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Prelazione agraria: quando il frazionamento è lecito

Un coltivatore diretto confinante ha agito in giudizio per esercitare il diritto di prelazione agraria, sostenendo che i venditori avessero frazionato il terreno in modo fraudolento per impedirglielo. La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando la decisione della Corte d’Appello. È stato stabilito che se la striscia di terreno non venduta, che interrompe la contiguità, possiede una propria autonomia funzionale e un’utilità agricola oggettiva, l’operazione è lecita. Il ricorso è stato respinto perché mirava a una nuova valutazione dei fatti, non consentita in sede di legittimità.

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Prelazione Agraria e Frazionamento: Come Evitare Contestazioni

Il diritto di prelazione agraria è un pilastro della legislazione agricola, volto a favorire l’accorpamento dei fondi e la creazione di aziende agricole più efficienti. Tuttavia, la sua applicazione può generare complesse controversie, specialmente quando la vendita di un terreno è preceduta da un frazionamento che modifica la contiguità tra i fondi. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione offre importanti chiarimenti su quando tale operazione possa essere considerata lecita.

I fatti del caso: un frazionamento sospetto

Un coltivatore diretto, proprietario di un terreno agricolo, vedeva messo in vendita il fondo confinante. Tuttavia, poco prima della vendita, i proprietari del fondo vicino lo frazionavano, creando una lunga e stretta striscia di terreno proprio lungo il confine con la sua proprietà. Successivamente, vendevano a terzi la parte più consistente del fondo, trattenendo la proprietà di questa striscia-diaframma, che veniva però concessa in affitto agli stessi acquirenti.

Ritenendo che questa operazione fosse stata architettata al solo scopo di eludere il suo diritto di prelazione, il coltivatore confinante citava in giudizio sia i venditori sia gli acquirenti per esercitare il diritto di retratto agrario, ossia il diritto di riscattare il fondo.

La decisione della Corte d’Appello: l’autonomia del fondo residuo

Se in primo grado il giudice aveva parzialmente accolto le ragioni del coltivatore, la Corte d’Appello ribaltava la decisione. Basandosi sulle risultanze di una Consulenza Tecnica d’Ufficio (CTU), i giudici di secondo grado stabilivano che la striscia di terreno residua, sebbene di forma particolare, possedeva “obiettive caratteristiche fisiche ed agronomiche” che la rendevano idonea a un autonomo sfruttamento agricolo.

Secondo la Corte, anche se per ottenere un reddito “dignitoso” da una superficie così ridotta fossero necessarie coltivazioni specializzate ad alto reddito (come florovivaismo o colture orticole da seme), ciò non toglieva al terreno una sua intrinseca utilità e un’autonomia strutturale e funzionale. Di conseguenza, l’operazione non poteva essere considerata un mero espediente per frodare la legge, ma una legittima scelta proprietaria.

Le motivazioni della Cassazione: il limite invalicabile tra fatto e diritto nella prelazione agraria

La Corte di Cassazione, investita del caso, ha dichiarato il ricorso del coltivatore inammissibile. Le motivazioni della Suprema Corte sono di natura prettamente processuale ma fondamentali per comprendere i limiti del giudizio di legittimità.

I giudici hanno spiegato che tutte le censure del ricorrente, sebbene formalmente presentate come violazioni di legge o vizi di motivazione, si traducevano in una richiesta di riesaminare nel merito i fatti e le prove, in particolare la valutazione della CTU. Questo tipo di attività è preclusa alla Corte di Cassazione, il cui compito non è quello di essere un “terzo grado” di giudizio, ma di verificare la corretta applicazione del diritto da parte dei giudici di merito.

La Corte ha ribadito un principio consolidato: per affermare che un frazionamento è artificioso e finalizzato a eludere la prelazione agraria, non basta dimostrare che la gestione separata dei fondi sia “meno razionale” rispetto a quella unitaria. È indispensabile provare che la porzione di fondo non venduta e posta a confine sia, per le sue caratteristiche, destinata a rimanere sterile e incolta, ovvero sia priva di qualsiasi utilità per l’alienante.

Poiché la Corte d’Appello aveva accertato, con una valutazione di fatto insindacabile in sede di legittimità, che la striscia di terreno possedeva una propria utilità agricola, il ricorso non poteva che essere respinto.

Conclusioni: implicazioni pratiche della sentenza

L’ordinanza in esame conferma che la liceità di un frazionamento volto a interrompere la contiguità tra fondi dipende da un accertamento di fatto cruciale: l’utilità oggettiva e l’autonomia funzionale della porzione di terreno che viene trattenuta dal venditore. Se tale porzione può essere coltivata e avere una sua funzione agricola, anche se specializzata o di nicchia, l’operazione è tendenzialmente legittima. Per chi intende contestare un’operazione simile, diventa fondamentale dimostrare in modo inequivocabile, nei giudizi di merito (Tribunale e Corte d’Appello), la totale e oggettiva inutilità agricola della striscia di terreno creata ad arte, poiché non sarà possibile rimettere in discussione tale accertamento davanti alla Corte di Cassazione.

È sempre illegittimo frazionare un terreno per escludere la prelazione agraria del confinante?
No. Secondo la Corte, il frazionamento è considerato legittimo se la porzione di terreno non venduta, che interrompe la contiguità, possiede obiettive caratteristiche fisiche e agronomiche che le conferiscono un’autonomia strutturale e funzionale, rendendola utilizzabile per scopi agricoli.

Cosa deve dimostrare il confinante per far valere il suo diritto in caso di frazionamento?
Il confinante deve dimostrare che la porzione di fondo non ceduta, che costituisce la fascia confinaria, è priva di qualsiasi utilità per l’alienante e destinata a rimanere sterile e incolta. Non è sufficiente provare che la gestione separata dei fondi sia semplicemente meno razionale della conduzione unitaria dell’intero fondo originario.

È possibile contestare in Cassazione la valutazione di una perizia (CTU) fatta dal giudice di merito?
No. La Corte di Cassazione ha stabilito che contestare la valutazione delle prove, come una consulenza tecnica, costituisce un tentativo di riesaminare il merito della causa. Questo non è consentito in sede di legittimità, dove la Corte può giudicare solo sulla corretta applicazione della legge e non sui fatti accertati nei gradi precedenti.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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