Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 656 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 656 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 10/01/2025
ORDINANZA
sul ricorso 22491/2020 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore , elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo Studio RAGIONE_SOCIALE rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME e dall’avvocato NOME COGNOME giusta procura in atti;
-ricorrente –
contro
COGNOME NOMECOGNOME elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che lo rappresenta e difende con l’avvocato NOME COGNOME giusta procura in atti;
-controricorrente –
avverso la sentenza n. 970/2020 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 23/04/2020;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13/11/2024 dal Consigliere NOME COGNOME
NOME COGNOME premettendo di avere promesso di acquistare, con contratto del 6/9/2011, da RAGIONE_SOCIALE (ora RAGIONE_SOCIALE) un complesso immobiliare in corso di costruzione per il prezzo di € 1.478.200,00; di avere versato € 278.520,00 a titolo di caparra confirmatoria, nonché tre acconti, ognuno dell’importo di € 145.314,26; che l’art. 5 del contratto disponeva che la promittente alienante avrebbe dovuto ‘ultimare la costruzione dell’edificio’ entro il 30/6/2013, salvo la possibilità di avvalersi di un diverso termine, nel rispetto delle modalità stabilite dallo strumento negoziale; che l’esponente aveva receduto dal contratto in data 31/7/2014, poiché, trascorsi dodici mesi dalla pattuita consegna, non era stato ancora possibile addivenire alla stipula del contratto definitivo, chiese e ottenne ingiunzione di pagamento ai danni della promittente alienante per il complessivo importo di € 992.982,78, oltre accessori.
Il Tribunale di Milano rigettò l’opposizione e le domande riconvenzionali proposte dall’ingiunta.
La Corte d’appello di Milano disattese l’impugnazione di RAGIONE_SOCIALE (già RAGIONE_SOCIALE, la quale aveva negato di essere inadempiente e aveva chiesto, per contro, condannarsi la controparte al risarcimento del danno e pronunciarsi sentenza ai sensi dell’art. 2932 cod. civ., previa condanna del promissario acquirente al pagamento del residuo prezzo.
2.1. Questi in sintesi gli argomenti salienti della decisione di secondo grado.
Al fine di ricostruire la vicenda negoziale e gli accadimenti rilevanti la Corte locale riporta ampio stralcio della sentenza di primo grado, dalla quale era dato trarre che in base al contratto (art. 5) l’edificio avrebbe dovuto essere ultimato entro il 20/6/2013, la promittente alienante avrebbe potuto prorogare, ‘entro e non oltre il 31.12.2012’, il termine per la consegna delle unità immobiliari con un ‘nuovo termine’, mediante una
comunicazione scritta inviata al promissario acquirente; ove la proroga avesse superato dodici mesi il promissario acquirente avrebbe avuto la facoltà di recedere dal contratto a mezzo di comunicazione scritta da far pervenire alla promittente alienante entro trenta giorni dalla comunicazione del nuovo termine, con diritto alla restituzione di quanto versato; in difetto, il nuovo termine doveva intendersi accettato e a esso si applicava un periodo di tolleranza di trenta giorni.
L’accordo, inoltre, contemplava l’ipotesi di un termine suppletivo, ove il ritardo non fosse stato imputabile alla promittente alienante.
Le unità immobiliari promesse in vendita andavano consegnate e il contratto definitivo stipulato, ad avvenuto completamento di esse, anche anteriormente all’ultimazione dell’intero fabbricato, previa comunicazione scritta della promittente alienante, con la previsione di sessanta giorni per la verifica in contraddittorio dello stato di fatto.
Quindi, secondo la ricostruzione giudiziaria, la clausola distingueva il termine per l’ultimazione dell’edificio da quello delle unità promesse in vendita.
Indi, prosegue la narrazione, il termine del 30/6/2013 per l’ultimazione dell’edificio non era stato osservato.
La promittente alienante aveva sostenuto di avere comunicato allo Scolari, con lettera raccomandata del dell’11/12/2012, il nuovo termine del 30/6/2014 per l’ultimazione dell’edificio e quello stimato di fine 2013 per il completamento delle unità promesse in vendita.
Per contro, il promissario acquirente aveva negato di avere ricevuto la comunicazione e chiesto chiarimenti a mezzo e-mail, il giorno 11/7/2013, a riguardo della consegna delle unità immobiliari, essendo decorso il termine contrattuale del 30/6/2013.
Con nota del 12.12.2013 la Coima aveva sostenuto che lo Scolari aveva tacitamente accettato il nuovo termine del 30/6/2014.
Seguiva, il 30/7/2014, comunicazione del recesso del promissario acquirente, con richiesta di restituzione degli importi versati e del doppio della caparra, per un complessivo ammontare di € 992.982,78.
Secondo la ricostruzione del Tribunale, fatta propria dalla Corte d’appello, il nuovo termine (30/6/2014) per la consegna delle unità immobiliari era privo d’efficacia poiché non comunicato tempestivamente, poiché la promittente, che non aveva prodotto l’avviso di ricezione, non aveva dimostrato, come era suo onere, che la missiva fosse stata effettivamente ricevuta dal destinatario.
Non era applicabile la presunzione di cui all’art. 1335 cod. civ. perché mancava la prova che la comunicazione fosse giunta al domicilio del destinatario.
Per altro verso, non era stato neppure allegato che l’impossibilità di rispettare il termine del 30/6/2013 (30/7/2013, con la prevista tolleranza) fosse dipesa da circostanze non addebitabili alla promittente alienante.
In particolare, esaminato il secondo motivo d’appello, valutato assorbente, la Corte di Milano, a prescindere dal contenuto della lettera dell’11/12/2012 (se con questa, cioè, fosse stato differito solo il termine per la consegna delle unità immobiliari, ma non quello per il completamento dell’edificio), afferma testualmente: <>.
Lo stampato di Poste Italiane, attestante la spedizione e l’indicazione presuntiva della consegna, prodotto dall’appellante, corroborava l’assunto dell’appellato, invece che smentirlo: <>.
RAGIONE_SOCIALE ricorre avverso la sentenza d’appello sulla base di tre motivi. L’intimato resiste con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
Con il primo motivo si denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1335 e 2729 cod. civ.
Secondo la ricorrente la Corte milanese aveva fatta corretta ricognizione degli artt. 1335 e 2729 cod. civ., facendone, tuttavia, erronea applicazione.
La presunzione di cui all’art. 1335 cod. civ. presuppone che il plico sia giunto al domicilio del destinatario. Al contrario della conclusione cui giunge la sentenza impugnata, le emergenze di causa consentivano di raccogliere plurimi elementi sulla base dei quali potersi affermare che la raccomandata era giunta al domicilio dello Scolari, ciò a prescindere dall’individuazione del giorno.
Sulla base del consolidato indirizzo di legittimità, la trasmissione per raccomandata postale assicura la prova presuntiva della ricezione, spettando al destinatario l’onere di dimostrare <>.
3.1. Il motivo è fondato.
È principio consolidato quello secondo il quale la spedizione di una comunicazione in plico raccomandato non vale da sola a stabilire che il destinatario sia venuto a conoscenza della dichiarazione in esso contenuta, occorrendo, invece, provare che detto plico sia pervenuto a destinazione, per poter fondare una presunzione di conoscenza nei confronti del destinatario; il principio di presunzione di conoscenza posto dall’art. 1335 cod. civ., infatti,
opera per il solo fatto oggettivo dell’arrivo della dichiarazione nel luogo di destinazione, ma non quando sia contestato che essa sia mai pervenuta a quell’indirizzo e il dichiarante non fornisca elementi di prova idonei a sostenere tale assunto 8Sez. 1, n. 20924, 27/10/2005, Rv. 584770; conf. Cass. nn. 9303/2012, 24703/2017).
Tuttavia, La produzione in giudizio di un telegramma, o di una lettera raccomandata, anche in mancanza dell’avviso di ricevimento, costituisce prova certa della spedizione, attestata dall’ufficio postale attraverso la relativa ricevuta, dalla quale consegue la presunzione dell’arrivo dell’atto al destinatario e della sua conoscenza ai sensi dell’art. 1335 c.c., fondata sulle univoche e concludenti circostanze della suddetta spedizione e sull’ordinaria regolarità del servizio postale e telegrafico Sez. L. n. 24015, 12/10/2017, Rv. 646099; conf. Cass. nn. 511/2019, 17204/2016, 17417/2007, 8073/2002, 758/2006, 23920/2013).
La sentenza, attraverso motivazione di non agevole comprensibilità, esclude l’applicazione del riportato principio, valorizzando (parrebbe) una pretesa evidenza priva, in realtà, di efficacia discriminatoria: qui, secondo la Corte di merito, non si sarebbe trattato di verificare l’incontro di volontà per la conclusione del contratto, bensì <>.
Per contro, il discrimine, piuttosto che costituire conclusione della compiuta ricognizione della volontà delle parti, viene posto quale postulata premessa apriori.
Con il secondo motivo viene denunciata violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 cod. civ.
La ricorrente deduce che la Corte di merito aveva reputato che la clausola negoziale imponesse all’esponente di comunicare entro e non oltre il 31/12/2012 la proroga, nel senso che entro detta data fosse necessario che la comunicazione fosse giunta a destino e non solo che fosse inviata, omettendo di prendere in considerazione la volontà delle parti, siccome poteva ricavarsi dall’insieme dell’intero contratto.
Emergeva dallo strumento che, laddove le parti avevano inteso fissare il ‘dies ad quo’ del termine dal momento della consegna della comunicazione, una tale scelta era stata espressa inequivocamente (vengono riportate due clausole tratte sempre dall’art. 5).
Le clausole non erano state interpretate le une per mezzo delle altre (art. 1363 cod. civ.). Il termine, invero, decorreva, nel caso in cui la consegna avrebbe dovuto effettuarsi alla società, da essa consegna (adempimento agevole, trattandosi di soggetto avente nota e ufficiale sede). Lo stesso onere non avrebbe potuto essere imposto alla ricorrente per la comunicazione a persona fisica (promissario acquirente), col rischio, quindi di non potere esercitare il proprio diritto.
4.1. Il motivo è fondato.
La Corte d’appello, condividendo il ragionamento del Tribunale, ritiene che la disposizione di cui alla clausola 5.2. del contratto imponga alla promittente alienante, ove intenda avvalersi della prevista proroga per ultimazione e consegna, di far pervenire la comunicazione scritta all’altra parte entro e non oltre il 31/12/2012.
Interpretazione, questa, che, pur in sé plausibile, non si misura con il complesso delle disposizioni negoziali e, in particolare con la scelta delle parti di avere previsto nello stesso strumento, per l’opposta ipotesi (consegna alla promittente alienante), con statuizione espressa e inequivoca, la decorrenza degli effetti solo
dal momento in cui la comunicazione scritta venga materialmente consegnata all’altra parte.
Scelta, questa, adottata per la prevista facoltà del promissario acquirente di recedere dal contratto, nel caso in cui il nuovo termine fissato dalla promittente alienante fosse successivo di oltre dodici mesi rispetto a quello iniziale.
In questo caso, invero, il contrato impone testualmente: <>. Analogamente, nel caso in cui non fosse stato possibile stipulare il contratto definitivo.
Fermo restando che costituisce ambito motivazionale riservato al giudice del merito spiegare la evidenziata distonia, essa, tuttavia, non può essere ignorata in spregio al canone ermeneutico imposto dall’art. 1363 cod. civ.
Con il terzo motivo si denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1175 e 1375 cod. civ.
Il motivo censura la sentenza per avere sostenuto che, anche ad ammettere l’avvenuta tempestiva consegna della comunicazione di proroga, non avrebbe assunto significato la successiva condotta tenuta dallo Scolari.
In particolare, viene evidenziato il suo silenzio, protratto per svariati mesi e la sua espressa dichiarazione, in risposta alla e-mail della esponente, di non intendere accettare il nuovo termine, pur ove la comunicazione gli fosse giunta.
Una tale condotta contrastava con il dovere di agire secondo buona fede; specie il silenzio protratto per un tempo non ragionevole: a fronte della condotta diligente della ricorrente, l’intimato sino al luglio del 2013 era rimasto silente, così ingenerando la convinzione che la proroga non avrebbe più potuto essere contestata e permanendo, inoltre, in ulteriore silenzio fino al
19/11/2013, quando per la prima volta ebbe ad eccepire di non avere ricevuto la comunicazione.
5.1. Il motivo è fondato.
La sentenza (pag. 11, secondo periodo), partendo dal presupposto che non fosse stata dimostrata la rituale comunicazione del nuovo termine di consegna dell’immobile, afferma che <>.
La Corte di Milano, quindi, presupponendo la non rituale e tempestiva comunicazione della proroga di cui avrebbe inteso avvalersi la RAGIONE_SOCIALE ritiene legittimo il recesso del promissario acquirente manifestato con la lettera del 30/7/2014.
A prescindere dalle valutazioni riservate alla sede di rinvio, dipendenti dall’accoglimento dei primi due motivi, di per sé la statuizione non si misura con gli artt. 1175 e 1375 cod. civ., non avendo il Giudice proceduto a considerare secondo i canoni della buona fede la condotta silente del promissario acquirente protratta per un tempo inusitatamente lungo, anche avuto riguardo ai consistenti acconti sul prezzo pagati, che avrebbero dovuto spingerlo a una sollecita presa di posizione.
Sul punto, quindi, la decisione ha omesso di confrontarsi con la giurisprudenza consolidata di questa Corte, alla quale va data continuità.
Si è chiarito che i princìpi di correttezza e buona fede nell’esecuzione e nell’interpretazione dei contratti, di cui agli artt. 1175, 1366 e 1375 cod. civ., rilevano sia sul piano dell’individuazione degli obblighi contrattuali, sia su quello del bilanciamento dei contrapposti interessi delle parti. Sotto il primo profilo, essi impongono alle parti di adempiere obblighi anche non espressamente previsti dal contratto o dalla legge, ove ciò sia necessario per preservare gli interessi della controparte; sotto il secondo profilo, consentono al giudice di intervenire anche in senso modificativo o integrativo sul contenuto del contratto, qualora ciò sia necessario per garantire l’equo contemperamento degli interessi delle parti e prevenire o reprimere l’abuso del diritto ( Sez. 3, Sentenza n. 20106 del 18/09/2009, Rv. 610222 -01; conf., ex multis, Cass. nn. 20106/2009).
Con un angolo d’incidenza peculiare, si è ulteriormente chiarito che il generale principio etico-giuridico di buona fede nell’esercizio dei propri diritti e nell’adempimento dei propri doveri, insieme alla nozione di abuso del diritto, che ne è un’espressione, svolge una funzione integrativa dell’obbligazione assunta dal debitore (nella specie, la banca), quale limite all’esercizio delle corrispondenti pretese, avendo ciascuna delle parti contrattuali il dovere di tutelare l’utilità e gli interessi dell’altra, nei limiti in cui ciò possa avvenire senza un apprezzabile sacrificio di altri valori (Sez. 1, n. 17642, 15/10/2012, Rv. 624747).
Ed ancora, la clausola generale di buona fede nell’esecuzione del contratto impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali e da quanto espressamente stabilito da singole norme di legge; in virtù di tale principio ciascuna parte è tenuta da un lato ad adeguare il proprio comportamento in modo da salvaguardare l’utilità della controparte, e, dall’altro, a tollerare anche
l’inadempimento della controparte che non pregiudichi in modo apprezzabile il proprio interesse. Ad un tale riguardo il semplice ritardo di una parte nell’esercizio di un diritto (nel caso di specie, diritto di agire per far valere l’inadempimento della controparte) può dar luogo ad una violazione del principio di buona fede nell’esecuzione del contratto soltanto se, non rispondendo esso ad alcun interesse del suo titolare, correlato ai limiti e alle finalità del contratto, si traduca in un danno per la controparte (Sez. 3, n. 5240, 15/3/2004, Rv. 571152; conf., ex multis, Cass. nn. 2855/2005, 264/2006, 10182/2009).
In conclusione, accolto il ricorso, la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio.
Il Giudice del rinvio riesaminerà la vicenda facendo applicazione dei principi sopra richiamati e regolerà anche le spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Milano, altra composizione, anche per il regolamento delle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso nella camera di consiglio del 13 novembre 2024