIALE, con conseguente condanna della società convenuta al pagamento in suo favore delle differenze retributive maturate durante lo svolgimento della prestazione lavorativa dedotta in giudizio.
La Corte territoriale, condividendo l’impostazione decisoria del primo giudice, ha rilevato che, dalla istruttoria espletata, non era dato desumere, con sufficienti margini di certezza e concretezza, la natura subordinata del rapporto di lavoro, con specifico riferimento al periodo in contestazione, non essendo emerso l’assoggettamento gerarchico del COGNOME al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro.
Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso NOME COGNOME sulla base di quattro motivi. La intimata società ha resistito con controricorso.
La Consigliera delegata ha, con atto del 10.3.2025, formulato proposta di definizione del giudizio ai sensi dell’art. 380 – bis c.p.c.
Il ricorrente ha chiesto la decisione del ricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei termini di legge ex art. 380 bis 1 cpc.
Ragioni della decisione
I motivi possono essere così sintetizzati.
Con il primo motivo, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, si denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2727, 2729 cod. civ., per non avere la Corte territoriale fatto risalire, dai fatti di causa noti, il fatto ignoto della subordinazione; in particolare, si deduce che la Corte territoriale avrebbe dovuto, dalla continuità del servizio prestato, dalla univocità dello stesso alle dipendenze della originaria resistente, dalla assenza di qualsiasi rischio imprenditoriale,e dall’assenza di qua lsiasi partecipazione ai risultati aziendali, dalla continuità e corresponsione a cadenza fissa della retribuzione, dall’assenza di qualsiasi contratto di lavoro autonomo o parasubordinato e dall’assenza in capo al lavoratore di una sia pur minima struttura imprenditoriale, accertare il vincolo della subordinazione nel rapporto di cui è processo.
Con il secondo motivo, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, si censura la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2730 cod. civ., per non avere la Corte territoriale attribuito valore confessorio alle circostanze chiaramente affermate dalla datrice di lavoro, nelle sue difese di primo grado, nella parte in cui veniva affermato che, al più, l’attività svolta da esso ricorrente avrebbe potuto essere considerata una collaborazione per circa cinque ore al giorno e nella parte in cui veniva precisato che il rapporto si era interrotto perché la società non era riuscita a sostenere i costi del dipendente.
Con il terzo motivo, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 5 cpc, si lamenta l’omesso esame di un fatto storico la cui esistenza risultava dagli atti processuali e che aveva costituito oggetto di discussione tra le parti, con carattere decisivo, per avere la Corte territoriale emesso una sentenza che recava una motivazione del tutto apodittica ed apparente, senza
valutazione dei testi escussi né delle dichiarazioni aventi valore confessorio.
Con il quarto motivo, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 5 cpc, si lamenta l’omesso esame di un fatto storico la cui esistenza risultava dagli atti processuali e che aveva costituito oggetto di discussione tra le parti, con carattere decisivo, per avere la Corte distrettuale liquidato la richiesta di accertamento del rapporto di lavoro subordinato senza avere dato alcun peso e rilievo alle chiarissime e precise deposizioni dei testi escussi in primo grado, con la conseguenza che la motivazione era affetta da insanabile contrasto con le risultanze processuali.
Ciò premesso, come correttamente rilevato nella proposta di definizione accelerata del giudizio, i motivi di ricorso sono inammissibili.
Invero, le censure del primo ed il secondo motivo, al di là delle denunciate violazioni di legge, tendono ad una inammissibile rivalutazione delle prove e ad una diversa ricostruzione della vicenda, che sono attività non consentite in sede di legittimità.
E’ opportuno precisare che, con riferimento alla dedotta violazione degli artt. 2727 e 2729 cod. civ., spetta al giudice di merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni semplici, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità, dovendosi tuttavia rilevare che la censura per vizio di motivazione in ordine all’utilizzo o meno del ragionamento presuntivo non può limitarsi a prospettare l’ipotesi di un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve fare emergere l’assoluta illogicità
e contraddittorietà del ragionamento decisorio, restando peraltro escluso che la sola mancata valutazione di un elemento indiziario possa dare luogo al vizio di omesso esame di un punto decisivo, e neppure occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo criterio di normalità, visto che la deduzione logica è una valutazione che, in quanto tale, deve essere probabilmente convincente, non oggettivamente inconfutabile (Cass. n. 22366/2021).
Orbene, va sottolineato che la posizione di subordinazione del lavoratore rispetto al datore di lavoro comporta la eterodirezione della prestazione lavorativa, nel senso che compete al datore di lavoro il coordinamento, sia dal punto di vista spazio-temporale che funzionale. Più in particolare, il vincolo di subordinazione consiste per il lavoratore in un vincolo di assoggettamento gerarchico (cfr. Cass. 13.2.2004 n. 2842; Cass. 15.6.2009 n. 13858), per il datore di lavoro di potere imporre direttive non soltanto generali, in conformità delle esigenze organizzative e funzionali, ma riguardanti di volta in volta l’intrinseco svolgimento delle mansioni affidate (cfr. Cass. 7.10.2004 n. 20002).
Inoltre, è stato affermato che, qualora il vincolo della subordinazione non sia agevolmente riscontrabile a causa del concreto atteggiarsi del rapporto di lavoro, è necessario far riferimento a criteri complementari e sussidiari i quali non assumono valenza determinante se singolarmente considerati, ma apprezzati nel loro complesso possono costituire indizi concludenti per l’esistenza di un rapporto
subordinato (cfr. ex aliis Cass. 29.3.2004 n. 6224; Cass. 19.4.2010 n. 9252).
La Corte territoriale, nell’escludere la natura subordinata del rapporto di lavoro come già rilevato in primo grado, ha specificato, conformemente agli orientamenti di cui sopra, con motivazione adeguata e dalla quale è possibile evincere l’iter logico seguito, che le prove testimoniali raccolte erano inidonee a dimostrare ‘con sufficienti margini di certezza e concretezza, la natura subordinata del rapporto di lavoro, con specifico riferimento al periodo in contestazione, non essendo emerso l’assoggettamen to gerarchico del lavoratore al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro’: ciò, naturalmente, avendo riguardo alle mansioni svolte e rivendicate dal COGNOME. A tale proposito va sottolineato che i richiamati precedenti di questa Corte, secondo cui, per quanto riferisce parte ricorrente, il cameriere di un ristorante non può essere mai considerato un lavoratore autonomo, non sono pertinenti, in primo luogo, perché il COGNOME era, come da lui stesso affermato nel ricorso introduttivo, direttore del Ristorante e non un mero cameriere e, in secondo luogo, perché le pronunce di legittimità non hanno affermato quanto sottolineato dal ricorrente, bensì hanno ritenuto sempre indispensabile una verifica, ai fini di ravvisare o meno la subordinazione, in ordine alla disponibilità del prestatore nei confronti del datore, con assoggettamento del primo al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del secondo, ed al conseguente inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale: accertamento che, nel caso in esame, risulta essere stato svolto.
Sono, poi, inammissibili le doglianze allorquando vengono censurati l’accertamento di fatto e la pertinenza delle prove
articolate che costituiscono facoltà rimesse all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito ed il mancato esercizio di tale potere, al pari di quello riconosciuto al giudice del lavoro di disporre d’ufficio dei mezzi di prova, involgendo un giudizio di merito, non può formare oggetto di censura in sede di legittimità, soprattutto se vi sia stata adeguata motivazione, come nel caso in esame (per tutte Cass. n. 10371/1995).
Va precisato, al riguardo, che la valutazione delle risultanze delle prove ed il giudizio sull’attendibilità dei testi, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (Cass. n. 16467/2017).
I giudici di seconde cure hanno, pertanto, a differenza di quanto sostiene parte ricorrente, esaminato tutti gli aspetti relativi alla possibile individuazione di un rapporto di lavoro di natura subordinata, evidenziando che ciò che era emerso dalla istruttoria era compatibile anche con una forma di collaborazione autonoma e non di lavoro subordinato.
In ordine alla asserita violazione dell’art. 2730 cod. civ. (secondo motivo), deve ribadirsi che alle ammissioni contenute negli scritti difensivi sottoscritti dal procuratore “ad litem” ben può essere attribuito valore confessorio riferibile alla parte, quando quegli scritti rechino anche la sottoscrizione della parte stessa, in calce o a margine dell’atto, dovendo presumersi che la parte abbia avuto la piena conoscenza di quelle ammissioni e ne abbia assunto –
anch’essa – la titolarità. Ciò vale, beninteso, alla stregua dell’art. 2730 c.c., nei confronti della parte verso la quale sia proposta la domanda giudiziale cui gli scritti difensivi contenenti tali ammissioni si riferiscono, mentre negli altri casi le ammissioni medesime, prive del valore privilegiato di prova legale, possono essere valutate non più che come semplice fonte di cognizione, dunque liberamente apprezzabili nel processo assieme ad altri elementi di prova (Cass. n. 23809/2023).
Nella fattispecie la doglianza, oltre ad essere generica perché non è specificato se la comparsa di costituzione e risposta resa in primo grado dalla resistente contenesse anche la firma del legale rappresentante della società con potere di impegnare, con la propria dichiarazione, la persona giuridica, comunque è stato affermato che il COGNOME aveva svolto mansioni di ‘coordinatore di camerieri’ ma non certo che si fosse trattato di un rapporto di lavoro di natura subordinata.
Quanto, poi, alle dedotte violazioni ex art. 360 n. 5 cpc, (terzo e quarto motivo), a prescindere dalla loro inammissibilità in rito perché si verte in fatto in una situazione processuale di cd. ‘doppia conforme’, deve precisarsi che l’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv. in l. n. 134 del 2012, ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); pertanto, l’omesso esame di
elementi istruttori (nel caso de quo le testimonianze rese in giudizio da alcuni testi) non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, come sopra detto, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. n. 27415/2018; Cass. 19881/2014).
Inoltre, va aggiunto che, in seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., disposta dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica del rispetto del «minimo costituzionale» richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost., che viene violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero si fondi su un contrasto irriducibile tra affermazioni inconcilianti, o risulti perplessa ed obiettivamente incomprensibile, purché il vizio emerga dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali: ipotesi, queste, non ravvisabili nel caso in esame.
Alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
Alla declaratoria di inammissibilità segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo.
Poiché il giudizio è definito in conformità della proposta, va disposta la condanna del COGNOME a norma dell’art. 96, comma 3 e comma 4, c.p.c.
Vale, infatti, rammentare quanto segue: in tema di procedimento per la decisione accelerata dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati, l’art. 380-bis, comma 3, c.p.c. (come novellato dal d.lgs. n. 149 del 2022) ─ che, nei casi di definizione del giudizio in conformità alla proposta, contiene una valutazione legale tipica della sussistenza dei presupposti per la condanna ai sensi del terzo e del quarto comma dell’art. 96 c.p.c. ─ codifica un’ipotesi normativa di abuso del processo, poiché il non attenersi ad una valutazione del proponente, poi confermata nella decisione definitiva, lascia presumere una responsabilità aggravata del ricorrente (Cass. Sez. U. 13 ottobre 2023, n. 28540).
In tal senso, il ricorrente va condannato, in favore della controricorrente, al pagamento della somma equitativamente determinata di €. 800,00, oltre che al pagamento dell’ulteriore somma di €. 800,00 in favore della Cassa delle ammende.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ult eriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite che liquida in euro 1.600,00 per compensi professionali, euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.
Condanna il ricorrente al pagamento della somma di €. 800,00 in favore della parte controricorrente, e di una ulteriore somma di €. 800,00 in favore della Cassa delle ammende.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, d ell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, l’11.9.2025 La Presidente DottAVV_NOTAIO NOME COGNOME