Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 32722 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 32722 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 16/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso 11558-2021 proposto da:
COGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME giusta procura in calce al ricorso;
-ricorrente –
contro
COGNOME rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME giusta procura in calce al controricorso;
-controricorrente – avverso la sentenza n. 799/2021 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 02/02/2021;
lette le memorie delle parti;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 26/11/2024 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE
1. Con atto di citazione notificato nell’aprile 2000 COGNOME NOME conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Roma la sorella COGNOME NOME chiedendo che in esecuzione dell’obbligo assunto dalla convenuta in due accordi conclusi il 29 aprile 1996 e il 31 ottobre 1996 tra le parti e il loro genitore COGNOME NOME, venisse trasferita ad esso attore la nuda proprietà nella misura del 50% di un immobile sito in Milano Marittima, INDIRIZZO; l’istante domandava altresì che controparte fosse condannata al risarcimento dei danni da liquidarsi in separata sede.
Si costituiva in giudizio la convenuta, la quale chiedeva in via riconvenzionale di accertare la nullità del patto del quale controparte chiedeva l’adempimento, e ciò sul presupposto che fosse stata convenuta una donazione, o al più una promessa di donazione, che era nulla per difetto di forma e di spirito di liberalità.
Il tribunale accoglieva le domande attrici e rigettava la domanda riconvenzionale.
Contro la sentenza proponeva appello NOME COGNOME e, nella resistenza di NOME COGNOME, la Corte di appello di Roma, con sentenza depositata il 17 giugno 2010, respingeva il gravame. Osservava la corte distrettuale che il contratto del 31 ottobre 1996 era da qualificarsi come transazione e che nella fattispecie doveva trovare applicazione il principio per cui, quando con un unico accordo le parti definiscono ogni loro potenziale controversia relativa non già a un solo rapporto, bensì a una molteplicità di rapporti tra di loro intercorrenti, la concessione di
ciascuna parte ben può risolversi anche nell’integrale sacrificio di una sola posizione.
Rilevava altresì il giudice dell’impugnazione che la qualificazione dell’accordo come transazione non richiedeva l’equivalenza delle reciproche concessioni che le parti avessero previsto al fine di prevenire una controversia, anche solo potenziale.
Con riferimento alla questione, sollevata dall’appellante, relativa all’omessa integrazione del contraddittorio nei confronti di NOME COGNOME la corte di merito osservava, poi, che l’accertamento afferente all’assetto di interessi cui il predetto aveva partecipato andava effettuato in via meramente incidentale.
Infine, osservava che la condanna generica al risarcimento dei danni richiedeva solo l’astratta potenzialità dannosa della condotta posta in atto.
Contro questa sentenza ricorse per cassazione NOME COGNOME sulla base di dodici motivi di impugnazione, cui resistette con controricorso NOME COGNOME
Questa Corte con la sentenza n. 8917/2016 ha accolto i primi sei motivi di ricorso, e rigettato il nono, dichiarati inammissibili il decimo e l’undicesimo, assorbiti i restanti, ed ha cassato la sentenza impugnata, con rinvio per nuovo esame alla Corte d’Appello di Roma, in diversa composizione.
Per quanto rileva in questa sede, la sentenza di questa Corte, nell’affrontare i primi sei motivi, che investivano, da diverse angolazioni, la qualificazione, in termini di transazione, dell’accordo del 31 ottobre 1996, ricordava che effettivamente ai giudici di merito non era precluso procedere a una siffatta qualificazione, ben potendo dare al rapporto dedotto in causa una
definizione giuridica diversa da quella prospettata dalle parti, ponendo a fondamento della loro decisione principi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti, fermo restando che il giudice non deve pronunciare oltre i limiti della domanda e delle eccezioni proposte dalle parti, né su questioni non formanti oggetto del giudizio e non rilevabili d’ufficio, attribuendo un bene non richiesto o diverso da quello domandato. Poiché l’attore aveva invocato quanto convenuto nell’accordo per sorreggere la propria pretesa, il giudice, nell’operare la qualificazione dello stesso, non aveva esteso la propria cognizione a questioni riservate all’iniziativa delle parti processuali.
Quindi, dopo avere richiamato la regola per cui l’operazione qualificatoria consta di due fasi consistenti, la prima, nella individuazione ed interpretazione della comune volontà dei contraenti, la seconda, nell’inquadramento della fattispecie negoziale nello schema legale paradigmatico corrispondente agli elementi, in precedenza individuati, che ne caratterizzano l’esistenza giuridica, rilevava che la ricorrente aveva censurato la sentenza impugnata avendo tra l’altro riguardo: al difetto di prova della natura transattiva dell’accordo; all’assenza di motivazione circa l’esistenza delle reciproche concessioni e della lite; alla mancata enunciazione nel corpo del contratto, dei suddetti elementi, tenuto anche conto del fatto che il negozio soggiaceva alla forma scritta ad substantiam; alla incongruità della motivazione, laddove fondava l’accordo transattivo sulla volontà di comporre le questioni successorie e sulla ritenuta “non estraneità” del cespite al patrimonio familiare.
Inoltre, era attinta anche la motivazione della sentenza d’appello in quanto il sesto motivo denunciava proprio il vizio di cui all’art. 360, n. 5, con riguardo agli specifici profili che si sono ricordati.
Ricordava che l’interpretazione dell’accordo per cui è causa – che costituisce, come si è visto, la prima delle attività che il giudice è chiamato a svolgere ai fini della qualificazione del contratto doveva anzitutto portare a evidenziare se tra le parti sussistesse la res litigiosa , necessaria per la configurazione della transazione. Perché essa sia presente non occorre che le rispettive tesi delle parti abbiano assunto la determinatezza propria della pretesa, essendo sufficiente l’esistenza di un dissenso potenziale, pur se ancora da definire nei più precisi termini di una lite, e non esteriorizzata in una rigorosa formulazione (Cass. 10 aprile 2006, n. 8301; Cass. 16 luglio 2003, n. 11142; Cass. 11 marzo 1983, n. 1846).
La Corte di Appello aveva esattamente precisato che, a fronte della definizione di una potenziale controversia relativa a una molteplicità di rapporti intercorrenti tra le parti (c.d. transazione generale: art. 1965, 2 °co. c.c.), non è necessario individuare una concessione in relazione ad ognuna delle singole vicende implicate, potendo la concessione di ciascuna parte tradursi anche nel totale sacrificio di una sola posizione, relativa ad uno dei vari affari coinvolti nel componimento di interessi; la medesima corte aveva tuttavia mancato di spiegare in modo chiaro ed esauriente quale fosse la res litigiosa del divisato accordo transattivo, in quanto si era richiamata all’apertura della successione della madre degli odierni contendenti, attestandosi, poi, sulla generica affermazione che il contratto concluso mirava a “regolare molteplici distinti interessi, pur connessi in parte con la suddetta
successione”. Locuzione, questa, con cui non risultava affatto precisato quale fosse la situazione di dissenso potenziale tra contraenti che la convenzione intendeva prevenire e che, oltretutto, risultava correlata a un’affermazione – quella della non completa estraneità dell’immobile al patrimonio familiare – che non risultava sufficientemente definita nei suoi contorni, né esaurientemente argomentata.
Il giudice del merito avrebbe dovuto verificare se era possibile trarre un riscontro della res litigiosa dalla scrittura privata che documentava l’accordo, giacché quest’ultimo, a prescindere dalla prescrizione contenuta nell’art. 1967 c.c., aveva ad oggetto il trasferimento di un bene immobile (art. 1350, n. 12 c.c.). Dalla scrittura contenente la transazione devono infatti risultare gli elementi essenziali del negozio, e quindi la comune volontà delle parti di comporre una controversia in atto o prevista e la res dubia (o res litigiosa ), vale a dire la materia oggetto delle contrastanti pretese giuridiche delle parti (oltre che il nuovo regolamento di interessi, che, mediante le reciproche concessioni, viene a sostituirsi a quello precedente cui si riconnetteva la lite o il pericolo di lite (Cass. 4 settembre 1990, n. 9114; Cass. 7 maggio 1997, n. 3969). Ora, solo a fronte del positivo accertamento dell’esistenza di una res litigiosa , accertamento che è riservato al giudice di merito, può porsi il problema se la situazione di contrasto potenziale tra i contraenti fu superata attraverso reciproche concessioni.
Il giudizio è stato riassunto da COGNOME NOME e nella resistenza del fratello, la Corte d’Appello di Roma, quale giudice di rinvio, con la sentenza n. 799 del 2/2/2021 ha accolto l’appello della convenuta, rigettando la domanda dell’attore e dichiarato, in
accoglimento della riconvenzionale, la nullità del patto di cessione della quota del 50% della nuda proprietà dell’immobile in Milano Marittima alla INDIRIZZO
La sentenza di rinvio, dopo avere riepilogato il contenuto della scrittura privata intercorsa tra NOME COGNOME ed il padre, che prevedeva che entrambi si impegnavano, rispettivamente nella qualità di nuda proprietaria e di usufruttuario, a mettere in vendita l’appartamento citato al prezzo di mercato, aggiungendo che, se entro il 1997 non si fosse perfezionata la vendita, NOME COGNOME si impegnava a cedere con atto pubblico il 50 % della nuda proprietà al fratello NOME, riteneva che dalla sua lettura non traspariva alcuna oggettiva situazione di contrasto tra le parti in ordine a tale immobile. Inoltre, non era sufficiente la sola comune volontà di comporre una controversia, ma era necessario individuare la res litigiosa , emergendo solo la volontà delle parti di disporre di comune accordo in ordine all’eventuale vendita del bene.
La pretesa dell’attore di conseguire il trasferimento del 50% della nuda proprietà non poteva avere seguito, in quanto ove si volesse accedere alla tesi che vi era un preliminare di vendita, lo stesso era affetto da nullità per assenza di indicazione del prezzo, mentre, una volta esclusa la ricorrenza di una transazione, la stessa scrittura si palesa come una donazione nulla, per vizio di forma, ovvero come un preliminare di donazione, a sua volta affetto da nullità.
Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso, affidato a cinque motivi, COGNOME Giovanni.
L’intimata resiste con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memorie in prossimità dell’udienza.
Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione degli artt. 1362 e 1363 c.c., in quanto il giudice di rinvio, venendo meno al dovere di valutare ex novo i fatti dedotti nonché quelli già allegati e comunque rilevanti ai fini della decisione, ha omesso di prendere in esame il contenuto dell’atto notarile di divisione, intervenuto il medesimo giorno della scrittura oggetto di causa, posto che tale congiunta disamina avrebbe permesso di apprezzare, alla luce del comportamento complessivo delle parti, come i due atti si inserissero in un’unica operazione volta a regolare la successione della defunta COGNOME NOME, madre delle parti in causa.
Si ricorda che la scrittura privata nella seconda parte si occupava anche dei canoni di locazione tratti da alcuni beni in comunione tra i germani, e che si tratta evidentemente di beni anche loro facenti parte della successione materna, così che anche la previsione della vendita dell’immobile a Milano Marittima si inseriva nell’intento delle parti di definire la complessiva vicenda successoria della madre, dovendo il trasferimento della quota della nuda proprietà andare a compensare la sperequazione generata dalla divisone in danno del ricorrente.
Il motivo è infondato.
L’interpretazione di un atto negoziale è tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità, se non nell’ipotesi di violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, di cui all’art. 1362 c.c., e segg., o di motivazione inadeguata (ovverosia, non idonea a consentire la ricostruzione dell’iter logico seguito per giungere alla decisione).
Sicché, per far valere una violazione sotto il primo profilo, occorre non solo fare puntuale riferimento alle regole legali d’interpretazione (mediante specifica indicazione dei canoni asseritamente violati ed ai principi in esse contenuti), ma altresì precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito se ne sia discostato; con l’ulteriore conseguenza dell’inammissibilità del motivo di ricorso che si fondi sull’asserita violazione delle norme ermeneutiche o del vizio di motivazione e si risolva, in realtà, nella proposta di una interpretazione diversa (Cass. 26 ottobre 2007, n. 22536). D’altra parte, per sottrarsi al sindacato di legittimità, quella data dal giudice del merito al contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili e plausibili interpretazioni (tra le altre: Cass. 12 luglio 2007, n. 15604; Cass. 22 febbraio 2007, n. 4178). Ne consegue che non può trovare ingresso in sede di legittimità la critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca esclusivamente nella prospettazione di una diversa valutazione degli stessi elementi già dallo stesso esaminati; sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Cass. 7500/2007; 24539/2009). In tal senso è quindi sufficiente che quella offerta dal giudice sia una delle possibili interpretazioni (Cass. 7500/07; Cass. n. 24539/09) e non è, quindi, necessario che quella data dal giudice sia l’unica interpretazione possibile (Cass. 4178/07; Cass. n. 10131/06).
Peraltro rileva che la sentenza di questa Corte che ha cassato la prima sentenza di appello aveva espressamente affermato che, per riscontrarsi la natura transattiva della scrittura de qua, era necessario che dalla scrittura stessa dovessero risultare gli elementi essenziali del negozio, e quindi, la comune volontà delle parti di comporre una controversia in atto o prevista, la ” res dubia “, vale a dire la materia oggetto delle contrastanti pretese giuridiche delle parti, nonché il nuovo regolamento di interessi, che, mediante le reciproche concessioni, viene a sostituirsi a quello precedente cui si riconnetteva la lite o il pericolo di lite.
Trattasi di principio che trova il conforto della precedente giurisprudenza di legittimità che (Cass. n. 9114/1990), pur precisando che solo per le transazioni – al di fuori dei rapporti considerati nell’art. 1350 n. 12 cod. civ., per i quali è invece prescritta la forma ad substantiam – la comune volontà delle parti di comporre una controversia in atto o prevista, la res dubia , vale a dire la materia oggetto delle contrastanti pretese giuridiche delle parti, e il nuovo regolamento di interessi, che, mediante le reciproche concessioni, viene a sostituirsi a quello precedente cui si riconnetteva la lite o il pericolo di lite, devono comunque emergere dall’atto, pur non essendo indispensabile che nella stessa scrittura le parti enuncino le rispettive tesi contrapposte, ne’ che delle rispettive concessioni sia fatta una precisa e dettagliata indicazione, essendo sufficiente che il complesso dei diritti abdicati dall’uno e dall’altro contraente possa essere desunto, sinteticamente ma con certezza e per via logica di consequenzialità, dal nuovo regolamento di interessi concordato in sostituzione di quello anteriore (conf. Cass. n. 23482/2017).
Già il limite posto dalla precedente sentenza di questa Corte imponeva al giudice di rinvio di attenersi precipuamente al contenuto della scrittura azionata in giudizio dal ricorrente con la ulteriore precisazione che, vertendosi in materia di transazione che coinvolgerebbe il trasferimento di beni immobili, il rigore formale appare accentuato, imponendosi una maggiore specificazione del contenuto della res controversa nonché della concessioni reciprocamente effettuate.
Orbene, e stando al contenuto della scrittura privata del 31 ottobre 2006 (al cui contenuto doveva limitarsi il compito devoluto al giudice di rinvio, emergendo che il richiamo alla necessità di dover coordinare l’interpretazione dell’atto con la contestuale divisione dei beni, appare frutto di un’allegazione svolta solo in sede di rinvio e quindi in maniera inammissibile), in primo luogo non si rinviene alcun richiamo alla coeva divisione dei beni caduti nella successione materna, il che già rende poco praticabile la pretesa di operare una valutazione congiunta dei due atti.
Né appare risolutivo in tal senso il richiamo alla necessità di estinguere i debiti contratti per le cure dell’COGNOME, ovvero altri debiti verso privati, o ancora l’acquisto di una cap pella per tumulare la defunta, mancando la prova che si tratti di debiti contratti dalla de cuius, e quindi ricadenti nella definizione della successione materna, ovvero che l’acquisto della cap pella rispondesse ad una volontà della madre.
Del pari indimostrata è poi l’affermazione del ricorrente secondo cui, nonostante la coeva divisione dei beni immobili facenti parte della successione materna, vi sarebbero altri beni immobili del pari appartenuti in vita alla madre e che il riferimento alla
definizione dei rapporti di dare ed avere dei canoni sarebbe riferita a tali beni, non avendo l’attore in alcun modo documentato la veridicità di tale assunto, e non sussistendo elementi per poter affermare che la detta divisione non avesse avuto carattere esaustivo in ordine alla distribuzione del patrimonio immobiliare materno.
L’affermazione, ancorché sintetica, del giudice di rinvio secondo cui non si evincerebbe dalla lettura della scrittura privata alcuna situazione di contrasto tra le parti in ordine alle vicende successorie materne, non si palesa come del tutto implausibile, mancando effettivamente un qualsivoglia richiamo ad una permanente situazione di contrasto.
Inoltre, anche a voler in ipotesi reputare che le questioni relative alle rendite immobiliari fruite coinvolgessero anche i beni oggetto della divisione, la precisa ed analitica regolamentazione contenuta nella scrittura privata impone di ritenere che le stesse avessero trovato una puntuale definizione secondo quanto precisato ai punti da a) a c) della scrittura, non emergendo quindi il permanere di una res controversa , sulla quale potesse incidere in via transattiva la sorte del bene in Milano Marittima.
Ma anche a voler in ipotesi correlare la scrittura de qua alla divisione coeva, la conclusione ermeneutica del giudice di rinvio non si palesa erronea nei sensi sopra indicati.
Il contenuto della divisione risulta tale da avere integralmente tacitato le pretese dei condividenti, come si ricava anche dal contenuto dell’atto e dall’attribuzione di valore alle quote ivi assegnate, non rinvenendosi alcuna formulazione di riserve in merito alla idoneità della distribuzione a soddisfare i diritti vantati dai condividenti (appare del pari apodittica l’affermazione del
ricorrente secondo cui la distribuzione delle quote sarebbe stata a lui sfavorevole).
Ancora, non vi è perfetta identità tra le parti della divisione (i soli germani COGNOME) e quelle della scrittura privata (la controricorrente ed il padre), come del pari, ove si reputi che la transazione investa, sia pure con il coinvolgimento di un bene formalmente estraneo alla successione materna, la definizione di quest’ultima, non si comprende la ragione per la quale alla stessa avrebbe dovuto concorrere anche NOME COGNOME che, come si rileva dagli atti, aveva rinunciato alla successione del coniuge.
Manca quindi anche la possibilità di poter inferire quell’univoco e reciproco legame tra i due atti, potendosi al più ipotizzare, in ragione del coinvolgimento di COGNOME NOME, e del richiamo al fatto che nella scrittura si faccia menzione di un acquisto in Monterosi, che dovrebbe riferirsi esclusivamente alla persona di COGNOME NOME, che in relazione a tale immobile ci si richiami ai germani COGNOME quali eredi di NOME COGNOME, ed ai benefici che COGNOME NOME aveva ricevuto in passato ed avrebbe ricevuto anche in futuro), che la scrittura puntasse piuttosto, ove le si voglia annettere una portata transattiva, a regolare pro futuro eventuali contrasti che sarebbero potuti insorgere in relazione alla diversa successione paterna (non è casuale che la questione dei canoni di locazione investe beni dei quali COGNOME NOME era usufruttuario quanto meno pro quota, e quindi una pretesa formalmente estranea alla successione materna), il che pone seri dubbi di compatibilità della medesima con il divieto di cui all’art. 458 c.c. La censura in esame, ancorché formulata mediante la denuncia di violazione di legge, attinge pertanto un apprezzamento riservato
al giudice di merito, ed insuscettibile, per quanto detto, di sindacato in questa sede.
Le superiori considerazioni in ordine alla impossibilità di poter riscontrare un sicuro collegamento tra la scrittura oggetto di causa e la divisione coeva, nel senso che la prima avesse la finalità di offrire una definizione transattiva delle eventuali controversie residuate alla seconda (e delle quali non si rinviene traccia alcuna né nella scrittura né nell’atto di divisione), denota altresì l’infondatezza del quinto motivo di ricorso che denuncia ex art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c. l’omesso esame di un fatto decisivo, costituito appunto dalla divisione dei beni materni.
Il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione dell’art. 764 c.c., nella parte in cui la sentenza impugnata ha escluso che la scrittura privata potesse valere come atto diverso dalla divisione ex art. 764 c.c., riconducibile se del caso alla divisione transattiva ovvero alla transazione divisoria.
L’impossibilità di poter evincere dal contenuto della scrittura sia la res dubia ancora esistente tra le parti sia l’oggetto delle reciproche concessioni, come chiarito in occasione della disamina del primo motivo, implica manifestamente l’infondatezza del mezzo in esame che evidentemente presuppone la possibilità di annettere a detta scrittura una funzione definitoria di una res controversa tra le parti.
Il terzo motivo di ricorso lamenta la violazione dell’art. 769 c.c., in quanto la Corte avrebbe affermato che l’impegno a trasferire la quota della nuda proprietà al ricorrente sarebbe una donazione nulla per difetto di forma, ovvero un preliminare di donazione a sua volta affetto da nullità.
Il motivo è infondato in quanto, una volta esclusa la causa transattiva nella scrittura de qua, e l’assenza della previsione di un corrispettivo a fronte dell’impegno assunto dalla controricorrente, è stato correttamente evidenziato come non fosse possibile rinvenire una diversa giustificazione causale per l’impegno, se non quello liberale, ricorrendo in questo caso le ricordate cause di nullità.
Il motivo non contesta a ben vedere la correttezza in punto di diritto della soluzione raggiunta, ma critica l’esito raggiunto, ancora una volta richiamando il fatto che la giustificazione dell’impegno (come evincibile anche dal coevo atto di divisione) era da leggere in chiave transattiva, esito ermeneutico che però questa Corte ha già avuto modo di disattendere.
Il quarto motivo di ricorso denuncia la violazione degli artt. 1366, 1367 e 1369 c.c., in quanto la conclusione in punto di nullità dell’impego contrattuale a trasferire la quota della nuda proprietà contrasta con il principio di conservazione del contratto, e con l’esigenza che le clausole ambigue debbano essere interpretate nel senso più conveniente alla natura ed all’oggetto del contratto.
I giudici di rinvio avrebbero, quindi, dovuto accedere ad un’esegesi della previsione che ne assicurasse il permanere degli effetti atteso il carattere lato sensu divisorio dell’impegno.
Il motivo è del pari privo di fondamento, in quanto, oltre a riprendere il leitmotiv dell’intero ricorso, e cioè il legame che sussisterebbe tra la divisione dei beni materni e l’impegno de quo, sul quale il Collegio ha avuto reiteratamente occasione di esprimersi in senso negativo, trascura il fatto che ai fini di individuare la comune intenzione delle parti, il giudice deve
preliminarmente procedere all’interpretazione letterale dell’atto negoziale e delle singole clausole singolarmente e le une per mezzo delle altre, secondo i criteri ermeneutici principali previsti agli artt. 1362 e ss. c.c.; così che il giudice può avvalersi del criterio di cui all’art. 1367 c.c., avente carattere sussidiario ed integrativo, solo qualora non sia stato in condizione di individuare il comune intento delle parti attraverso l’utilizzazione delle predette regole interpretative; in caso contrario, l’interpretazione conservativa non può aver luogo (Cass. n. 17063 del 20/06/2024).
L’approdo interpretativo del giudice di merito ha peraltro chiaramente concluso per l’impossibilità di attribuire alla scrittura un carattere transattivo, il che porta all’altra affermazione di principio, idonea ad escludere l’invocazione dell’art. 1367 c.c., secondo cui la norma de qua può trovare applicazione solo quando il senso del contratto o di una sua clausola sia rimasto oscuro o ambiguo nonostante l’utilizzo dei principali criteri ermeneutici (letterale, logico e sistematico); ove però, come nella fattispecie, l’indagine sia stata ritenuta satisfattiva sulla base dei suddetti criteri, opera il limite comune agli altri criteri sussidiari, secondo cui la conservazione del contratto non può mai comportare una interpretazione sostitutiva della volontà delle parti, dovendo in tal caso il giudice dichiarare, ove ne ricorrano gli estremi, la nullità del contratto o della clausola (cfr. ex multis Cass. n. 19493 del 23/07/2018).
Il ricorso è pertanto rigettato, ed al rigetto consegue la condanna del ricorrente al rimborso delle spese del presente giudizio, come liquidate in dispositivo.
Poiché il ricorso è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto -ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato -Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1quater dell’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 -della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso, e condanna il ricorrente al rimborso dele spese del presente giudizio che liquida in complessivi € 8.200,00, di cui € 200,00 per esborsi, oltre spese generali, pari al 15% sui compensi, ed accessori di legge;
ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, inserito dall’art. 1, co. 17, l. n. 228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato per il ricorso a norma dell’art. 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso nella camera di consiglio del 26 novembre 2024