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Promessa di pagamento: appello inammissibile

La Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso di una debitrice relativo a una promessa di pagamento. La decisione si fonda sul fatto che la sentenza d’appello era sorretta da una doppia motivazione e la ricorrente ne aveva impugnata solo una, rendendo la censura irrilevante. Il caso riguardava degli assegni firmati dalla madre della titolare del conto, usati come prova di un debito commerciale.

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Promessa di Pagamento: Quando la Doppia Motivazione Rende Inutile il Ricorso

Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ci offre uno spunto fondamentale non solo sul tema della promessa di pagamento, ma anche su un aspetto cruciale della strategia processuale: l’impugnazione delle sentenze. Il caso analizzato dimostra come l’omissione di un singolo motivo di ricorso possa rendere l’intera azione inammissibile, anche se le argomentazioni presentate sono, in teoria, fondate. Vediamo nel dettaglio la vicenda e il principio di diritto applicato dai giudici.

I Fatti del Contendere

Una società operante nel settore delle apparecchiature da gioco aveva convenuto in giudizio la titolare di un esercizio pubblico, chiedendo il pagamento di una somma di circa 64.500 euro. A prova del proprio credito, la società produceva quattro assegni bancari, utilizzati non come titoli di credito ma come promesse di pagamento. La particolarità risiedeva nel fatto che gli assegni non erano stati firmati dalla titolare del conto corrente, bensì da sua madre, che era munita di una delega di firma.

Sia il Tribunale che la Corte d’Appello avevano dato ragione alla società creditrice. I giudici di merito avevano ritenuto che la titolare dell’esercizio non fosse riuscita a superare la presunzione di esistenza del debito, che l’articolo 1988 del Codice Civile collega alla promessa di pagamento. Inoltre, la Corte d’Appello aveva aggiunto un’ulteriore e autonoma motivazione: la società creditrice aveva ‘provato documentalmente’ l’esistenza di rapporti commerciali con la titolare, dai quali era scaturito il credito in questione.

Il Ricorso in Cassazione

La titolare dell’esercizio commerciale ha proposto ricorso in Cassazione, basandosi su un unico motivo. Sosteneva che i giudici d’appello avessero errato nell’individuare in lei il soggetto obbligato. Secondo la sua tesi, poiché la madre aveva firmato gli assegni senza specificare di agire in nome e per conto della figlia (difetto di ‘contemplatio domini’), l’obbligazione avrebbe dovuto essere imputata alla firmataria stessa e non alla titolare del conto, in applicazione dell’articolo 1388 del Codice Civile.

La strategia difensiva e la promessa di pagamento

La difesa della ricorrente si concentrava interamente sulla questione formale della firma e della rappresentanza, tentando di scardinare il valore di promessa di pagamento degli assegni nei suoi confronti. Si richiamava a un principio secondo cui, quando si contesta chi sia il soggetto obbligato, spetta al creditore dimostrare la ‘spendita del nome altrui’, senza potersi avvalere dell’inversione dell’onere della prova tipica della promessa di pagamento.

Le Motivazioni della Cassazione: L’Importanza della ‘Doppia Ratio Decidendi’

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, senza neppure entrare nel merito della questione sollevata dalla ricorrente. La ragione risiede in un principio consolidato della procedura civile. La sentenza della Corte d’Appello si basava su due distinte e autonome ‘ratio decidendi’ (ragioni della decisione):

1. La prima, legata all’inversione dell’onere della prova derivante dalla promessa di pagamento e alla mancata prova contraria da parte della debitrice.
2. La seconda, del tutto autonoma, basata sulla prova documentale diretta del rapporto commerciale e del credito, che la società creditrice aveva fornito in giudizio.

La ricorrente aveva costruito il suo intero ricorso criticando solo la prima motivazione, ma aveva completamente ignorato la seconda. La Cassazione ha ribadito che, quando una sentenza è sorretta da una ‘pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione’, l’omessa impugnazione di una di esse rende inammissibile la censura relativa alle altre. Questo perché, anche se le critiche mosse fossero state accolte, la decisione sarebbe rimasta comunque valida in virtù della motivazione non contestata.

Conclusioni: Una Lezione di Strategia Processuale

Questa ordinanza è emblematica. Ci insegna che, al di là della fondatezza delle proprie ragioni nel merito, la strategia processuale è fondamentale. Impugnare una sentenza richiede un’analisi attenta di tutte le motivazioni che la sorreggono. Tralasciarne anche solo una, se questa è di per sé sufficiente a giustificare la decisione, equivale a rendere vano l’intero sforzo del ricorso. In questo caso, la prova documentale del debito, non contestata, ha ‘doppiato’ e reso inattaccabile la decisione basata sulla promessa di pagamento, portando a una dichiarazione di inammissibilità e alla condanna alle spese per la ricorrente.

Un assegno firmato da un delegato vale come promessa di pagamento del titolare del conto?
La sentenza non entra nel merito di questa questione specifica, ma la Corte d’Appello aveva ritenuto di sì. Tuttavia, la Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile per motivi procedurali, quindi non fornisce una risposta definitiva su questo punto, concentrandosi sulla mancata impugnazione di tutte le motivazioni della sentenza di secondo grado.

Cosa succede se un ricorso non contesta tutte le motivazioni autonome della sentenza impugnata?
Il ricorso viene dichiarato inammissibile. Se una sentenza è sorretta da più ragioni, ciascuna di per sé sufficiente a giustificare la decisione, è necessario impugnarle tutte. L’omessa impugnazione di anche solo una di esse rende la sentenza definitiva su quel punto e l’eventuale accoglimento delle altre censure non potrebbe comunque portare all’annullamento della decisione.

In una causa basata su una promessa di pagamento, è sempre sufficiente per il creditore non provare il rapporto sottostante?
Generalmente sì, poiché l’art. 1988 c.c. inverte l’onere della prova. Tuttavia, la sentenza d’appello in questo caso si è rafforzata fornendo anche la prova documentale del rapporto sottostante, creando una ‘doppia ratio decidendi’ che ha reso la sua decisione più solida e, di fatto, inattaccabile con il ricorso proposto.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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