Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 12781 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 12781 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 13/05/2025
ORDINANZA
n. 16429/2019 R.G.
COGNOME
Rep.
C.C. 19 settembre 2024
Oggetto:
Contratto
d’opera
– Esecuzione di
lavori edili – Pagamento
del
compenso
Opposizione a decreto
ingiuntivo.
sul ricorso (iscritto al n. 16429/2019 R.G.) proposto da:
RAGIONE_SOCIALE , con sede in Vicenza, alla INDIRIZZO (Codice Fiscale e Partita I.V.A.: P_IVA), in persona del legale rappresentante pro tempore sig. NOME COGNOME, elettivamente domiciliato in Roma, alla INDIRIZZO presso lo studio dell ‘ avv. NOME COGNOME che, congiuntamente e disgiuntamente all ‘ avv. NOME COGNOME del foro di Vicenza, rappresenta e difende la società stessa, giusta procura allegata al ricorso introduttivo del presente giudizio di legittimità (indirizzi p.e.c. dei difensori: ‘ EMAIL ; ‘ EMAIL ‘ );
-ricorrente –
contro
COGNOME NOME COGNOME nata a Vicenza il 4 agosto 1968 ed ivi residente, alla INDIRIZZO (Codice Fiscale: CODICE_FISCALE, elettivamente domiciliata in Vicenza, alla INDIRIZZO, presso lo studio dell ‘ avv. NOME COGNOME che la rappresenta e difende, giusta procura in calce al controricorso (indirizzo p.e.c. del difensore: ‘ EMAIL ‘) ;
-controricorrente –
avverso la sentenza n. 1060/2019 della Corte d ‘ Appello di Venezia, pubblicata il 15 marzo 2019;
udita la relazione della causa svolta, nella camera di consiglio del 19 settembre 2024, dal dottore relatore NOME COGNOME
lette le memorie illustrative depositate nell ‘ interesse della controricorrente, ai sensi dell ‘ art. 380bis .1. c.p.c..
FATTI DI CAUSA
1.- Con rogito notarile in data 26 febbraio 2007, la società RAGIONE_SOCIALE -odierna ricorrente -, in persona del suo legale rappresentante, sig. COGNOME Giuseppe, vendeva ai due coniugi NOME e COGNOME NOME, in comproprietà tra loro, l’unità immobiliare ad uso abitativo, con scoperto di pertinenza, ubicata in Vicenza, alla INDIRIZZO
Subito dopo il rogito, nella stessa data e dinanzi al Notaio dott. NOME COGNOME di Vicenza, venivano pattuiti verbalmente alcuni lavori ulteriori, da eseguire successivamente presso la medesima unità abitativa e non originariamente convenuti.
A titolo di pagamento di tali lavori, NOME rilasciava, a favore della società RAGIONE_SOCIALE, assegno bancario per l’importo di €. 9.000,00 (euro novemila/00), tratto sulla Banca del Centroveneto e che veniva consegnato fiduciariamente al medesimo Notaio dott. NOME COGNOME con l’incarico di consegnarlo a NOME COGNOME – legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE – alla presenza di NOME entro il 12 marzo 2007.
Decorso il termine indicato, NOME non autorizzava, in alcun modo, la consegna d ell’ assegno, né si rendeva disponibile a comparire dinanzi al Notaio dott. NOME COGNOME e quest’ultimo non si rendeva disponibile a consegnare l’assegno.
Con decreto ingiuntivo in data 5 ottobre 2011, il Tribunale di Vicenza, su ricorso della società RAGIONE_SOCIALE ingiungeva al Notaio dott. NOME COGNOME l’immediata consegna dell’assegno nelle mani di COGNOME NOME, per conto della predetta società.
Ottenuta la consegna, l’assegno veniva presentato all’incasso, ma non veniva pagato. Seguiva, pertanto, la concessione, in favore della
RAGIONE_SOCIALE, di decreto ingiuntivo in data 21 gennaio 2012 da parte del Tribunale di Vicenza, con clausola di provvisoria esecuzione.
Contro tale decreto ingiuntivo, proponeva opposizione COGNOME NOMECOGNOME sostenendo che l’assegno non doveva essere pagato, in quanto: 1) non vi sarebbe stata alcuna pattuizione di lavori, né vi sarebbero stati lavori da eseguire, né tali lavori sarebbero stati precisati e, inoltre, non vi era alcuna fattura che ne provasse la debenza; b) l’RAGIONE_SOCIALE era estranea alla questione e l’assegno era indice di obbligazioni intercorse, in realtà, tra COGNOME e COGNOME, per cui spettava alla RAGIONE_SOCIALE provare il titolo del proprio intervento e la legittimazione delle sue richieste.
Con sentenza n. 1162/2016, il Tribunale di Vicenza rigettava l’opposizione, con conseguente conferma del decreto ingiuntivo opposto e condanna dell’opponente NOME alle spese di lite.
In particolare, il tribunale riteneva: che le obbligazioni oggetto di causa erano state assunte solidalmente dai coniugi COGNOME NOME e NOME in sede di stipula notarile per l’esecuzione dei lavori; che la sottoscrizione da parte della sola COGNOME del titolo consegnato in deposito al notaio per il pagamento del prezzo di tali opere costituiva circostanza irrilevante, come pure l’indicazione sulla busta del nominativo del solo NOMECOGNOME presente alla stipula nella sua qualità di legale rappresentante della società RAGIONE_SOCIALE; che non era stato provato che il COGNOME avesse assunto personalmente l’obbligazione.
Secondo quanto evidenziato dal tribunale, i testi di parte opposta avevano confermato che le opere in pagamento delle quali era stato emesso l’assegno erano state eseguite regolarmente, mentre alle contrarie dichiarazioni fornite dai testimoni escussi su indicazione dell ‘ opponente non poteva attribuirsi rilevanza, in ragione dei vincoli parentali tra essi e la COGNOME e della natura de relato delle loro deposizioni, posto che né l ‘ opponente, né il coniuge NOMECOGNOME avevano contestato la mancata esecuzione delle opere da parte della società opposta, e neppure avevano eccepito alcunché con riferimento al quantum pattuito e indicato dall’assegno consegnato al notaio.
2.- Avverso la sentenza di primo grado, NOME proponeva appello concludendo per la riforma della pronuncia impugnata e l’accoglimento dell’opposizione .
Nel costituirsi nel giudizio d’appello, la società RAGIONE_SOCIALE chiedeva il rigetto del l’avversa impugnazione e la conferma della sentenza di primo grado.
Con la sentenza impugnata, la Corte d ‘ Appello di Venezia accoglieva l ‘ impugnazione proposta da NOME e, per l ‘ effetto, in riforma della sentenza appellata, accoglieva l ‘ opposizione, revocava il decreto ingiuntivo opposto e condannava la società RAGIONE_SOCIALE al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio.
A sostegno dell ‘ adottata pronuncia, la Corte territoriale rilevava, per quanto di interesse in questa sede: a) che doveva anzitutto essere disattesa l’eccezione di inammissibilità dell’appello sollevata dalla società appellata, non difettando nell’impugnazione l’individuazione delle questioni trattate e dei punti del provvedimento impugnato posti in contestazione, né dell ‘ indicazione dei motivi di dissenso riguardo alla decisione del tribunale; b) che era fondata la censura riferita alla violazione degli artt. 1988 e 2697 c.c.; c) che, all’assegno emesso dalla Clagnan in favore di sé medesima e poi girato, doveva attribuirsi valore di promessa di pagamento, cosicché, secondo la disciplina dell’art. 1988 c.c., ciò comportava una presunzione ‘ iuris tantum ‘ dell’esistenza del rapporto sottostante fino a che l’emittente (o il girante) non avesse fornito la prova – desumibile da qualsiasi elemento ritualmente acquisito al processo, da chiunque fornito – dell’inesistenza, invalidità o estinzione di tale rapporto; d ) che il portatore dell’assegno – posto a fondamento dell’azione causale come semplice promessa di pagamento – in quanto destinatario di quest’ultima , si giova della cd. astrazione processuale della causa debendi e dell’effetto che essa produce (ai sensi dell’art. 1988 c.c.) in termini di inversione dell’onere della prova in ordine all’esistenza del sottostante rapporto obbligatorio, con la conseguenza che, ove agisca per l’adempimento dell’obbligazione, ha il solo onere di dare prova della promessa, non anche quello di fornire la prova del rapporto giuridico dal quale la promessa trae origine, mentre incombe al promittente l’onere di provare l’inesistenza, l’invalidità o l’estinzione del rapporto fondamentale;
e ) che in sede di opposizione a decreto ingiuntivo dovevano trovare applicazione le consuete regole in tema di riparto dell’onere della prova, con la conseguenza che l’opposta, pur assumendo formalmente la posizione di convenuta, rivestiva la qualità di attrice in senso sostanziale, cosicché spettava a lei fornire la prova dei fatti costitutivi del diritto vantato mediante la proposizione della domanda monitoria; f ) che la società RAGIONE_SOCIALE aveva fatto valere in giudizio il rapporto fondamentale giustificativo dell ‘ emissione dell’assegno, senza tuttavia fornire la prova della sussistenza del proprio diritto basato su tale rapporto, non avendo provato l’effettiva esecuzione dei lavori oggetto del pagamento che avrebbe dovuto essere effettuato con l’assegno emesso da NOME; g) che, infatti, tale prova non poteva trarsi dalle deposizioni fornite dai testimoni, i quali non avevano univocamente confermato l’avvenuta esecuzione delle opere, giacché d a tali deposizioni pareva potersi desumere che le opere oggetto della pretesa erano state eseguite prima del rogito di vendita dell’immobile, ed erano differenti rispetto a quelle oggetto dell’accordo che aveva giustificato l’emissione dell’assegno di € . 9.000.00 (euro novemila/00) da parte della COGNOME; h ) che, infatti, i testi escussi su indicazione dell’ appellante COGNOME NOME avevano tutti collocato l’esecuzione dei lavori indicati dalla società in un momento antecedente alla stipulazione del rogito di acquisto; i) che anche il testimone NOME aveva specificamente indicato i lavori oggetto dell’accordo (e in pagamento dei quali vi era stata l’emissione dell’assegno) , chiarendo che tali opera non erano state, poi, effettivamente eseguite; j) che, mentre con riguardo al predetto profilo, tutti i testimoni escussi su indicazione dell ‘ appellante avevano fornito deposizioni concordi e coerenti nel senso della mancata esecuzione delle opere, alcuno dei testimoni escussi su indicazione della società appellata era stato in grado di collocare nel tempo i lavori, fornendo dichiarazioni generiche e irrilevanti ai fini della decisione; k) che, prevedendo l’accordo delle parti la consegna da parte del notaio dell’assegno di € . 9.000,00 (euro novemila/00) dopo l’esecuzione dei predetti lavori, e non avendo la società provato di avere adempiuto a tale obbligo, diversamente da quanto stabilito dal tribunale, non poteva ritenersi fondata la domanda di pagamento, non avendo la stessa prodotto in sede monitoria le fatture e le scritture contabili, ma solo
la documentazione inerente l’assegno rilasciato al notaio dalla COGNOME; l) che, accolto il primo motivo d’appello, concernente la valutazione del compendio istruttorio, operata dal giudice di primo grado, poteva senz’altro considerarsi assorbita la doglianza sollevata con il secondo motivo, attinente all’in capacità a deporre, ex art. 246 c.p.c., del testimone COGNOME Giuseppe indicato, nel giudizio di primo grado, dalla società RAGIONE_SOCIALE
3.- Avverso tale sentenza, la società RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi.
4.- NOME ha resistito con controricorso e ha depositato altresì memoria illustrativa, ai sensi dell ‘ art. 380bis .1. c.p.c..
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.- Con il primo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell ‘ art. 360, comma 1, n. 3) e n. 4), c.p.c., la violazione degli artt. 132 e 156 c.p.c. e la nullità della sentenza impugnata , per avere quest’ultima, in due punti della motivazione, fatto riferimento non già al Tribunale di Vicenza, bensì, erroneamente, al Tribunale di Verona, quale ufficio giudiziario che aveva pronunciato la sentenza di primo grado.
2.- La censura è infondata.
Se è certamente vero, infatti, che, nella parte epigrafica e in quella dispositiva della sentenza impugnata, è contenuto un errore materiale relativo alla sentenza appellata, con particolare riguardo all’ufficio giudiziario di primo grado emittente – giacché si fa riferimento non già al Tribunale di Vicenza, bensì a quello di Verona – risulta nondimeno altrettanto innegabile come la sentenza impugnata, sia nella parte relativa allo svolgimento del processo, che nella motivazione, intendesse riferirsi alla sentenza effettivamente investita dall’appello di NOME e pronunciata dal Tribunale di Vicenza. Ne sono chiara dimostrazione sia le conclusioni dell’appellante e dell’appellata , riportate sempre nella parte epigrafica della sentenza, in cui compare più volte il riferimento espresso al Tribunale di Vicenza, sia quanto evidenziato dalla corte territoriale a pag. 3 della sentenza impugnata, nella parte iniziale dello ‘ svolgimento del processo ‘ laddove viene chiarito come l’atto di appello proposto da NOME concernesse la « sentenza n. 1162/2016 depositata il 21.06.2016 » dal « Tribunale di Vicenza, Prima Sezione Civile ».
Infine, anche la lettura e disamina della motivazione della sentenza impugnata (cfr., all’uopo, le pagg. 4 e 5 di quest’ultima) permette di acclarare l’esistenza di plurimi riferimenti alla vicenda fattuale , intercorsa tra COGNOME NOME e la società RAGIONE_SOCIALE ed esaminata dalla sentenza pronunciata in primo grado.
Ne deriva, con tutta evidenza, la radicale insussistenza dei vizi lamentati dalla ricorrente mediante il primo motivo di censura
3.- Con il secondo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell ‘ art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell ‘ art. 342 c.p.c..
Sostiene, al riguardo, che l’appello proposto da NOME non conteneva una chiara indicazione delle modifiche richieste con riguardo alla ricostruzione della vicenda fattuale operata dal giudice di prime cure.
4.- Anche tale censura è infondata, stante il principio affermato da questa Corte regolatrice, secondo cui « Gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 134 del 2012, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di ‘revisio prioris instantiae’ del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata. » (Cass. civ., Sez. U, sentenza n. 27199 del 16 novembre 2017, Rv. 645991-01).
Nella specie, infatti, dalla lettura e disamina della stessa pronuncia oggetto dell’odierna impugnazione risulta piuttosto agevole desumere come i due motivi di appello proposti da NOME concernessero la valutazione del compendio istruttorio, operata dal giudice di prime cure, e la motivazione relativa alla divisata irrilevanza e inattendibilità dei testimoni indicati in primo grado dalla predetta opponente – appellante.
Viene, pertanto, in rilievo il recente orientamento secondo cui « L’appellante che intenda dolersi di una erronea ricostruzione dei fatti da
parte del giudice di primo grado può limitarsi a chiedere al giudice di appello di valutare “ex novo” le prove già raccolte e sottoporgli le argomentazioni difensive già svolte in primo grado, senza che ciò comporti di per sé l’inammissibilità dell’appello. » (Cass. civ., Sez. 6-3, ordinanza n. 3115 dell’8 febbraio 2018, Rv. 648034-01).
Ne deriva , con tutta evidenza, l’infondatezza della censura di cui si tratta , avendo la Corte di merito accolto l’appello spiegato da NOME proprio alla stregua di una ricostruzione della vicenda fattuale intercorsa tra le parti differente rispetto a quella fornita dal giudice di primo grado.
5.- Con il terzo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell ‘ art. 360, comma 1, n. 3) e n. 5), c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 183, comma 6, n. 2) e 183, comma 7, c.p.c. , nonché l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, costituito dalla circostanza che, in primo grado, l’odierna controricorrente non avrebbe mai dedotto un inadempimento della società RAGIONE_SOCIALE e avrebbe preteso di richiedere la prova per testimoni, modificando, con la memoria ex art. 183, comma 6, n. 2), c.p.c., i fatti a llegati a sostegno dell’opposizione a decreto ingiuntivo , senza che la Corte d’Appello di Vicenza abbia esaminato tale circostanza.
Sostiene, al riguardo, che la COGNOME non avrebbe mai proposto né azione di inadempimento, né l’ eccezione corrispondente, limitandosi ad articolare una prova per testi come se avesse a disposizione tale azione o eccezione. Ne deriverebbe, pertanto, l’inutilizzabilità della prova testimoniale in suo favore e la violazione, da parte della Corte distrettuale, del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato di cui all’ art. 112 c.p.c..
6.- Anche tale censura è destituita di fondamento.
La stessa, infatti, non si confronta, in alcun modo, con la motivazione della sentenza della Corte di merito, che ha espressamente chiarito come l’infondatezza dell’opposizione avverso il decreto ingiuntivo ottenuto dalla società RAGIONE_SOCIALE trovasse la propria scaturigine non già in una contrapposta azione o eccezione proposta o sollevata dall’opponente, ma piuttosto nella circostanza che la predetta società non
aveva fornito adeguata dimostrazione dei fatti costitutivi della propria pretesa creditoria.
Rappresentano , come noto, ‘ iura recepta ‘, i principi secondo cui : 1) l’opposizione a decreto ingiuntivo dà luogo ad un ordinario giudizio di cognizione, nel quale il giudice deve accertare la fondatezza della pretesa fatta valere dall’opposto, che assume la posizione sostanziale di attore, sicché a lui spetta provare i fatti costitutivi del diritto azionato (cfr., in tal senso ed ‘ ex permultis ‘, Cass. civ., Sez. 2, ordinanza n. 6091 del 4 marzo 2020, Rv. 657127-02, nonché Cass. civ., Sez. 1, ordinanza n. 14640 del 6 giugno 2018, Rv. 649121-01); 2) « Nella richiesta di decreto ingiuntivo, in forza di titolo di credito scaduto, è implicita la proposizione anche dell’azione causale, derivante dal rapporto sottostante, mediante utilizzazione del titolo medesimo quale promessa di pagamento, ai sensi dell’art. 1988 cod. civ. » (Cass. civ., Sez. 3, sentenza n. 22898 dell’11 novembre 2005, Rv. 585456-01).
Nella specie, dunque, come ben chiarito dalla Corte distrettuale, con ragionamento che si sottrae alle censure sviluppate dalla ricorrente, quest’ultima aveva fatto valere in giudizio il rapporto fondamentale giustificativo dell’emissione dell’assegno, senza tuttavia fornire la prova della sussistenza del proprio diritto basato su tale rapporto, non avendo dimostrato l’effettiva esecuzione dei lavori oggetto del pagamento che avrebbe dovuto essere eseguito con l’assegno emesso da NOME.
Tale prova (in senso favorevole alla società RAGIONE_SOCIALE), come precisato dalla Corte di merito, non poteva trarsi né dalle deposizioni fornite dai testimoni escussi su indicazione dell’appellata – i quali non erano stati in grado di collocare nel tempo i lavori eseguiti dalla società – né tanto meno dalle deposizioni fornite dai testi escussi su indicazione dell’appellante , i quali avevano, invece, tutti collocato l’esecuzione dei lavori indicati dalla RAGIONE_SOCIALE in un momento antecedente alla stipulazione del rogito di acquisto.
Né, del resto e diversamente da quanto opinato dalla ricorrente, può assumere rilevanza alcuna – al fine di escludere la pertinenza delle prove testimoniali ammesse nel giudizio di opposizione il fatto che l’opponente non avesse proposto alcuna domanda o eccezione di inadempimento, finalizzata a paralizzare la pretesa creditoria fatta valere con l’ingiunzione,
avendo la COGNOME , fin dall’atto di opposizione, espressamente (e specificamente) contestato l’esistenza di qualsivoglia pattuizione di lavori con la società RAGIONE_SOCIALE e la debenza del pagamento in favore di quest’ultima , estranea al rapporto obbligatorio intercorso, in realtà, tra COGNOME NOME e COGNOME NOME con conseguente necessità che l’opposta , giusta il disposto dell’art. 2697 c.c., fornisse la prova dei fatti costitutivi della pretesa azionata mediante la proposizione della domanda monitoria.
7.- Con il quarto motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3) e n. 5), c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 1988 e 2697 c.c. , nonché l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio.
Sostiene, al riguardo, che, ferma restando la correttezza dal punto di vista « teorico-scientifico » della ricostruzione fornita dalla Corte di merito, tale ricostruzione risulterebbe «”astratta”, cioè avulsa ed estranea rispetto alle risultanze di causa. ».
In particolare, sottolinea come non sia negabile che la consegna del titolo bancario fosse avvenuta nel contesto fattuale e temporale del rogito notarile in data 26 febbraio 2007 nello studio del Notaio dott. NOME COGNOME in Vicenza, dopo la stipula del trasferimento immobiliare in favore di NOME e NOMECOGNOME per l’esecuzione di lavori relativi alla finitura dello stesso immobile.
Pertanto, evidenzia la ricorrente, « se il titolo bancario è strutturato inevitabilmente come promessa di pagamento che beneficia di astrazione causale, è pur vero che la causa debendi era ben esplicitata dal contesto storico-fattuale e storico-temporale in cui tale consegna maturava, contesto nel quale – precisamente – le parti pattuivano la necessità di prevedere ed eseguire detti lavori, il cui pagamento veniva convenuto, predeterminato e liquidato appunto con la dazione del titolo bancario. ».
Da ciò deriverebbe che la condotta della COGNOME avrebbe integrato una confessione sull’esistenza dell’obbligazione, risultando impossibile ritenere la consegna del titolo bancario un atto scollegato causalmente rispetto alle pattuizioni intervenute in sede di rogito e successivamente ad esso.
Inoltre, la consegna del titolo bancario avrebbe reso ultronea anche la produzione di fatture e di scritture contabili, in quanto il pagamento non era avvenuto e, quindi, non era stata incassata alcuna somma.
8.- La censura è inammissibile, in ragione del consolidato principio secondo cui « In tema di ricorso per cassazione, è inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5, c.p.c., non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione; o quale l’omessa motivazione, che richiede l’assenza di motivazione su un punto decisivo della causa rilevabile d’ufficio, e l’insufficienza della motivazione, che richiede la puntuale e analitica indicazione della sede processuale nella quale il giudice d’appello sarebbe stato sollecitato a pronunciarsi, e la contraddittorietà della motivazione, che richiede la precisa identificazione delle affermazioni, contenute nella sentenza impugnata, che si porrebbero in contraddizione tra loro. Infatti, l’esposizione diretta e cumulativa delle questioni concernenti l’apprezzamento delle risultanze acquisite al processo e il merito della causa mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse. » (Cass. civ., Sez. 1, ordinanza n. 26874 del 23 ottobre 2018, Rv. 651324-01).
Aggiungasi, peraltro e quale ulteriore profilo d’inammissibilità, l’inosservanza del principio secondo cui « Le espressioni violazione o falsa applicazione di legge, di cui all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., descrivono i due momenti in cui si articola il giudizio di diritto: a) quello concernente la ricerca e l’interpretazione della norma ritenuta regolatrice del caso concreto; b) quello afferente l’applicazione della norma stessa una volta
correttamente individuata ed interpretata. Il vizio di violazione di legge investe immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nella negazione o affermazione erronea della esistenza o inesistenza di una norma, ovvero nell’attribuzione ad essa di un contenuto che non possiede, avuto riguardo alla fattispecie in essa delineata; il vizio di falsa applicazione di legge consiste, o nell’assumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che non le si addice, perché la fattispecie astratta da essa prevista – pur rettamente individuata e interpretata – non è idonea a regolarla, o nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione. Non rientra nell’ambito applicativo dell’art. 360, comma 1, n. 3, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa che è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta perciò al sindacato di legittimità. » (Cass. civ., Sez. 1, ordinanza n. 640 del 14 gennaio 2019, Rv. 652398-01; conf. Cass. civ., Sez. 3, sentenza n. 7187 del 4 marzo 2022, Rv. 664394-01).
Nella specie, infatti, non è chi non veda come il motivo in esame, in quanto si concentra sulla necessità di valorizzare il « contesto storicofattuale e storico-temporale » in cui si era realizzata la consegna dell’assegno bancario , al fine di ricavarne l’esistenza di una confessione della RAGIONE_SOCIALE in ordine all’obbligazion e di pagamento dedotta dalla società RAGIONE_SOCIALE a sostegno della domanda monitoria, finisce con il risolversi nella prospettazione di una ricostruzione alternativa della vicenda fattuale e, dunque, nella richiesta di una nuova valutazione del compendio istruttorio, notoriamente preclusa in sede di giudizio di legittimità (cfr., al riguardo, Cass. civ., Sez. 2, ordinanza n. 10927 del 23 aprile 2024, Rv. 670888-01, secondo cui « In tema di ricorso per cassazione, deve ritenersi inammissibile il motivo di impugnazione con cui la parte ricorrente sostenga un’alternativa ricostruzione della vicenda fattuale, pur ove risultino allegati al ricorso gli atti processuali sui quali fonda la propria diversa interpretazione, essendo precluso nel giudizio di legittimità un vaglio che riporti a un nuovo apprezzamento del complesso istruttorio nel suo insieme. »).
9.- Con il quinto (e ultimo) motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3) e n. 5), c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c. e 246 c.p.c. , l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio , nonché l’erroneità e insufficienza della motivazione in quanto quest’ultima avrebbe valutato la prova testimoniale, omettendo di operare un confronto tra le varie deposizioni e di considerare le singole posizioni soggettive dei testi e i loro collegamenti diretti con le circostanze oggetto di deposizione.
In particolare, con tale motivo, la ricorrente, invocando il principio di autosufficienza, ha proceduto a trascrivere l’intera prova testimoniale così come risultante dai verbali relativi alle udienza di primo grado tenutesi in data 2 luglio 2013 e 4 marzo 2014. Ha, poi, passato in rassegna ciascuna delle deposizioni evidenziando, con argomentazioni e osservazioni varie: 1) l’attendibilità di quelli escussi su indicazione propria e l’infondatezza del rilievo della loro incapacità a deporre ex art. 246 c.p.c. ; 2) l’inattendibilità di quelli escussi su indicazione della controparte.
10.La censura è manifestamente inammissibile, risolvendosi anch’essa nel tentativo di accreditare una valutazione del compendio istruttorio diversa da quella già operata dalla Corte di merito.
Invero, come più volte chiarito da questa Corte regolatrice, « In tema di scrutinio di legittimità del ragionamento sulle prove adottato del giudice di merito, la valutazione del materiale probatorio – in quanto destinata a risolversi nella scelta di uno (o più) tra i possibili contenuti informativi che il singolo mezzo di prova è, per sua natura, in grado di offrire all’osservazione e alla valutazione del giudicante – costituisce espressione della discrezionalità valutativa del giudice di merito ed è estranea ai compiti istituzionali della S.C. (con la conseguenza che, a seguito della riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., non è denunciabile col ricorso per cassazione come vizio della decisione di merito), restando totalmente interdetta alle parti la possibilità di discutere, in sede di legittimità, del modo attraverso il quale, nei gradi di merito, sono state compiute le predette valutazioni discrezionali. » (Cass. civ., Sez. 3, sentenza n. 37382 del 21 dicembre 2022, Rv. 666679-05).
Peraltro, con riguardo al profilo concernente l’incapacità a testimoniare, la censura non si confronta, in alcun modo, con la
motivazione della sentenza impugnata dalla cui lettura e disamina risulta assai agevole desumere come tale questione fosse stata introdotta dalla Corte distrettuale al solo scopo di sottolinearne la radicale irrilevanza ai fini della decisione, avendo la parte appellante omesso, nel corso del giudizio di primo grado, di sollevare specifica eccezione, in base al disposto dell’art. 157, comma 2, c.p.c..
Al riguardo è, infatti, appena il caso di ricordare il consolidato principio, affermato da questa Corte regolatrice, secondo cui « La nullità della testimonianza resa da persona incapace, ai sensi dell’art. 246 cod. proc. civ., essendo posta a tutela dell’interesse delle parti, è configurabile come nullità relativa e, in quanto tale, deve essere eccepita subito dopo l’assunzione della prova, rimanendo altrimenti sanata ai sensi dell’art. 157, secondo comma, cod. proc. civ.; qualora detta eccezione venga respinta, l’interessato ha l’onere di riproporla in sede di precisazione delle conclusioni e nei successivi atti di impugnazione, dovendosi altrimenti ritenere rinunciata, con conseguente sanatoria della nullità per acquiescenza, rilevabile d’ufficio dal giudice in ogni stato e grado del processo. » (Cass. civ., Sez. U, sentenza n. 21670 del 23 settembre 2013, Rv. 627450-01).
Né, del resto, può reputarsi ammissibile la dedotta violazione dell’art. 2697 c.c., stante il principio secondo cui essa si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni ( cfr., in tale senso ed ‘ ex permultis ‘, Cass. civ., Sez. T, sentenza n. 26739 del 15 ottobre 2024, Rv. 672706-01).
Aggiungasi, infine, come, anche in tal caso, ci si trovi di fronte ad un motivo cd. ‘ misto ‘ -deducendosi sia l’omesso esame di fatto decisivo sia la violazione o falsa applicazione di legge – con conseguente applicazione del principio per cui è inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360, comma 1, n. 3) e n. 5), c.p.c., non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, e ciò in quanto una simile formulazione mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente
proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse (Cass. civ., Sez. 1, ordinanza n. 26874 del 23 ottobre 2018, Rv. 651324-01; Cass. civ., Sez. L, ordinanza n. 3397 del 6 febbraio 2024, Rv. 670129-01).
Quanto, da ultimo, all’insufficienza della motivazione, giova rammentare che, come chiarito sempre da questa Corte regolatrice, « In seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., disposta dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica del rispetto del «minimo costituzionale» richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost., che viene violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero si fondi su un contrasto irriducibile tra affermazioni inconcilianti, o risulti perplessa ed obiettivamente incomprensibile, purché il vizio emerga dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. » [Cass. civ., Sez. 1, ordinanza n. 7090 del 3 marzo 2022, Rv. 664120-01; cfr., altresì, in senso sostanzialmente conforme Cass. civ., Sez. 6-3, ordinanza n. 22598 del 25 settembre 2018, Rv. 650880-01, secondo cui « In seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., disposta dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, non è più deducibile quale vizio di legittimità il semplice difetto di sufficienza della motivazione, ma i provvedimenti giudiziari non si sottraggono all’obbligo di motivazione previsto in via generale dall’art. 111, sesto comma, Cost. e, nel processo civile, dall’art. 132, secondo comma, n. 4, c.p.c.. Tale obbligo è violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero essa risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione (per essere afflitta da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili oppure perché perplessa ed obiettivamente incomprensibile) e, in tal caso, si concreta una nullità
processuale deducibile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c.. »].
In particolare, questa Corte, a sezioni unite, ha precisato che, dopo la riforma dell’art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c., operata dalla l. n. 134 del 2012, il sindacato sulla motivazione da parte della cassazione è consentito solo quando l’anomalia motivazionale si tramuti in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; in tale prospettiva detta anomalia si esaurisce nella ‘ mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico ‘ , nella ‘ motivazione apparente ‘ , nel ‘ contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili ‘ e nella ‘ motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile ‘ , esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di ‘ sufficienza ‘ della motivazione (cfr. Cass. civ., Sez. U., sentenza n. 8053 del 7 aprile 2014, Rv. 62983001).
Nel caso di specie, alcuna grave anomalia motivazionale risulta ravvisabile, perché, alla stregua delle considerazioni già sopra sviluppate, deve ritenersi che la Corte d’Appello di Venezia abbia congruamente motivato in relazione alle ragioni per le quali ha ritenuto che la società opposta – a carico della quale gravava il relativo onere ex art. 2697 c.c. non avesse provato l’effettiva esecuzione dei lavori oggetto del pagamento che avrebbe dovuto essere eseguito con l’assegno emesso da NOME La Corte ha, infatti, espressamente chiarito che i testimoni escussi su indicazione di quest’ultima avevano tutti collocato l’esecuzione dei lavori indicati dalla società in un momento antecedente alla stipulazione del rogito di acquisto, mentre alcuno dei testi escussi su indicazione della società appellata era stato in grado di collocare nel tempo i lavori, fornendo dichiarazioni generiche e irrilevanti ai fini della decisione.
11.- In conclusione, alla stregua delle considerazioni finora sviluppate, il ricorso dev’essere senz’altro respinto.
12.- Le spese relative al presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
13.- Sussistono i presupposti processuali per il versamento – ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 -, da
parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione
Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi €. 4.200,00 (euro quattromiladuecento/00), di cui €. 200,00 (euro duecento/00) per esborsi, oltre accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione