Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 28088 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 28088 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 22/10/2025
Oggetto: promessa di pagamento
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 14092/2024 R.G. proposto da RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentata e difesa dagli AVV_NOTAIO NOME COGNOME e NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, rappresentata dalla RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentata e difesa dall’ AVV_NOTAIO
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte di appello di Ancona n. 529/2024, depositata il 2 aprile 2024.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 17 settembre 2025 dal Consigliere NOME COGNOME;
RILEVATO CHE:
– la RAGIONE_SOCIALE propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello di Ancona, depositata il 2 aprile 2024, che, in
riforma della sentenza del locale Tribunale , ha respinto l’o pposizione al decreto con cui le era stato ingiunto il pagamento in favore della Banca delle Marche s.p.a. della somma di euro 67.600,00, oltre interessi, quale (saldo del) corrispettivo vantato dalla RAGIONE_SOCIALE in virtù di un contratto di appalto e ceduto alla predetta banca;
la Corte di appello ha accolto il gravame evidenziando, in particolare, che il credito in contestazione era stato oggetto di una promessa di pagamento da parte della società ingiunta a beneficio della banca e che la promittente non aveva assolto l’onere, sulla stessa gravante, di dimostrare l’insussistenza del rapporto obbligatorio sottostante;
il ricorso è affidato a un unico motivo;
resiste con controricorso la RAGIONE_SOCIALE, quale mandataria della RAGIONE_SOCIALE, cessionaria del credito controverso nelle more del giudizio;
-a seguito di proposta di definizione del giudizio a norma dell’art. 380 -bis cod. proc. civ., la ricorrente chiede la decisione della causa;
CONSIDERATO CHE:
con il motivo proposto la ricorrente deduce la «violazione/falsa applicazione degli artt. 1988, 1264, 1362, 1369, 1370 c.c.., 115 c.p.c.»;
con tale censura evidenzia che la dichiarazione del 30 agosto 2013, valorizzata dalla Corte di appello e consistente in un modello prestampato predisposto dalla banca e sottoscritto da essa ricorrente, non costituisce un riconoscimento di debito o una promessa di pagamento, risolvendosi in una (ulteriore) presa d’atto della regolarità formale e non sostanziale della fattura n. 28 del 2013, indicante il credito ceduto, nonché, al più, in un ‘accettazione della cessione del credito medesimo precedentemente notificata dal cedente ai sensi dell’art. 1264 c od. civ.;
-denuncia, inoltre, l’errore della Corte territoriale nella parte in cui ha sostenuto le sue conclusioni sul punto con il riferimento alla «comune
esperienza», ritenuta rilevante ai fini dell’applicazione dell’art. 115, secondo comma, cod. proc. civ., secondo cui ogni imprenditore pone particolare attenzione nel sottoscrivere un documento redatto da una banca, osservando che si era in presenza di un documento predisposto su modulistica bancaria e, in quanto tale, non suscettibile di trattativa, né emendabile, per cui il richiamo alla comune esperienza non era pertinente;
lamenta, poi, la omessa applicazione del criterio di cui all’art. 1370 cod. civ., secondo il quale in caso di dubbio le clausole inserite nei contratti predisposti da una sola parte devono essere interpretate a favore dell’altra parte;
si duole, infine, della mancata considerazione del dimostrato integrale versamento del corrispettivo spettante alla cedente RAGIONE_SOCIALE -anzi, del pagamento in misura superiore a quanto dovuto -per cui il credito da questa ceduto alla banca era inesistente;
la proposta di definizione del giudizio ha ritenuto che il ricorso fosse inammissibile;
ha, in particolare, osservato che « a fronte della lettura dell’atto data dal tribunale, il quale aveva ritenuto trattarsi di mera accettazione di una cessione di credito intervenuta tra l’appaltatrice RAGIONE_SOCIALE e la banca, e non di una ricognizione di debito, la corte d’appel lo ha ritenuto il contrario, essenzialmente valorizzando il collegamento di detta scrittura con quella, in essa richiamata, del precedente 27 agosto: di qui la corte territoriale ha ritenuto che l’impegno ad effettuare il pagamento non potesse essere che inteso quale riconoscimento del debito, tanto più che si trattava di una dichiarazione predisposta dalla banca, con l’ovvia conseguenza, in punto del riparto degli oneri probatori, che spettava alla debitrice ceduta provare l’insussistenza del debito, prova che essa, invece, non aveva dato, non avendo dimostrato l’entità del complessivo importo dovuto a titolo di corrispettivo del contratto di appalto, dal momento che detto contratto
conteneva una clausola, all’articolo 5, che prevedeva l’esecuzione di opere tali da comportare «un aumento del prezzo dell’appalto» .
Orbene la ricorrente replica che l’accettazione di una cessione di credito non importa di per sé riconoscimento del debito, affermazione pur condivisibile, ma che non ha nulla a che vedere con la vicenda esaminata dal giudice di merito, il quale, lungi porre una relazione di necessaria implicazione tra accettazione della cessione del riconoscimento del debito, ha condotto una penetrante analisi del testo menzionato, raffrontato con la precedente missiva alla quale si è fatto cenno, così pervenendo all’accer tamento della volontà negoziale iscritta nella dichiarazione predetta, da intendersi quale riconoscimento di debito»;
– ha, poi, evidenziato che « A fronte dell’interpretazione accolta dalla corte d’appello, la ricorrente ha richiamato in rubrica l’articolo 1362 c.c., ma ha totalmente omesso di spiegare quali specifici criteri ermeneutici, tra quelli ivi previsti, il giudice di merito avrebbe violato. Con ciò incorrendo in patente violazione del consolidatissimo principio secondo cui, in tema di interpretazione del contratto, il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sé, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, ma afferisce solo alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica e della coerenza e logicità della motivazione addotta, con conseguente inammissibilità di ogni critica alla ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca in una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto da questi esaminati (Cass. 10 febbraio 2015, n. 2465; Cass. 26 maggio 2016, n. 10891; Cass. 14 luglio 2016, n. 14355). In particolare, la parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale, non può limitarsi a richiamare genericamente le regole di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., avendo l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma
violati ed il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato (Cass. 15 novembre 2013, n. 25728). D’altronde, per sottrarsi al sindacato di legittimità, sotto entrambi i cennati profili, quella data dal giudice al contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni; sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni (plausibili), non è consentito – alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito – dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l’altra (Cass. 2 maggio 2006, n. 10131; Cass. 25 ottobre 2006, n. 22899; Cass. 16 febbraio 2007, n. 3644; Cass. 20 novembre 2009, n. 24539; Cass. 25 settembre 2012, n. 16254; Cass. 17 marzo 2014, n. 6125).
Viceversa, il ricorso deduce la violazione della regola concernente l’interpretazione contra stipulatorem, ma lo fa erroneamente: difatti le norme in tema di interpretazione oggettiva in tanto possono essere applicate, in quanto quelle di interpretazione soggettiva non abbiano consentito di attingere un risultato appagante: tra i due gruppi, secondo la prevalente opinione, esiste cioè un rapporto di subordinazione logica del secondo al primo, dato che l’interprete può far ricorso alle regole dell’interpretazione oggettiva solo quando non possa determinare senza dubbiezza la comune volontà delle parti (Cass. 21 luglio 1972, n. 2505; Cass. 14 gennaio 1983, n. 287; Cass. 15 luglio 2016, n. 14432). Sicché non ha senso invocare la violazione dell’articolo 1370 c.c. quando non si sia dimostrata l’insufficienza dei criteri ermeneutici contenuti negli articoli 1362 e seguenti»;
– in ordine alla denunciata violazione dell’articolo 115 c od. proc. civ. la proposta ha sottolineato che «è sufficiente rammentare che, per dedurre la violazione di tale norma, occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle
parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c. (Cass., Sez. Un., 30 settembre 2020, n. 20867): nulla di tutto ciò ricorre nella specie»;
-infine, con riferimento all’argomento secondo cui la somma oggetto del ricorso per decreto ingiuntivo non sarebbe stata dovuta in quanto essa committente avrebbe pagato all’appaltatrice, la RAGIONE_SOCIALE, un importo eccedente quello pattuito in contratto, ha rilevato che « si tratta all’evidenza di un motivo di pieno merito, che per di più si disinteressa del tutto della motivazione svolta dalla corte d’appello, laddove ha sottolineato che il contratto conteneva una clausola che prevedeva l’elev azione del corrispettivo altrimenti pattuito in conseguenza dell’effettuazione di opere ulteriori »;
il Collegio condivide tali considerazioni, non investite da specifiche critiche nell’istanza di opposizione;
per le suesposte considerazioni, pertanto, il ricorso va dichiarato inammissibile;
le spese del giudizio seguono il criterio della soccombenza e si liquidano come in dispositivo;
poiché il giudizio è definito in conformità della proposta, va disposta condanna della parte istante a norma dell’art. 96, terzo e quarto comma, cod. proc. civ. (cfr. Cass., Sez. Un., 13 ottobre 2023, n. 28540);
-il ricorrente va, dunque, condannato, nei confronti della controricorrente, al pagamento di una somma che può equitativamente determinarsi in euro 5.600,00 , oltre che al pagamento dell’ulteriore somma di euro 2.500,00 in favore della Cassa delle ammende;
P.Q.M.
La Corte dichiara il ricorso inammissibile; condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi euro 5.600,00, oltre rimborso forfettario nella misura del 15%, euro 200,00 per esborsi e accessori di legge.
Condanna parte ricorrente al pagamento della somma di euro 5.600,00 in favore della parte controricorrente e dell’ulteriore somma di euro 2.500,00 in favore della Cassa delle ammende.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , t.u. spese giust., dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale del 17 settembre 2025.
Il Presidente