Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 26624 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 26624 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 03/10/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 741/2019 R.G. proposto da RAGIONE_SOCIALE , elettivamente domiciliata presso l’indicato indirizzo PEC dell ‘ AVV_NOTAIO, che la rappresenta e difende – ricorrente –
contro
Fallimento RAGIONE_SOCIALE , elettivamente domiciliato in Roma, INDIRIZZO, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO, rappresentato e difeso dall’AVV_NOTAIO
– controricorrente –
avverso il decreto cron. n. 612/2018, depositato dal Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto il 10.11.2018;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 10.9.2025 dal Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
RAGIONE_SOCIALE presentò domanda di rivendica di quattro imbarcazioni inventariate all’attivo del fallimento RAGIONE_SOCIALE
A fronte del rigetto della domanda da parte del giudice delegato, la ricorrente presentò opposizione ai sensi dell’art. 98 legge fall., che venne a sua volta respinta dal Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto.
Contro il decreto del Tribunale, RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione, articolato in undici motivi.
Il fallimento RAGIONE_SOCIALE si è difeso con controricorso, illustrato anche con memoria depositata nel termine di legge anteriore alla data fissata per la trattazione in camera di consiglio ai sensi dell ‘ art. 380 -bis .1 c.p.c.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il primo motivo di ricorso denuncia la «violazione in relazione a ll’ art. 360, n. 3, c.p.c. dell’art. 84 e 87 della legge fallimentare».
La ricorrente sostiene che i beni rivendicati non avrebbero dovuto essere inventariati e acquisiti all’attivo fallimentare in quanto non erano stati rinvenuti presso la sede principale dell’impresa fallita.
1.1. Il motivo è inammissibile, innanzitutto perché pone una questione di per sé irrilevante nel presente processo, il cui oggetto non è la legittimità dell’inventario, bensì la rivendica dei beni da parte della società opponente. Inoltre, il motivo è volto a censurare l’accertamento dei fatti compiuto dal giudice del merito, il quale ha chiaramente affermato che le imbarcazioni erano state rinvenute dal curatore in un’area di proprietà della fallita e, comunque , in un’area e nel ramo d’azienda «di pertinenza della fallita» (ciò che è sufficiente, dal momento che
la proprietà dell’area non è elemento essenziale per individuare la sede dell’impresa e della sua azienda) .
Il secondo motivo censura la «falsa applicazione in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c. dell’art. 103 della legge fallimentare e dell’art. 513 e 621 c.p.c.».
Il motivo completa quello precedente, in quanto dalla prospettata illegittimità dell’inventario si fa scaturire una critica al tribunale per avere ritenuto applicabili alla fattispecie «la presunzione di proprietà degli yachts » in capo alla fallita e le limitazioni poste dalla legge ai mezzi di prova utilizzabili dal terzo rivendicante i beni pignorati.
2.1. Anche questo motivo è inammissibile, perché non coglie la ratio decidendi del decreto impugnato, in particolare laddove si ipotizza che il tribunale abbia applicato una presunzione di proprietà dei beni in capo alla società fallita. Occorre chiarire che il rigetto della rivendica non richiede e non presuppone l’accertamento della proprietà dei beni in capo all’impr esa fallita, ma semplicemente la mancanza della prova della proprietà in capo al soggetto rivendicante.
Quanto poi alla inammissibilità della prova testimoniale sancita ne ll’art. 621 c.p.c. , con particolare riguardo alla conseguente impossibilità per il rivendicante di provare il suo diritto mediante presunzioni semplici (art. 2729, comma 2, c.c.), si deve rilevare che il tribunale è andato comunque oltre tale limite, dato che non si è astenuto dall’argomentazione presuntiva per l’accertamento del fatto, ma ha espressamente affermato che tutte le caratteristiche del caso concreto (i fatti noti) «inducono a ritenere non provata la rivendicata proprietà sui beni».
Il terzo motivo prospetta la «falsa applicazione art. 1153 c.c. in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c.» .
Si contesta al Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto di avere applicato in favore del fallimento «la presunzione per cui ‘possesso vale titolo’, relativamente a un’area che non era certamente nel possesso della fallita».
3.1. A parte la palese erroneità dell’accostamento del la regola contenuta nell’art. 1153 c.c. al possesso di beni immobili (errore di cui non si è certo macchiato il tribunale, che a quella disposizione non ha fatto alcun cenno), l’inammissibilità del motivo discende da quanto già precedentemente rilevato: l’esito della rivendica non dipende dalla prova della proprietà dei beni rivendicati in capo alla società fallita, bensì dalla prova -o dalla mancanza di prova -della proprietà in capo alla opponente.
Con il quarto motivo si censura «violazione art. 2729 c.c. in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c.» .
La ricorrente contesta al giudice del merito di avere applicato, in favore del fallimento, le presunzioni semplici che, invece, non possono essere utilizzate in favore del soggetto che rivendica la proprietà del bene, opponendosi all’espropriazione .
4.1. Il motivo -che sembra invocare una sorta di parità delle armi, sul piano probatorio, tra le parti impegnate nel giudizio di rivendica -è affetto dal medesimo profilo di inammissibilità già rilevato per i precedenti motivi. Esso, infatti, presuppone che il rigetto della domanda di rivendica dipenda dalla prova della proprietà dei beni in capo alla società fallita, mentre l’unico oggetto del contendere è il diritto di proprietà della società opponente, in mancanza di prova del quale la sua domanda non può che essere respinta. Il tribunale, quindi, non ha accertato che i beni rivendicati fossero di proprietà della fallita e non ha utilizzato presunzioni semplici a tal fine, perché non aveva alcun bisogno di farlo per decidere la causa.
Il quinto motivo censura «violazione art. 2730, 2733, 2735 c.c. in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c.» .
La ricorrente si duole che il tribunale non abbia apprezzato il valore confessorio della dichiarazione del curatore fallimentare -contenuta in una comunicazione al giudice delegato -secondo cui erano state «individuate imbarcazioni di cui è stata segnalata l’appartenenza a terzi , e la cui presenza nei locali dell’impresa fallita era da attribuire all’attività dell’impresa locataria RAGIONE_SOCIALE ed RAGIONE_SOCIALE»; dichiarazione alla quale il curatore aveva fatto seguire la considerazione che «è verosimile ritenere che i locatari abbiano sfruttato i capannoni locati riponendo in questi le imbarcazioni ricevute in deposito o manutenzione da parte dei propri clienti».
Occorre infatti precisare, in fatto, che RAGIONE_SOCIALE aveva affittato il ramo d’azienda nel cui perimetro vennero in seguito inventariate le imbarcazioni, dapprima ad RAGIONE_SOCIALE (contratto risolto per mutuo dissenso già prima del fallimento) e poi ad RAGIONE_SOCIALE (contratto poi risolto dal curatore fallimentare, al quale le parti avevano riservato tale facoltà).
5.1. Il motivo è infondato per diverse ragioni.
5.1.1. Innanzitutto, le dichiarazioni del curatore non possono avere valore di confessione, in quanto egli non è il titolare e non ha il potere di disporre dei diritti della massa dei creditori sull ‘ attivo fallimentare (art. 2731 c.c.; v., ex multis , Cass. nn. 19418/2017; 15570/2015).
5.1.2. In secondo luogo, si sarebbe trattato, a tutto concedere, di una confessione stragiudiziale resa a un terzo, che non ha valore di prova legale, ma è liberamente apprezzabile dal giudice del merito ai sensi dell’art. 116 c.p.c. (art. 2735, comma 1, c.c.).
5.1.3. Infine, nelle dichiarazioni del curatore sopra citate e in quelle più ampiamente riportate nel ricorso, non c’è alcun cenno né alla società rivendicante, né alla possibilità che le imbarcazioni siano di sua proprietà. Si tratta invero di dichiarazioni generiche sulla possibile appartenenza degli yachts a non meglio precisati clienti delle società affittuarie, nonché di mere valutazioni sulla verosimiglianza di tale possibilità. Nulla a che vedere, quindi, con la «dichiarazione che una parte fa della realtà di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all’altra parte » (art. 2730, comma 1, c.c.).
Il sesto motivo denuncia un «omesso esame di fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione a ll’ art. 360, n. 5, c.p.c.».
Si ritorna, con questo motivo, alle medesime dichiarazioni del curatore fallimentare, questa volta con l’intento di denunciare un vizio di omesso esame riferito alla «circostanza che il curatore abbia appreso le imbarcazioni rinvenute nei rami d’azienda affittati a terzi nella consapevolezza che tali imbarcazioni non potevano presumersi di proprietà di fallimento, bensì di terzi».
6.1. Il motivo è inammissibile per plurime ragioni, analoghe a quelle già considerate con riferimento ai precedenti motivi.
6.1.1. Il fatto di cui si assume l’omesso esame non è decisivo, perché nel giudizio di opposizione allo stato delle rivendiche non si tratta di accertare la proprietà dei beni rivendicati in capo al fallimento, bensì soltanto di accertare -positivamente o negativamente -la proprietà del soggetto rivendicante. Pertanto, oggetto del giudizio non è accertare se i beni siano di proprietà «di terzi», bensì se essi siano di proprietà del soggetto rivendicante.
6.1.2. In ogni caso, non ha rilievo la «consapevolezza» del curatore in merito alla proprietà dei beni, bensì soltanto l’ oggettiva situazione di quella proprietà, secondo il giudizio del tribunale, basato sull’apprezzamento del fatto, di per sé insindacabile in sede di legittimità.
Con il settimo motivo si denuncia la «violazione art. 621 c.p.c. in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c.» .
La ricorrente si duole che non sia stata ammessa la prova testimoniale da lei offerta, sostenendo che l’esistenza del suo diritto fosse «resa verosimile dalla professione o dal commercio esercitati dal terzo o dal debitore» (art. 621 c.p.c.).
7.1. Anche questo motivo è inammissibile, perché censura un apprezzamento del giudice di merito riguardante il fatto, oltretutto senza confrontarsi con i principali argomenti utilizzati dal giudice per giungere al giudizio di inverosimiglianza dell’esistenza del diritto della ricorrente ( «l’area in cui sono state rinvenute le imbarcazioni … non è mai stata oggetto di possesso o detenzione da parte della opponente»; si tratta di imbarcazioni soggette a registrazione e non ancora registrate, quindi di nuova costruzione, mentre la ricorrente è «un mero operatore commerciale e non un costruttore di imbarcazioni»).
In sostanza, quella che il motivo vuole rimettere in discussione non è l’interpretazione della norma di diritto, bensì l’accertamento del fatto al quale il tribunale ha correttamente applicato quella norma.
L’ottavo motivo contesta un’ asserita «violazione art. 2704 c.c. in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c.» .
RAGIONE_SOCIALE invoca la data certa del rogito notarile di affitto di ramo d’azienda 15.11.2011 tra la società poi fallita (concedente) e RAGIONE_SOCIALE
8.1. L’inammissibilità del motivo è evidente, perché il tribunale non ha certo negato o messo in discussione la data certa del contratto d’affitto (la cui pendenza al momento del fallimento è espressamente menzionata nel decreto impugnato) e perché la ricorrente non spiega in che modo dalla indiscussa data certa del contratto d’affitto dovrebbe conseguire la prova della fondatezza della domanda di rivendica.
Il nono motivo prospetta la «violazione art. 2724 c.c. falsa applicazione art. 621 c.p.c. in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c.».
Si torna con questo motivo alla negata ammissione della prova testimoniale, questa volta sotto il profilo della pretesa violazione dell’art. 2724 c.c., ravvisandosi un «principio di prova scritta» nell’inventario dei beni allegato al contratto d’affitto di ramo d’azienda, nel quale non risultano inserite le imbarcazioni qui oggetto di rivendica.
9.1. Il motivo è infondato, perché -a prescindere dalla difficoltà di considerare un principio di prova scritta l’ assenza della menzione dei beni in un determinato documento -è decisivo il rilievo che l’art. 2724 c.c. non trova applicazione nella presente controversia, nella quale l’ammissibilità della prova testimoniale è regolata dalla diversa e più specifica disposizione contenuta nell’art. 621 c.p.c., richiamata dall’art. 103 l . fall.
Il decimo motivo denuncia «violazione art. 2331 c.c.; falsa applicazione art. 2497 c.c.; falsa applicazione artt. 66 e 67 legge fallimentare; violazione art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c.».
RAGIONE_SOCIALE sottopone a censura le valutazioni del tribunale sul «viluppo di interessi» che la metterebbe in collegamento con la società fallita e che sarebbe riconducibile alla riferibilità di entrambe, e anche delle società affittuarie d’azienda, a un’unica
persona fisica. Si contesta, in particolare, al giudice del merito di avere ritenuto «la insussistenza della qualità di terzo nella società rivendicante» e di avere affermato «sostanzialmente la simulazione della costituzione del gruppo societario».
10. Il motivo è inammissibile, perché anche in questo caso non si coglie la ratio decidendi del decreto impugnato, nel quale il tribunale non ha affatto negato la distinta soggettività giuridica della società rivendicante, né ha accertato la simulazione della costituzione delle varie società, avendo soltanto considerato lo stretto collegamento di interessi tra di loro nel l’ambito del prudente apprezzamento delle risultanze istruttorie al fine di rendere il giudizio finale sulla prova della proprietà dei beni in capo alla società opponente. Né si può desumere il contrario da un fugace e dubitativo cenno, in motivazione, a «un abuso dello schermo societario».
In ogni caso, il rigetto della rivendica prescinde totalmente dalla negazion e dell’autonoma soggettività giuridica della rivendicante.
Infine, l’undicesimo motivo denuncia nuovamente un «omesso esame di fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, n. 5, c.p.c.».
Si sostiene che il tribunale avrebbe «errato nel ritenere che la fallita RAGIONE_SOCIALE fosse proprietaria, anziché mera concedente, dell’area ‘ ex N.A.C.’ , dove sono state rinvenute le imbarcazioni».
11.1. A prescindere dal rilievo che il tribunale non ha omesso l’esame della questione relativa alla proprietà dell’area (tant’è che, all’esito di quell’esame, ha espressamente attribuito la proprietà alla fallita), costituisce ragione assorbente per la
inammissibilità del motivo la mancanza di decisività del fatto di cui si assume l’omesso esame.
Non si vede, infatti, quale rilevanza potrebbe avere, ai fini dell’accoglimento della rivendica, la circostanza che la società fallita avesse avuto la disponibili tà dell’area su cui era collocata la sua azienda (e in cui vennero rinvenute e inventariate le imbarcazioni) a titolo di proprietà oppure, invece, a qualsiasi altro titolo. Rimarrebbe intatta, in entrambi i casi, la necessità per la ricorrente di dimostrare di avere acquistato la proprietà dei beni rivendicati e di averla mantenuta fino al momento della dichiarazione di fallimento.
Rigettato il ricorso, le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
Si dà atto che, in base all’esito del giudizio, sussiste il presupposto per il raddoppio del contributo unificato ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002.
P.Q.M.
La Corte:
rigetta il ricorso;
condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in € 10.000, per compensi, oltre alle spese generali nella misura del 15%, a € 200 per esborsi e agli accessori di legge;
dà atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Deciso in Roma, nella camera di consiglio del 10.9.2025.
Il Presidente NOME COGNOME