Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 14051 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 14051 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 26/05/2025
ORDINANZA
sul ricorso 16882-2020 proposto da:
COGNOME, domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati NOME COGNOME, NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 534/2020 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 04/02/2020 R.G.N. 2527/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 26/03/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
Oggetto
R.G.N. 16882/2020
COGNOME
Rep.
Ud. 26/03/2025
CC
Fatti di causa
La Corte d’appello di Napoli, con la sentenza in atti, ha rigettato l’appello proposto da COGNOME NOME avverso la sentenza del tribunale di Nola con cui era stata rigettata per intervenuta prescrizione quinquennale la sua domanda volta ad ottenere la condanna della RAGIONE_SOCIALE al pagamento delle varie somme rivendicate all’esito della risoluzione del rapporto di agenzia intervenuta il 31/12/2002.
La Corte, a fondamento della domanda, ha ritenuto che correttamente il primo giudice avesse applicato il termine di prescrizione quinquennale e non quello decennale all’indennità di cessazione del rapporto di agenzia ai sensi dell’art. 2948, n.5 c.c.; inoltre andava disattesa la seconda doglianza proposta in appello, dovendosi ritenere decorso il termine di prescrizione quinquennale per tutte le spettanze che costituivano oggetto di giudizio, posto che il ricorso introduttivo del presente giudizio era stato notificato il 2/2/2009 e in data 16/6/2003 la società appellata aveva ricevuto una richiesta del COGNOME avente ad oggetto le indennità richieste in ricorso. Non poteva avere effetti ai fini interruttivi il documento prodotto in appello dall’appellante costituito dalla copia della convocazione inviata dalla Commissione di conciliazione a seguito di richiesta di tentativo di conciliazione del COGNOME; in sede d’appello era stata prodotta dall’appellante copia della convocazione inviata sia al COGNOME che alla società per il 23/10/2007 ed il tabulato da cui risultava l’elenco delle parti convocate per la seduta della Commissione del 23/10/2007 in cui – aggiunto a penna in corrispondenza della sola società appellata -vi era il riferimento ad un numero di raccomandata.
Ad avviso della Corte di appello, se quello era l’elenco delle parti convocate per una seduta della commissione di
conciliazione, appariva innanzitutto strano che solo per la società appellata fosse stata utilizzata una forma diversa rispetto a tutte le altre, e cioè l’invio della convocazione con raccomandata e non con posta ordinaria.
Inoltre era dirimente la circostanza che sulla convocazione ed anche sul tabulato fosse indicato un indirizzo sbagliato della sede legale della società, cioè INDIRIZZO mentre l’indirizzo giusto era INDIRIZZO Ciò dimostrava come la convocazione non fosse giunta a conoscenza della società non potendosi applicare quindi la presunzione di conoscenza degli atti recettizi ex art. 1335 c.c. derivante dalla spedizione con lettera raccomandata alla luce della consolidata giurisprudenza.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione COGNOME NOME con quattro motivi di ricorso ai quali ha resistito RAGIONE_SOCIALE con controricorso. Le parti hanno depositato memorie prima dell’udienza. Al termine della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei successivi sessanta giorni.
Ragioni della decisione
1.- Con il primo motivo di ricorso si sostiene la violazione e/o errata e/o falsa applicazione degli articoli 2943, 2946 e 2948 c.c., nonché dell’articolo 113 c.p.c. in relazione all’articolo 360, n. 3 c.p.c. per avere la Corte d’appello affermato l’applicabilità della prescrizione breve quinquennale, dell’articolo 2948 c.c. dovendo applicarsi invece la prescrizione decennale ordinaria ex articolo 2946 c.c. posto che la prescrizione breve riguarda soltanto le erogazioni periodiche e per le indennità di cessazione del rapporto solo quelle relative al rapporto di lavoro dipendente, cioè propriamente subordinato.
1.1.- Il primo motivo di ricorso è infondato in quanto riferito alle indennità spettanti per la cessazione del rapporto
dell’agente . Secondo la giurisprudenza che si è venuta consolidando (Cass.14062/2021 che richiama Cass. n. 15798/2008 e n. 16139/2018) tali indennità sono assoggettate alla prescrizione quinquennale ex art. 2948, n. 5, c.c. e non all’ordinario termine decennale, in ragione dell’esigenza di evitare le difficoltà probatorie derivanti dall’eccessiva sopravvivenza dei diritti sorti in occasione della chiusura del rapporto. In motivazione la pronuncia richiamata ‘precisa che l’art. 2948 c.c., n. 5, disponendo prescriversi in cinque anni le indennità spettanti per la cessazione del rapporto di lavoro, trova la sua ragione giustificativa nell’opportunità di sottoporre a prescrizione breve i diritti del lavoratore che sopravvivano al rapporto di lavoro, in quanto nati nel momento della sua cessazione, e di evitare in tal modo le difficoltà probatorie derivanti dall’esercizio delle relative azioni troppo ritardate rispetto all’estinzione del rapporto sostanziale; che tale ratio legis sussiste per qualsiasi tipo di indennità, sia di natura retributiva sia previdenziale (Cass. n. 4415/1983; n. 3410/1985; n. 7040/1986) ed anche nel caso in cui si tratti di rapporto parasubordinato (Cass. n. 10923/1994; n. 10526/1997), quando, come nella specie, sia a carico del datore di lavoro; che l’assenza di distinzioni nell’art. 2948 c.c., n. 5 induce ad includere nella sua previsione qualsiasi credito del prestatore di lavoro purchè esso trovi causa nella cessazione del rapporto, e quindi anche l’indennità sostitutiva del preavviso, contrariamente a quanto ritenuto da Cass. n. 9438/2000 e n. 9636/2003. 7.2. Già Cass. n. 10923/1994 aveva chiaramente escluso che l’art. 2948 c.c., n. 5 potesse essere interpretato in senso restrittivo, nel senso della sua applicabilità unicamente ai crediti sorti nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato. Al riguardo aveva osservato, da un lato e sotto un profilo sistematico, che il Libro V del
Codice Civile (Del Lavoro) regola varie forme di attività lavorative e, in particolare, il lavoro subordinato (Titolo II), il lavoro autonomo (Titolo III) ed il lavoro subordinato in particolari rapporti (Titolo IV); da altro lato, aveva sottolineato la genericità della formula usata dal legislatore nell’art. 2948 c.c., n. 5 (“le indennità spettanti per la cessazione del rapporto di lavoro”), genericità ritenuta tanto più rilevante nella considerazione che le indennità di fine rapporto non sono previste solo nel rapporto di lavoro subordinato ma anche in altre forme contrattuali, che pure prevedono il regolamento di un’attività lavorativa (v. art. 1751 c.c.): premesse, di ordine sistematico e logico, sulle quali ha concluso che l’art. 2948, n. 5 dovesse essere interpretato nel senso che la prescrizione quinquennale riguarda tutte “le indennità spettanti per la cessazione del rapporto di lavoro”, senza la limitazione – non prevista dal legislatore – a quelle relative al rapporto di lavoro subordinato. 7.3. Tale orientamento è stato di recente, e nei medesimi termini, ribadito da Cass. n. 16139/2018 (“Le indennità spettanti al lavoratore al momento della cessazione del rapporto di lavoro sono assoggettate alla prescrizione quinquennale ex art. 2948 c.c., n. 5 a prescindere dalla loro natura, retributiva o previdenziale, in ragione dell’esigenza di evitare le difficoltà probatorie derivanti dall’eccessiva sopravvivenza dei diritti sorti in occasione della chiusura del rapporto”), così da essere del tutto prevalente nella giurisprudenza di questa Corte.’.
La giurisprudenza sopra riportata è pienamente condivisa dal Collegio sicché il primo motivo deve essere disatteso.
2.- Con il secondo motivo si sostiene la violazione e/o errata e/o falsa applicazione degli articoli 2943, 2946 e 2948 c.c. nonché dell’articolo 113 c.p.c. in relazione all’articolo 360, n. 3 c.p.c. per non aver la Corte di appello tenuto conto che,
come dettagliatamente descritto nel ricorso di primo grado e nel ricorso in appello, quelle richieste in giudizio erano somme di vario importo dovute a vari titoli differenti per natura ed origine (indebita trattenuta su provvigioni del primo trimestre del 2001; fattura non pagata; indennità sostitutiva del preavviso; indennità di cessazione del rapporto ex articolo 1751 c.c., ovvero in subordine indennità di risoluzione del rapporto ex Firr, indennità suppletiva di clientela e indennità meritocratiche ex articolo 12 Accordo Economico collettivo 26/3/2002; in subordine a tale ultima voce di credito somme a titolo di Firr dell’anno 2002, indennità suppletiva di clientela e indennità meritocratica, risarcimento danni per indebita sottrazione di clienti, indennità per attività di merchandaiser eseguita; indennità per attività di incasso eseguita); solo alcune e non altre di dette voci erano quindi propriamente definibili come correlate alle fattispecie dell’articolo 2948 nn. 4 e 5. Pertanto, a parte i crediti provvigionali, le altre voci di credito rivendicati in questo giudizio, dovevano essere assoggettati al termine di prescrizione decennale ed aveva sbagliato la sentenza di appello a ricomprendere tutte le differenti voci di credito azionate in giudizio dal COGNOME in un’unica fattispecie creditoria, quindi sottoponibile ad un unico termine prescrizionale senza distinguere tra le varie voci.
2.1. Premesso che secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cassazione n. 14498/2019) anche per le provvigioni si applica il termine di prescrizione quinquennale ( ex art. 2948 n. 4 c.c. ), trattandosi di somme pagabili periodicamente ad anno o in termini più brevi, anche questo motivo deve ritenersi infondato, laddove il ricorrente reclama l’applicazione della differente prescrizione decennale per le altre somme azionate in giudizio (diverse da quelle legate alla cessazione del rapporto) di cui però a parte una mera declamazione dei titoli
non dimostra la natura non provvigionale (o comunque risarcitoria o indennitaria o non legata alla cessazione del rapporto); e comunque l’assoggettamento ad un più ampio termine di prescrizione decennale; anche per difetto di specificità.
Inoltre non risulta quando questo tema, della differente o reale natura dei titoli e del diverso termine di prescrizione fosse stata sollevata nel giudizio di primo e di secondo grado, dal momento che la sentenza impugnata non parla della medesima questione.
3.- Col terzo motivo si deduce la violazione e/o errata e/o falsa applicazione degli articoli 1335, 2943, 2697, 2699, 2700 c.c. e degli articoli 112, 113, 115, 116, 210, 213, 221, 122, 123, 125, 416, 420, 421 c.p.c. in relazione all’articolo 360 n. 3 c.p.c. , omesso esame circa un fatto decisivo pregiudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione all’articolo 360, numero 5 c.p.c. inteso se del caso anche come esame apparente e/o perplesso e/o incomprensibile per avere la Corte d’appello affermato che la prova della ricezione da parte della società della convocazione inoltrata dalla Direzione provinciale di Napoli del Ministero del lavoro di convocazione per l’esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione, non sarebbe stata raggiunta e che nella fattispecie non poteva operare la presunzione di conoscenza degli atti recettizi di cui all’articolo 1335 c.c.
3.1. La prova che la raccomandata fosse stata spedita non poteva certamente essere rimessa in discussione (posto che nel documento rilasciato dalla PA c’era l’indicazione del numero della Raccomandata) e ciò faceva prova fino a querela di falso circa l’attestazione del pubblico ufficiale di averla spedita (anche se la Corte ha detto che era strana l’aggiunta a mano del nr. della racc. in corrispondenza della
indicazione della convenuta, aggiunta effettuata a seguito della richiesta del ricorrente).
3.2.- La censura è inammissibile perché, aldilà del riferimento a plurimi errores in procedendo ed in iudicando – anche attraverso l’improprio riferimento agli artt. 115 e 116 (cfr. Cass. n. 23940 del 2017 e Cass. n. 25192 del 2016, con la giurisprudenza ivi richiamata) – nella sostanza critica la sentenza impugnata per come ha valutato le prove e pone unicamente questioni di fatto non ulteriormente deducibili dinanzi in questa sede.
3.3. In proposito, occorre considerare che gli accertamenti di fatto non sono sindacabili in sede di legittimità oltre i limiti imposti dal novellato art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., così come rigorosamente interpretato dalle Sezioni unite di questa Corte con le sentenze n. 8053 e n. 8054 del 2014 (con principi costantemente ribaditi dalle stesse Sezioni unite v. n. 19881 del 2014, n. 25008 del 2014, n. 417 del 2015, oltre che dalle Sezioni semplici), di cui parte ricorrente non tiene alcun conto, pretendendo piuttosto una rivalutazione degli accadimenti storici ed una revisione del giudizio di fatto non ammissibile in cassazione.
3.4 . Deve ancora ribadirsi, in consonanza con l’orientamento di questa Corte (v. Cass., S.U. n. 20867 del 2020; Cass. n. 11892 del 2016; Cass. n. 25029 del 2015; Cass. n. 25216 del 2014), che la violazione dell’art. 115 c.p.c. può essere dedotta come vizio di legittimità qualora il giudice, esercitando il suo potere discrezionale nella scelta e valutazione degli elementi probatori, ometta di valutare le risultanze di cui la parte abbia esplicitamente dedotto la decisività, salvo escluderne in concreto, motivando sul punto, la rilevanza; ovvero quando egli ponga alla base della decisione fatti che erroneamente ritenga notori o la sua scienza personale. In modo parallelo, la
violazione dell’art. 116 c.p.c. presuppone che il giudice abbia valutato una prova legale secondo prudente apprezzamento o un elemento di prova liberamente valutabile come prova legale.
Nessuna di queste situazioni è rappresentata nei motivi di ricorso in esame, ove è unicamente dedotto che il giudice ha male esercitato il suo prudente apprezzamento della prova, censura consentita solo ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. nel caso di specie precluso e non integrato nei requisiti richiesti dal nuovo testo.
3.5. La Corte di appello ha rilevato infatti che il rapporto di agenzia si fosse risolto in data 31.12.2002 e che il ricorso introduttivo del presente giudizio fosse stato notificato il 2/2/200, mentre in data 16/6/2003 la società appellata avesse ricevuto una richiesta del Baccini avente ad oggetto le indennità richieste in ricorso.
Non poteva avere effetti ai fini interruttivi invece il documento prodotto in appello dall’appellante costituito dalla copia della convocazione inviata dalla Commissione di conciliazione a seguito di richiesta di tentativo di conciliazione del COGNOME; in sede d’appello era stata prodotta dall’appellante copia della convocazione inviata sia al COGNOME che alla società per il 23/10/2007 ed il tabulato da cui risultava l’elenco delle parti convocate per la seduta della Commissione del 23/10/2007 in cui – aggiunto a penna in corrispondenza della sola società appellata – vi era il riferimento ad un numero di raccomandata. In primo grado era stato prodotto solo un documento attestante la spedizione con posta ordinaria e non con raccomandata della convocazione del 27.5.2007.
3.6. Ciò posto va osservato che secondo la Corte di merito era pacifico che sulla convocazione della Commissione e sul tabulato prodotto era indicato un indirizzo sbagliato della
società e cioè INDIRIZZO invece che 178/5. Ciò dimostrava come la convocazione non fosse giunta alla società non potendosi applicare la presunzione per gli atti recettizi ex art. 1355 c.c.
3.7. Si tratta di un accertamento di fatto che non può essere ulteriormente contestato in questa sede e che corrisponde all’ordinamento in vigore atteso che la presunzione di conoscenza ex art. 1355 c.c. intanto si può applicare in quanto venga rispettato l’indirizzo del destinatario.
3.8 . Va pure evidenziato che non c’è omissione di alcun fatto decisivo discusso tra le parti perché la Corte ha valutato ogni questione. Né c’è violazione dell’art. 1355 c.c. perché la norma presuppone il recapito all’indirizzo corretto. Il fatto che sul tabulato non ci fosse la precisazione che la RR non fosse stata restituita inesitata non è un argomento decisivo, posto che non c’era scritto nemmeno che fosse stata recapitata (ma solo inviata con RR). Il mancato accoglimento della richiesta di informazioni -avanzata solo in appello -rientra nella discrezionalità del giudice e comunque non è assoggettabile a censure in questa sede non trattandosi di un mezzo dotato di decisività nei termini richiesti dalla giurisprudenza di questa Corte ( Cass. n. 16214 del 17/06/2019 la quale evidenzia che ‘Il vizio di motivazione per omessa ammissione della prova testimoniale o di altra prova può essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui esso investa un punto decisivo della controversia e, quindi, ove la prova non ammessa o non esaminata in concreto sia idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la “ratio decidendi” risulti priva di fondamento’ ).
4.- Con il quarto motivo si denuncia la violazione e/o errata
e/o falsa applicazione degli articoli 2943, 2697, 2727, 2729 c.c. e degli altri articoli 112, 113, 115, 116 c.p.c. in relazione all’articolo 360, n. 3 c.p.c., l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto discussione tra le parti in relazione all’articolo 360, numero 5 c.p.c. inteso se del caso anche come esame apparente o perplesso e/o incomprensibile, posto che la Corte d’appello ha ritenuto di poter trarre un proprio convincimento da un atto proveniente da un pubblico ufficiale, discostandosi dalla dichiarazione che nell’atto pubblico è stata fornita dalla p.a. ed anzi interpretando tale atto per prevenire alla conclusione esattamente opposta a quella attestata; la Corte d’appello ha tratto da nessun elemento in fatto acquisito al processo la presunzione che la convocazione per il tentativo di conciliazione non fosse stata né spedita (il dubbio sulla strana indicazione del numero di raccomandata, nonostante la spedizione sia stata attestata in atto di pubblico ufficiale) né comunque recapitata.
4.1. Il quarto motivo è infondato; la Corte d’appello non ha tratto nessuna presunzione contraria all’atto pubblico e pur avendo affermato ad abundantiam che era ‘strano’ che l’annotazione della convocazione tramite RR fosse stata effettuata solo per la società (evidenziando però al tempo stesso come in primo grado fosse stato prodotto dal ricorrente solo un documento attestante la spedizione con posta ordinaria e non con raccomandata), in realtà risulta aver fondato la propria conclusione su ll’inidoneità della RR ai fini dell’art. 1335 c.c. esclusivamente sull’errore dell’indirizzo.
5.- Pertanto sulla scorta delle premesse svolte il ricorso va complessivamente rigettato. Le spese processuali seguono il regime della soccombenza, nella misura liquidata in dispositivo in favore della parte controricorrente. Segue altresì il
raddoppio del contributo unificato ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (conformemente alle indicazioni di Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535).
P.Q.M .
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alla rifusione delle spese di lite, che liquida in complessivi euro 4.000,00 per compensi e 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge,. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 1 -bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso nella Adunanza camerale del 26.3.2025