Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 17768 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 17768 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 01/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 1837/2021 R.G. proposto da :
RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME che lo rappresenta e difende
-ricorrente-
contro
CONCORDATO PREVENTIVO RAGIONE_SOCIALE IN LIQUIDAZIONE elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME
-controricorrenti- avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO di LECCE SEZ.DIST. DI TARANTO n. 339/2020 depositata il 19/10/2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 20/06/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
1.- La RAGIONE_SOCIALE in bonis aveva costituito in favore di Banca Intesa S.p.a. due pegni su titoli al portatore (quote del fondo comune di investimento Nextra Tesoreria PR), uno a garanzia di propri affidamenti ed uno a garanzia di linee di credito di altra società (la RAGIONE_SOCIALE). Aveva poi ottenuto decreto ingiuntivo per la restituzione delle somme ricavate dalla escussione dei pegni da parte di Banca Intesa dopo il deposito della domanda di ammissione a concordato preventivo in data 10/07/2003, per violazione del divieto di cui all’art. 168 legge fall.
2.- La Banca aveva proposto opposizione a decreto ingiuntivo in quanto il primo pegno, in realtà, non era stato escusso ed il secondo non rientrava nel divieto, chiedendo in subordine il riconoscimento del privilegio sulla somma da restituire.
3.- Il Tribunale di Taranto aveva revocato il decreto ingiuntivo, quanto al primo pegno (concesso da RAGIONE_SOCIALE a granzia di debiti propri) perché non era stata provata l’escussione della banca; quanto al secondo (concesso da RAGIONE_SOCIALE a garanzia di debiti di terzi, ovvero della società RAGIONE_SOCIALE) perché la Banca risultava creditrice non della società in concordato preventivo, bensì di una società terza (che, quindi, non rientrava nel novero dei creditori del concordato assoggettati, come tali, alle regole della procedura), ciò sul presupposto dell’inapplicabilità infondatamente eccepita -dell’art. 2800 c.c., perché nella specie erano stati emessi autonomi certificati al portatore rappresentativi delle quote di partecipazione al fondo comune d’investimento e dell’inerente garanzia, titoli consegnati alla banca garantita e trattenuti in deposito dalla stessa. Inoltre, aveva respinto la domanda riconvenzionale subordinata della Banca per il riconoscimento del privilegio sulla somma da restituire, in quanto
l’unica domanda del Concordato che era stata accolta – ossia la restituzione della somma di circa diciannovemila euro, riscossa dalla Banca a mezzo di indebita compensazione ai sensi dell’art. 169 legge fall. – non atteneva al credito pignoratizio.
4.L’amministrazione concordataria e la società avevano proposto appello contro detta sentenza sostenendo: i) l’errata interpretazione dell’art. 168 legge fall. e l’illegittima escussione del pegno relativo a quote costituenti un « cespite entrato nella procedura »; ii) l’inesistenza e inefficacia della convenzione ai sensi dell’art. 2787, comma 3, cod. civ. (ove si fosse trattato di pegno su titoli) o dell’art. 2800 cod. civ. (ove si fosse trattato di pegno su diritti di credito, per mancata realizzazione della relativa fattispecie a formazione progressiva); iii) la non opponibilità della garanzia per insufficiente indicazione del credito garantito.
5.La Corte d’appello di Lecce sez. dist. di Taranto aveva respinto l’appello sostenendo che l’art. 168 legge fall. riguarda le « azioni esecutive intraprese dal creditore del soggetto ammesso a concordato preventivo », mentre nel caso di specie la Banca aveva agito come creditore del terzo garantito; che non vi era spazio per un’applicazione analogica della norma poiché, « in caso di fallimento della RAGIONE_SOCIALE, l’istituto non avrebbe titolo per insinuarsi » al passivo; che restavano « logicamente assorbite tutte le ragioni riguardanti i riscontri probatori relativi ai certificati rappresentativi delle quote del pertinente fondo comune nonché l’esatta qualifica di queste ».
6.- La Corte di legittimità ha cassato detta sentenza poiché dagli atti di causa emergeva che il tema della validità e opponibilità della costituzione in pegno dei titoli de quibus rientrava nell’oggetto del contendere sin dal primo grado di giudizio, mentre la Corte d’appello aveva affermato, impropriamente, che le ulteriori questioni dovevano ritenersi “assorbite”, quando la validità e opponibilità degli atti costitutivi di pegno costituiva
necessariamente un prius logico rispetto alla legittimità della relativa escussione in costanza di procedura concordataria, in riferimento al divieto posto dall’art. 168 legge fall.
Il Concordato preventivo di RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE in liquidazione hanno citato in riassunzione Intesa San Paolo s.p.a. per sentirla condannare al pagamento in favore del Concordato della somma di 166.018,49 euro per illegittima escussione di n. 26.186,853 quote del fondo comune RAGIONE_SOCIALE di proprietà della RAGIONE_SOCIALE in liquidazione, con rigetto della domanda riconvenzionale di riconoscimento del privilegio pignoratizio su dette quote nonché sulle n. 39.989,964 quote del detto fondo sempre di proprietà della RAGIONE_SOCIALE in liquidazione.
Intesa Sanpaolo ha chiesto il rigetto dell’appello e in via incidentale condizionata, l’accoglimento del motivo di gravame inteso ad ottenere declaratoria di riconoscimento del privilegio a suo favore riferito ad entrambi i pegni.
8.- La Corte d’appello di Lecce sez. dist. Taranto ha:
preliminarmente respinto l’eccezione della banca circa la tardività delle eccezioni del concordato della RAGIONE_SOCIALE in punto validità efficacia e opponibilità delle convenzioni costitutive del pegno in quanto definitivamente superata dall’inequivocabile affermazione contenuta nella sentenza della Corte di legittimità a proposito della presenza, nell’oggetto del contendere, della questione della validità e opponibilità della convenzione di pegno sin dal primo grado del giudizio, laddove, nella memoria 183 c.p.c., il Concordato opposto aveva ribadito la necessità della ricorrenza dei presupposti ex art. 2787 c.c. ai fini del riconoscimento del privilegio ovvero della data certa della scrittura, la sufficiente indicazione in essa del credito garantito e dei beni consegnati in pegno, riproponendo, con il terzo motivo d’appello, il difetto di detti presupposti oltre che trattavasi di pegno su diritti di credito e
non su titoli, nonché, con il quarto motivo, l’insufficiente indicazione del credito garantito.
nello scrutinare dette eccezioni, per quanto riguarda la costituzione del pegno del 20 maggio 2000 su quote n. 39.989,984 del Fondo RAGIONE_SOCIALE ha affermato: i) la nullità della clausola n. 7 di estensione del privilegio a crediti eventuali e futuri per insufficiente indicazione degli stessi e quindi anche per omessa indicazione di un tetto massimo per esposizione debitoria ex artt. 2852-1844 c.c., essendo oggettivamente indeterminabile il saldo del conto corrente e del conto anticipi su fatture; ii) la nullità ed inefficacia dello stesso in quanto le quote del Fondo oggetto del pegno sono qualificabili come diritti di credito, ricadenti nella regolamentazione di cui all’art. 2800 c.c.
a quest’ultimo proposito ovvero sulla questione della natura delle quote del Fondo ovvero se siano configurabili come titoli di credito o diritti di credito -ha osservato, inoltre, che si trattava di questione rilevante per entrambe le ragioni di credito oggetto dei due pegni, ovvero anche con riguardo all’atto di costituzione del pegno sulle n. 26.186,853 quote del Fondo RAGIONE_SOCIALE costituito con missive del 18 febbraio e del 2 maggio 2002 a garanzia dell’obbligazione del terzo -che pure hanno data certa e individuano il credito garantito e oggetto del pegno (rappresentato dal credito verso la RAGIONE_SOCIALE); invero, contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale, ed in adesione all’indirizzo della Corte di legittimità sul punto, ha ritenuto che la partecipazione ad un Fondo Comune di investimento, in mancanza di un certificato individuale autonomo e separato, costituisce un ‘credito’ e non un ‘titolo di credito’ nei confronti del Fondo stesso, perché il certificato cumulativo non incorpora il diritto alla prestazione né può circolare limitatamente ad uno dei soggetti partecipanti al Fondo; l’investitore acquisisce solo un diritto di credito rappresentato dall’obbligo della società di investimento di gestire il
fondo e di restituirgli il valore delle quote di partecipazione: invero il certificato rappresentativo di più quote facenti capo a più investitori e caratterizzato dall’apertura di un certificato unico di ‘ rubriche distinte per singoli partecipanti eventualmente raggruppati per soggetti collocatori’ e ‘ le quote presenti nel certificato cumulativo, possono essere contrassegnate anche soltanto con un codice identificativo elettronico, fermo restando la possibilità della banca depositaria di accedere alla denominazione del partecipante in caso di emissione del certificato singolo o al momento del rimborso della quota ‘ (art. 144 comma 2 del Regolamento Banca d’Italia in materia di certificati cumulativi); ed in questo caso non era stata fornita la prova della richiesta né dell’emissione di un certificato al portatore individuale autonomo e separato.
Pertanto il pegno costituito sulle quote di partecipazione al Fondo è regolato secondo la disciplina prevista per il pegno dei crediti dall’art. 2800 c.c., il quale prescrive una fattispecie a formazione progressiva che prevede, tra l’altro, la notifica della convenzione di pegno al gestore del Fondo; laddove, nella specie, la banca non ha provato di aver effettuato la notifica della scrittura costitutiva del pegno alla RAGIONE_SOCIALE, cioè ha la società di investimento e di gestione del fondo, ovvero la sua accettazione con atto di data certa, donde l’inesistenza del privilegio pignoratizio.
In conclusione la Corte d’appello ha confermato la sentenza del Tribunale di condanna della banca a mettere nella piena disponibilità del Concordato preventivo di RAGIONE_SOCIALE il certificato al portatore rappresentativo delle n. 39.999,864 quote partecipative del Fondo RAGIONE_SOCIALE oggetto del pegno per debiti propri o il ricavato della vendita degli strumenti finanziari, e, in riforma parziale della stessa, ha condannato la banca al pagamento, altresì, in favore del Concordato preventivo della
Sidermontaggi della somma di euro 166.0 18,53 oltre interessi legali dal 10 marzo 2005, ovvero dalla data della domanda, a titolo di restituzione di quanto ricavato dalla escussione del pegno inesistente su quote n. 26.186,853 del Fondo Nextra Tesoreria; infine ha respinto la domanda riconvenzionale della banca di riconoscimento del privilegio pignoratizio riproposta con appello incidentale condizionato.
Avverso detta sentenza ha proposto ricorso Banca Intesa Sanpaolo s.p.a affidato a due motivi di cassazione e corredato di memoria. Hanno resistito con controricorso il Concordato preventivo di RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.Il primo motivo di ricorso denuncia violazione e falsa applicazione ex art. 360 I comma n. 3 c.p.c., degli articoli 2697, 2784, 2787, e 2800 c.c. per avere la Corte d’appello indebitamente invertito l’onere della prova ponendo a carico della banca l’onere di provare un fatto affermato da Sidermontaggi a fondamento della propria domanda restitutoria; sostiene il ricorrente che poiché il giudizio aveva preso avvio con un’azione monitoria mediante la quale il concordato chiedeva al Tribunale di condannare la banca alla restituzione delle somme indebitamente incassate da quest’ultima a seguito della escussione dei pegni sui titoli di credito, avvenuta in costanza di procedura concorsuale, competeva al Concordato l’onere di provare il fatto costitutivo della propria eccezione ‘impeditiva’ relativa alla invalidità, inefficacia, o inesistenza delle convenzioni di pegno; la Corte d’appello, respingendo la domanda riconvenzionale condizionata della banca circa il riconoscimento del privilegio per mancanza di prova della validità delle convenzioni di pegno senza preventivamente affrontare la domanda principale proposta dal concordato alla restituzione di quanto ricavato dall’escussione dei pegni, avrebbe
mal interpretato il senso della ricostruzione dell’ordine logico delle questioni da decidere compiuto dalla Corte di legittimità.
1.1 -Il motivo è infondato.
La Corte d’appello ha correttamente ritenuto che la banca fosse onerata della prova della validità del titolo pignoratizio in ragione del quale aveva proceduto all’escussione delle quote del fondo laddove il Concordato aveva richiesto la restituzione di quanto ricavato per violazione dell’art. 168 l.f.; avendo la banca resistito eccependo il titolo pignoratizio, a fronte della contestata validità del medesimo, era la banca stessa che doveva fornirne la prova di sussitenza e validità, costituendo – come ha colto la Corte di legittimità -detto thema probandi ‘ necessariamente un prius logico rispetto alla legittimità della relativa escussione in costanza di procedura concordataria’.
2.-Il secondo motivo denuncia nullità della sentenza ex art. 360 n. 4 c.p.c., omesso esame di un punto decisivo per il giudizio, ex art. 360 n. 5 c.p.c. come conseguenza della violazione falsa applicazione degli articoli 2697, 115 e 132 c.p.c. ex art. 360 n. 3 c.p.c. per aver la Corte d’appello fatto un uso improprio del principio sancito dall’articolo 2697 c.c. e, conseguentemente, omesso di motivare la propria decisione in ordine a un punto decisivo per il giudizio o per aver fornito una motivazione del tutto inidonea a rendere percepibili le ragioni della decisione, nonché per aver omesso ogni valutazione in merito alla documentazione probatoria allegata in atti. Sostiene la ricorrente che l’erronea ricostruzione del thema decidendi – oltre ad aver causato la predetta ingiusta inversione dell’onere della prova – aveva anche determinato erroneamente l’applicazione della regola residuale dell’onere della prova, giacché aveva deciso il punto decisivo del giudizio – cioè la corretta qualificazione delle convenzioni di pegno sulla base del fatto che non era stata data la prova della richiesta né dell’emissione di un certificato al portatore individuale,
autonomo e separato, laddove, invece -come affermato dal Tribunale quantomeno per le convenzioni di pegno del 2002 -esistevano i documenti attestanti gli autonomi certificati al portatore, donde l’inapplicabilità dell’art. 2800 c.c.; il giudice avrebbe dovuto rinnovare il giudizio sul materiale probatorio in atti e motivare adeguatamente la propria decisione mentre avrebbe reso una motivazione apparente se non inesistente.
2.1- Il motivo -che è evidentemente articolato in due diversi vizi di legittimità è infondato.
2.1.1La violazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c., che, notoriamente, riguarda l’omesso esame di un fatto storico naturalistico discusso dalle parti e decisivo per la sorte del giudizio è qui è invocata per l’omessa valutazione di elementi istruttori, ovvero di prove documentali, il cui mancato esame può essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui determini l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, segnatamente, quando il documento non esaminato offra la prova di circostanze di tale portata da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi venga a trovarsi priva di fondamento (v Cass., n. 16812/18), il che conduce al secondo aspetto di infondatezza della censura, ovvero la dedotto omessa motivazione; invero la ratio decidendi nel caso di specie è perfettamente evincibile e consiste nell’affermazione che è mancata la prova da parte della banca dell’emissione di un certificato al portatore individuale, autonomo e separato, idoneo a rappresentare la pretesa costituzione di un pegno su un bene mobile (titolo di credito) anziché su un mero credito; del resto la banca neppure ha indicato -nel ricorrere in cassazione quale sarebbe il documento decisivo non valutato o perché il suo contenuto probatorio sarebbe stato travisato.
2.1.2E’ in fondata, infine, la dedotta violazione e/o falsa applicazione degli articoli 2697 c.c. e 115 c.p.c., poiché la violazione della prima norma si configura soltanto nell’ipotesi che il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne è gravata secondo le regole dettate da quella norma, non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, il giudice abbia errato nel ritenere che la parte onerata non abbia (o abbia) assolto tale onere, poiché in questo caso vi è soltanto un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di motivazione (tra le tante Cass. 13395/2018; Cass. 15107/2013; Cass. n. 19064/2006), che, come si è appena detto, è stato qui infondatamente dedotto; in questo caso la Corte territoriale ha semplicemente applicato la regola dell’onere della prova, sul presupposto che era rimasto ignoto, all’esito dell’istruzione probatoria, il fatto presupposto della valida convenzione di pegno sui titoli escussi, che costituisce un giudizio di fatto riservato al giudice di merito perché presuppone la valutazione della congruità probatoria delle risultanze processuali (laddove si tratterebbe di falsa applicazione di legge se, accertato il fatto, il giudice avesse comunque fatto applicazione della regola dell’onere probatorio, dando torto alla parte onerata della prova di un fatto che è stato comunque accertato). Ina mmissibile, da ultimo, e’ la dedotta violazione dell’art. 115 c.p.c. per la quale occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che si limita a contestare -peraltro genericamente -l’erronea ricognizione del materiale
probatorio e l’erroneo ricorso, quindi, alla regola residuale dell’onere della prova.
3.- In conclusione il ricorso va respinto. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come nel dispositivo, ai sensi del D.M. 12 luglio 2012, n. 140. Sussistono i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato se dovuto.
P.Q.M.
La Corte respinge il ricorso; condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore della parte controricorrente, liquidate nell’importo di euro 5.700,00 di cui euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15% sul compenso ed agli accessori come per legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1bis .
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della I Sezione