Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 13258 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 13258 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 14/05/2024
ORDINANZA
sul ricorso n. 17718/2020 r.g. proposto da:
COGNOME NOME, rappresentato e difeso dall’AVV_NOTAIO, e con lei elettivamente domiciliato in INDIRIZZO, INDIRIZZO, in virtù di procura speciale in calce al ricorso per cassazione,
-ricorrente –
contro
COGNOME NOME e COGNOME NOME, rappresentati e difesi, giusta procura speciale rilasciata su foglio separato autenticata con firma digitale, dall’AVV_NOTAIO, elettivamente domiciliati in Roma, INDIRIZZO, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO
-controricorrenti –
avverso la sentenza della Corte di appello di Lecce n. 1138/2019, depositata in data 15 ottobre 2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 9/5/2024 dal AVV_NOTAIO;
RILEVATO CHE:
Con accordo del 21 giugno 2002 NOME COGNOME si impegnava con NOME COGNOME a vendere in favore dei cugini NOME COGNOME e NOME COGNOME il 70% dell’azienda ‘RAGIONE_SOCIALE‘ in favore della costituenda società formata dai due NOME COGNOME NOME e NOME, per il corrispettivo in danaro di complessivi euro 36.152,00, a fronte del valore complessivo dell’azienda pari ad euro 51.646,00.
Tale 70% doveva essere versato, nell’immediatezza, con un acconto di euro 15.500,00, mentre il residuo pari ad euro 20.652,00 (ossia la differenza tra il 30% del valore dell’azienda – pari ad euro 36.152,2 – e la somma di euro 15.500,00 da pagare in acconto) doveva essere versato in un anno dalla conclusione dell’accordo.
Con il residuo 30% dell’azienda NOME COGNOME diveniva socio al 30% della costituenda società.
Venivano, poi, effettuati n. 7 pagamenti con assegni, i primi due da parte di NOME COGNOME, in data 28 giugno 2002, per euro 7000,00 e in data 16 luglio 2002, di euro 8500,00.
Gli ulteriori cinque assegni, per l’importo complessivo di euro 13.000,00 venivano effettuati da NOME COGNOME, rispettivamente in data 10/12/2002, per euro 5.000,00, in data 30/3/2005, per euro 1.500,00, in data 30/4/2005 per euro 1.500,00, in data 31/5/2005 di euro 2.500,00 ed in data 3/6/2005 di euro 2500,00.
In data 10/7/2002 veniva costituita la società RAGIONE_SOCIALE, della quale faceva parte COGNOME NOME.
Successivamente il 4/9/2002 veniva costituita la società RAGIONE_SOCIALE, le cui quote appartenevano per il 70% alla RAGIONE_SOCIALE e per il 30% ad NOME COGNOME.
Successivamente, l’attore, reputando impossibile cedere alla RAGIONE_SOCIALE la propria omonima azienda (impresa individuale), in quanto era socio al 30% della RAGIONE_SOCIALE), decideva di cedere la propria quota del 30% della RAGIONE_SOCIALE a NOME COGNOME (personalmente) per la somma concordata di euro 15.500,00, restando impregiudicati i precedenti accordi sulla cessione della propria azienda in favore della RAGIONE_SOCIALE
Venivano quindi stipulati due distinti, ma contestuali, atti notarili dell’8/11/2002.
Con il primo atto NOME COGNOME cedeva a NOME COGNOME la quota del 30% della RAGIONE_SOCIALE per la somma di euro 15.500,00, anche se nell’atto veniva indicato formalmente il corrispettivo della cessione in euro 3000,00.
Il valore di euro 15.500,00 era stato attribuito con la scrittura privata del 21/6/2002.
NOME COGNOME – a detta dell’attore – restava debitore della somma di euro 15.500,00 che provvedeva a pagare con i cinque versamenti, sopra indicati, per la somma complessiva di euro 13.000,00, residuando un debito di euro 2.500,00.
Con il secondo atto di cessione, sempre in data 8/11/2002, si procedeva alla cessione del 100% dell’azienda del RAGIONE_SOCIALE in favore della RAGIONE_SOCIALE, per la somma di euro 51.645,70, indicando nell’atto che tale prezzo era stato interamente pagato dall’acquirente al venditore («nell’atto di cessione del 100 % dell’azienda del RAGIONE_SOCIALE in favore della RAGIONE_SOCIALE veniva formalmente dichiarato che il prezzo di € 51.645,70 era stato interamente pagato dall’acquirente al venditore»).
Quanto a quest’ultimo atto, NOME COGNOME aveva già versato la somma di euro 15.500,00, con due assegni bancari rispettivamente di euro 7.000,00 in data 28/6/2002 e di euro 8.500,00 in data 16/7/2002, restando invece solidalmente debitrice, unitamente al fratello, della somma di euro 20.653,00.
Il 70% della quota dell’azienda era pari ad euro 36.146,00, e da tale somma doveva essere detratta quella già versata da NOME COGNOME pari ad euro 15.500, per un residuo dunque di euro 20.646,00.
Per quel che ancora qui rileva il tribunale di Lecce accoglieva integralmente la domanda formulata dall’attore, condannando NOME COGNOME al pagamento in favore del COGNOME della somma di euro 2.500,00, ed i due NOME NOME e NOME COGNOME, in solido tra loro, al pagamento della somma di euro 20.653,00.
La Corte d’appello di Lecce accoglieva il gravame proposto da NOME e NOME COGNOME evidenziando che occorreva «conferire rilievo al contenuto degli atti pubblici di cessione di quote prodotti in causa», all’interno dei quali «il corrispettivo delle cessioni viene dato per interamente pagato dall’acquirente al venditore, che rilascia quietanza a saldo».
L’indicazione contenuta negli atti notarili, di avvenuto pagamento del prezzo e di contestuale rilascio della quietanza, «pur in mancanza di indicazione delle modalità di esecuzione del pagamento – ossia se effettuato in contanti ovvero a mezzo assegni – deve comunque interpretarsi come dichiarazione delle parti del già avvenuto pagamento tra loro»; con la conseguenza che la quietanza, costituendo atto unilaterale di riconoscimento del pagamento, integrava, tra le parti, una confessione stragiudiziale, proveniente dal creditore e rivolta al debitore, che faceva prova piena della
corresponsione di una specifica somma di denaro per un determinato titolo.
In tal caso, l’esistenza del fatto estintivo (pagamento) da essa attestato poteva essere contestata soltanto mediante la prova degli stessi fatti (errore di fatto o violenza) richiesti dall’art. 2732 c.c. per privare di efficacia la confessione.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione NOME COGNOME, depositando anche memoria scritta.
Hanno resistito con controricorso NOME e NOME COGNOME, depositando anche memoria scritta.
CONSIDERATO CHE:
Con il primo motivo di impugnazione il ricorrente deduce «l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c.».
In particolare, la Corte d’appello avrebbe omesso l’esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.
La Corte territoriale ha ritenuto che, a fronte della stipulazione degli atti di cessione di quote e della quietanza di pagamento rilasciata in entrambi gli atti, l’unico rimedio esperibile dal COGNOME, per superare tale confessione stragiudiziale, consisteva nella prova dell’errore di fatto o della violenza ex art. 2732 c.c.
In realtà, sarebbe però sfuggito al giudice d’appello di considerare che i due appellanti, i NOME COGNOME, in sede di interrogatori formali resi nel giudizio di primo grado avevano confessato di non aver corrisposto il pagamento del corrispettivo integrale della vendita prima degli atti pubblici; in tal modo «’ sconfessando’ la dichiarazione resa dal sig. COGNOME NOME in sede
notarile, nella quale il sig. COGNOME dichiarava di aver già ricevuto le somme contenute nei due atti pubblici».
Dai due interrogatori formali, dunque, emergeva che l’importo di euro 51.645,70, relativo alla cessione dell’intera azienda di NOME COGNOME, era stato corrisposto in suo favore dai NOME COGNOME, una parte (euro 15.500,00) con i due assegni emessi da NOME COGNOME e «la restante parte in contanti nell’arco di un anno a decorrere dalla stipula, in quanto lei aveva dei soldi da parte».
NOME COGNOME, invece, aveva sostenuto che il debito nei confronti del COGNOME era stato saldato per una parte da sua sorella NOME, mediante due assegni, mentre «la residua parte spettava alla RAGIONE_SOCIALE e quindi né a lui né a sua sorella».
Ciò che rileva è dunque che «il corrispettivo della vendita non fu consegnato al COGNOME integralmente prima né in occasione delle stipule notarili».
La confessione stragiudiziale di NOME COGNOME, contenuta nei due atti simulati l’8/11/2002, di avvenuto integrale pagamento di quanto a lui spettante, era superata «da un’altra confessione di segno opposto», frutto degli interrogatori formali dei due NOME.
Il pagamento del corrispettivo non era stato da loro effettuato integralmente, prima delle stipule notarili.
Con il secondo motivo di impugnazione il ricorrente si duole della «violazione o falsa applicazione di norme di diritto o contratti collettivi nazionali di lavoro in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.».
La Corte d’appello avrebbe violato gli articoli 2724 e 2697 c.c., in quanto, sussistendo un principio di prova per iscritto di cui all’art. 2724 c.c., derivante dall’esito degli interrogatori formali di NOME e NOME COGNOME, era ammissibile la prova testimoniale.
Al contrario, il giudice d’appello si è limitato a ritenere sufficiente la dichiarazione del COGNOME contenuta negli atti pubblici, senza giustificare la limitazione istruttoria.
Pertanto, la prova testimoniale assunta nel giudizio di prime cure, congiuntamente a tutte le prove documentali ed alla confessione resa dagli appellanti, avrebbe dovuto indurre la Corte d’appello a confermare la ricostruzione dei fatti come prospettata dal COGNOME e scaturita nella sentenza di condanna di primo grado.
Con il terzo motivo di impugnazione il ricorrente lamenta «l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che stato oggetto di discussione fra le parti, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c.».
La Corte d’appello, dunque, oltre a non aver considerato la confessione resa dei NOME COGNOME e, ad aver violato gli articoli 2697 e 2724 c.c., non avrebbe considerato tutte le prove documentali depositate dall’attore, oltre alle prove orali assunte nel giudizio di primo grado (testimonianze e interrogatorio formale).
Il giudice d’appello si sarebbe limitato a ritenere sufficiente la dichiarazione del COGNOME contenuta negli atti pubblici, senza giustificare la limitazione istruttoria.
I primi due motivi di impugnazione, che per ragioni di stretta connessione vanno trattati congiuntamente, sono infondati.
4.1. Deve muoversi dalla considerazione che l’indicazione del venditore, contenuta nell’atto notarile di compravendita, che il «pagamento del prezzo complessivo è avvenuto contestualmente alla firma del presente atto» non è coperto da fede privilegiata ex art. 2700 c.c. (Cass., sez. 3, 27 novembre 2014, n. 25213; Cass., sez. 2, 29 settembre 2017, n. 22903), ma ha natura confessoria, con la conseguenza che il quietanziante non è ammesso alla prova contraria per testi o per presunzioni, salvo che dimostri, in
applicazione analogica dell’art. 2732 c.c., che il rilascio della quietanza è avvenuto per errore di fatto o per violenza o salvo che se ne deduca la simulazione; quest’ultima nel rapporto tra le parti deve essere provata mediante controdichiarazione scritta (Cass., sez. 3, 28 febbraio 2023, n. 5945; Cass., sez. 2, 29 settembre 2020, n. 20520; Cass., sez. 5, 14 dicembre 2018, n. 32458; Cass., Sez. U., 22 settembre 2014, n. 19888).
Tuttavia, va chiarito che, in base al principio consolidato della giurisprudenza di legittimità, la quietanza, quale dichiarazione di scienza del creditore assimilabile alla confessione stragiudiziale del ricevuto pagamento, può essere superata dall’opposta confessione giudiziale del debitore, che ammetta, nell’interrogatorio formale, di non aver corrisposto la somma quietanzata; invero, l’art. 2726 cod. civ. limita, quanto al fatto del pagamento, la prova per testimoni e per presunzioni, non anche la prova per confessione (Cass., sez. 2, 22 ottobre 2013, n. 23971; più di recente Cass., sez. 6-3, 15 giugno 2022, n. 19283).
5. Inoltre, deve osservarsi che per giurisprudenza costante di questa Corte il principio di prova scritta che giustifica la deroga al divieto di prova testimoniale e quindi di prova presuntiva può desumersi dalle risposte date dalla parte nell’interrogatorio formale, in quanto la verbalizzazione e la successiva sottoscrizione danno l’assoluta certezza che l’ammissione proviene dalla parte stessa e tale ammissione rende almeno verosimili i fatti che si dovranno poi ulteriormente provare a mezzo di testimoni o di presunzione (Cass., sez. 2, 6 settembre 2002, n. 12980, in motivazione; Cass., n. 3120 del 1999; Cass., n. 4522 del 1993; Cass., n. 802 del 1992; Cass., n. 9999 del 1969; Cass., n. 2610 del 1964).
Il principio di prova per iscritto, che consente l’ammissione della prova testimoniale, deve provenire dalla controparte e non è
necessario un preciso riferimento al fatto controverso, ma l’esistenza di un nesso logico tra lo scritto e il fatto stesso, da cui scaturisca la verosimiglianza del secondo (Cass., n. 3869 del 2004). Non è, quindi, richiesto che il documento sia idoneo a dimostrare direttamente quel fatto, essendo solo sufficiente che da esso scaturisca la verosimiglianza del fatto controverso (Cass., n. 27013 del 2005).
Il principio di prova scritta che giustifica la deroga al divieto di prova testimoniale e, quindi, di prova presuntiva può desumersi dalle risposte date dalla parte nell’interrogatorio, essendo sufficiente l’esistenza di un nesso logico tra lo scritto e il fatto stesso, da cui emerga la verosimiglianza di quest’ultimo. Ciò costituisce peraltro un apprezzamento di merito insindacabile in sede di legittimità se congruamente e logicamente motivato (Cass., n. 12980 del 2002; Cass., n. 17766 del 2012).
E’, infatti, principio fermo di questa Corte quello per cui non è soggetta a sindacato di legittimità, purché sia immune da errori logici e giuridici, l’interpretazione effettuata dai giudici di merito in ordine alla dichiarazione resa da una parte al fine di stabilire se essa costituisca confessione (Cass. 17 maggio 1974, n. 1427; Cass. 10 gennaio 1972, n. 62; Cass. 20 aprile 1968, n. 1218; Cass. 2 ottobre 1967, n. 2239; Cass. 28 marzo 1966, n. 827). E qui il giudice di merito ha ritenuto che la quietanza non fosse superata da contrarie risultanze istruttorie.
Il terzo motivo è inammissibile perché si chiede una nuova valutazione del materiale istruttorio già compiutamente vagliato dal giudice di mero, non consentita in questa sede.
Le spese del giudizio di legittimità vanno poste, per il principio della soccombenza, a carico del ricorrente e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente a rimborsare ai controricorrenti le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessivi euro 3.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15 %, oltre Iva e Cpa.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-q uater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso art. 1, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 9 maggio 2024