Ordinanza di Cassazione Civile Sez. U Num. 14699 Anno 2025
Civile Ord. Sez. U Num. 14699 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 31/05/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 6546/2025 R.G. proposto da :
NOMECOGNOME rappresentata e difesa da ll’avvocato COGNOME;
-ricorrente-
contro
CONSIGLIO DELL ‘ ORDINE DEGLI AVVOCATI DI PADOVA;
-intimato- avverso la SENTENZA del CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE ROMA n. 25/2025, depositata il 17/02/2025.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 27/05/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
1. -Con sentenza n. 44 del 2023, il Consiglio distrettuale di disciplina (C.D.D.) del Veneto irrogò all ‘ Avv. NOME COGNOME la sanzione disciplinare della sospensione dall ‘ esercizio della professione forense per mesi due ritenendola responsabile dell ‘illecito disciplinare relativo alla ‘violazione degli artt. 9 e 25 co. 2 CDF perché faceva sottoscrivere ai sig.ri NOME COGNOME e NOME un atto di conferimento di incarico professionale avente ad oggetto ‘ASSICURAZIONE + PENALE 174/18’, che conteneva una pattuizione del compenso professionale vietata -‘5% del risultato ottenuto’ poiché volta al conseguimento di una quota del bene oggetto della prestazione’.
1.1. -A tal riguardo, il C.D.D. reputò che gli atti di conferimento dell ‘ incarico professionale sottoscritti, separatamente, dai clienti dell ‘ Avv. COGNOME su documenti di identico contenuto fossero chiaramente interpretabili, ai sensi dell ‘art. 1362 c.c., come pattuizioni che prevedevano un ‘patto di quota lite’, quale nomen iuris che, peraltro, compariva espressamente nei rispettivi atti.
Il C.D.D. affermò, infatti, che la comune intenzione delle parti era ‘chiara’ e corrispondente ‘al contenuto letterale dello scritto il cui senso rivela, per le espressioni usate e per il comportamento posto in essere dalla stessa incolpata [ossia: aver chiesto e ottenuto dall ‘ assicuratore la corresponsione delle proprie competenze nella misura del 5% dell ‘ importo liquidato ai clienti a titolo di risarcimento danni per il decesso di un loro congiunto in un
incidente stradale; aver promosso azioni monitorie a carico dei signori COGNOME -e anche della loro madre, sig.ra COGNOME in base ad altro conferimento di incarico professionale, identico a quelli stipulati con i figli -sulla scorta del patto di quota lite intercorso con ciascuno di essi] siffatta comune intenzione di concordare un patto di quota lite’.
-L ‘ impugnazione proposta dall ‘ Avv. COGNOME avverso tale decisione veniva rigettata dal Consiglio Nazionale Forense (C.N.F.) con sentenza n. 25 del 17 febbraio 2025.
2.1. – Il C.N.F. evidenziava che la ratio del divieto di cui all ‘ art. 25, comma 2, del codice deontologico forense (CDF) si evinceva dalla previsione del combinato disposto del terzo e del quarto comma dell ‘ art. 13 della legge n. 247/2012, essendo quella di tutelare l ‘ interesse del cliente e la dignità della professione forense ‘proprio per evitare la commistione di interessi tra cliente ed avvocato che invece si avrebbe quando il compenso fosse collegato, in tutto o in parte all ‘esito della lite’.
Era, dunque, corretta l ‘ interpretazione fornita dal C.D.D. del contratto di conferimento dell ‘ incarico sottoscritto con i propri assistiti dall ‘Avv. COGNOME, che configurava ‘senza dubbio alcuno un patto di quota lite facendo espresso riferimento alla percentuale del 5% del risultato ottenuto’.
Conforto in tal senso il giudice disciplinare traeva sia in base al rilievo della ‘assenza del quantum su cui calcolare la percentuale nel patto sottoscritto che, se indicato, lo avrebbe reso legittimo ed ammissibile’, sia ribadendo che ‘tale patto l’ avv. COGNOME lo ha utilizzato per le richieste di ingiunzione di pagamento nei confronti dei suoi clienti ritenendolo quindi prova documentale del presunto credito nei confronti degli stessi’.
Il C.N.RAGIONE_SOCIALE. riteneva, altresì, che far sottoscrivere ai propri clienti un patto di quota lite, vietato dalla legge e dal codice deontologico, integrasse anche la contestata violazione dell ‘ art. 9
CDF, relativa allo svolgimento dell ‘ attività forense con lealtà e correttezza, alla stregua di un ‘canone generale’ che ‘mira a tutelare l ‘ affidamento che la collettività ripone nell ‘ Avvocato stesso quale professionista leale e corretto in ogni ambito della propria attività’.
Il giudice disciplinare escludeva, infine, che meritasse accoglimento la doglianza sulla omessa irrogazione di una sanzione più lieve, avendo il C.D.D. comminato il minimo della sanzione edittale prevista dall ‘ art. 25 CDF e considerando , pure, ‘ che all ‘ incolpata era stata contestata anche la violazione del canone generale di cui all ‘art. 9 CDF’, così da palesarsi corretta anche la motivazione sulla gravità del fatto in ragione ‘dell’ intensità del dolo ravvisabile nel comportamento dell ‘incolpata’. Sotto tale specifico profilo, il C.N.F. ribadiva che, successivamente ‘al fatto’, l’ Avv. COGNOME aveva promosso ‘più azioni giudiziarie per ottenere il pagamento di quanto concordato sulla base del patto sottoscritto, in spregio al canone deontologico contestato’, ciò avendo ‘comportato per i suoi clienti, a differenza di quanto riporta il CDD, un pregiudizio consistito nel doversi difendere in sede giudiziaria da azioni prive di fondamento’, quale circostanza idonea a compromettere ‘sensibilmente’ anche l’ immagine della professione forense.
3. -Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso l ‘ Avv. NOME COGNOME affidando le sorti dell ‘ impugnazione a due motivi.
La ricorrente ha, poi, presentato separata istanza per la sospensione dell ‘ efficacia esecutiva della sentenza impugnata.
-Con provvedimento presidenziale in data 7 maggio 2025 è stata fissata nell ‘ odierna camera di consiglio la trattazione congiunta dell ‘ istanza di sospensione e del fondo dell ‘ impugnazione, con riduzione del termine di sessanta giorni di cui all ‘ art. 380bis .1 c.p.c. in ragione dell ‘ urgenza e concessione di
termini al pubblico ministero, al COA di Padova e alla ricorrente per deposito di memorie.
Non ha svolto attività difensiva il COA di Padova.
Ha depositato memoria il pubblico ministero, concludendo per il rigetto del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
-Con il primo mezzo è denunciata la violazione degli artt. 13 della legge n. 247/2012, 24 e 4 del CDF, nonché ‘mancanza di motivazione’.
La ricorrente – nel rammentare che l ‘ art. 13 della legge n. 247/2012 ammette la pattuizione ‘a percentuale sul valore dell ‘ affare o su quanto si prevede possa giovarsene, non soltanto a livello strettamente personale, il destinatario della prestazione’ e, dunque, allorquando il compenso venga «parametrato al ‘valore presunto’ della controversia, determinabile in via approssimativa già al momento del conferimento dell ‘ incarico» – sostiene che, nella specie, non sia stato pattuito un compenso ‘correlato ad una parte dei beni o dei crediti litigiosi, né tantomeno al risultato pratico dell ‘attività svolta’, ma, per l’appunto, in relazione ‘al valore presunto della controversia, individuato inizialmente nella misura di 1.000.000,00 di euro, come si evince dagli atti di causa (doc.ti 9, 10 e 11)’.
Nell ‘ accordo sottoscritto con i clienti risulterebbe, infatti, che il compenso per le prestazioni professionali era stabilito ‘nella misura del 5% del risultato ottenuto come sopra concordemente individuato’, quale dato, quest’ ultimo, ricavabile «anche dalla relazione sull ‘ attività svolta al Consiglio il 16.01.2024, dove al punto n. 14 si legge ‘la trattativa con l’ assicurazione è stata lunga e difficoltosa a causa delle pretese economiche della famiglia (non inferiore ad euro 1.000.000,00)’ (doc. 12)».
Il C.N.F. avrebbe, altresì, omesso ‘ogni valutazione sulla suitas della condotta contestata, immotivatamente desunta dalla
sola sussistenza dell ‘accordo scritto’, mancando, quindi, di soffermarsi sull ‘ elemento soggettivo della condotta e di verificare -anche alla stregua di quanto richiesto dalla giurisprudenza di legittimità (Cass., S.U., n. 6002/2021) -che la volontà dell ‘incolpata ‘fosse effettivamente quella di proporzionare il proprio onorario all ‘entità del risarcimento ottenuto’, attraverso una complessiva delibazione di tutte le circostanza di fatto rilevanti allo scopo.
1.1. -Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.
1.1.1. – Giova, anzitutto, rammentare che il divieto del patto di quota lite – già presente nell ‘ originaria formulazione dell ‘ art. 2233, terzo comma, c.c. ed eliminato dall ‘ art. 2 del d.l. n. 223 del 2006, convertito, con modifiche, nella legge n. 248 del 2006 -trova ora regolamentazione nell ‘ art. 13 della legge n. 247 del 2012.
A tal fine, occorre distinguere tra quanto previsto dal comma 3 del citato art. 13 -secondo cui è consentita la pattuizione ‘a percentuale sul valore dell ‘ affare o su quanto si prevede possa giovarsene, non soltanto a livello strettamente patrimoniale, il destinatario della prestazione’ e quanto disposto dal successivo comma 4, che esplicita, per l ‘appunto, il divieto dei ‘patti con i quali l ‘ avvocato percepisca come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa’.
Questa Corte (tra le altre: Cass. n. 11485/1997; Cass., S.U., n. 25012/2014; Cass. n. 21420/2022; Cass. n. 23738/2024) ha già avuto modo di precisare quale sia il coordinamento tra le due anzidette disposizioni e quale ratio assista il divieto (nuovamente) posto dal comma 4, da cui scaturisce la nullità assoluta del patto di quota lite, che investe qualsiasi negozio che abbia ad oggetto diritti affidati al patrocinio legale, anche di carattere non contenzioso, sempre che esso rappresenti il modo con cui il cliente si obbliga a retribuire il difensore, o, comunque, possa incidere sul suo trattamento economico.
Il patto ammesso è, quindi, quello in cui la percentuale è stata convenuta in rapporto al valore dei beni o degli interessi litigiosi, mentre il divieto negoziale scatta se la percentuale è stabilita rispetto al risultato della lite. In tal senso si coglie la giustificazione di tale divieto, volto ad enfatizzare il distacco del legale dagli esiti della lite, così da evitare la commistione di interessi tra il cliente e l ‘ avvocato, che si avrebbe qualora il compenso fosse collegato, in tutto o in parte, al risultato della controversia, con il rischio così della trasformazione del rapporto professionale da rapporto di scambio a rapporto associativo.
L ‘ esigenza è, dunque, quella di tutelare, al tempo stesso, l ‘ interesse del cliente e la dignità della professione forense, che risulterebbe vulnerata ogni qualvolta, nella pattuizione del compenso, sia ravvisabile la partecipazione del professionista agli interessi economici finali ed esterni alla prestazione richiestagli. E tanto trova rilievo non soltanto nell ‘ ipotesi in cui il compenso del legale sia commisurato ad una parte dei beni o crediti litigiosi, ma anche qualora tale compenso sia stato convenzionalmente correlato al risultato pratico dell ‘ attività svolta.
1.1.2. -Le doglianze di parte ricorrente non mettono in discussione tale approdo ermeneutico, ma si appuntano direttamente sulla portata della convenzione stipulata con i propri clienti (i sig.ri COGNOME assumendo che la stessa non contempli un patto di quota lite vietato in quanto il compenso sarebbe stato rapportato al valore della controversia.
Tuttavia, la censura non è volta a denunciare una violazione da parte del giudice disciplinare dei criteri di ermeneutica negoziale, di cui agli artt. 1362 c.c. e ss., ma si articola nel rappresentare un apprezzamento della parte alternativo a quello espresso dal C.N.F. in ordine al risultato finale dell ‘ interpretazione del contratto di incarico professionale inter partes ; un ambito, questo, che attiene, dunque, alla quaestio facti riservata al giudice
di merito e che, pertanto, rende inammissibile ogni critica che si traduca in una diversa valutazione degli stessi elementi fattuali esaminati da detto giudice (tra le altre: Cass. n. 2465/2015; Cass. n. 14355/2016; Cass. n. 15603/2021; Cass. n. 10745/2022).
Peraltro, la plausibilità dell ‘ interpretazione fornita dal C.N.F. del patto di quota lite presente nel contratto di conferimento dell ‘ incarico professionale all ‘ Avv. COGNOME non è scalfita dal rilievo della stessa ricorrente sulla correlazione ad un (iniziale) valore presunto della controversia di euro 1.000.000,00, che si assume essere parte integrante del contenuto di detto contratto.
Invero, emerge dagli stessi documenti depositati unitamente al ricorso (docc. 9 e 10 del fascicolo telematico) che i contratti sottoscritti con i Sig.ri COGNOME non contemplavano affatto quell ‘ importo e la dicitura -‘come sopra concordemente individuato’ che la stessa ricorrente intenderebbe valorizzare a sostegno della censura è da riferirsi soltanto all ‘ oggetto dell ‘ incarico professionale, siccome relativo ad ‘ASSICURAZIONE + PENALE 174/18’.
1.1.3. -Destituito fondamento è anche il profilo di doglianza che lamenta l ‘ omessa considerazione della consapevolezza della condotta oggetto del capo di incolpazione.
Anche a prescindere dalla non pertinenza rispetto al caso di specie del precedente giurisprudenziale richiamato a sostegno della censura (Cass., S.U., n. 6002/2021) -poiché relativo a patto di quota lite consentito nel regime intertemporale di cui all ‘ art. 2 del d.l. n. 223 del 2006 (convertito, con modifiche, nella legge n. 248 del 2006), richiedendosi allora, a fini disciplinari, una delibazione sulla ‘equità’ di un patto in astratto lecito -, va osservato, in via assorbente, che, nel ribadire l ‘ interpretazione, fornita dal C.D.D., circa la presenza, chiara, di un patto di quota lite nel contratto in concreto concluso dall ‘ incolpata con i propri clienti, il C.N.F. ha anche evidenziato, a conferma della ferma volontà della
professionista di addivenire a quella specifica pattuizione, la circostanza, inequivoca, di aver ella utilizzato il patto ‘per le richieste di ingiunzione di pagamento nei confronti dei suoi clienti ritenendolo quindi prova documentale del presunto credito nei confronti degli stessi’ (cfr. sintesi al § 2.1. dei ‘Fatti di causa’ e p. 5 della sentenza impugnata).
-Con il secondo mezzo è dedotta la violazione degli artt. 21, 22 CDF e 97 Cost., nonché ‘motivazione assente’, per aver il C.N.F., in punto di conferma della sanzione disciplinare comminata dal C.D.D., fornito una motivazione priva di ‘congruità, adeguatezza e coerenza’, non essendosi ‘minimamente’ soffermato sugli indici indicati dalle anzidette disposizioni del CDF, né tantomeno sulle circostanze favorevoli all ‘incolpata (‘tra cui, a titolo esemplificativo, ma non esaustivo: l ‘ incensuratezza disciplinare; la proporzionalità dei compensi richiesti; il grado della colpa; ecc.)’.
La ricorrente sostiene che la decisione del C.N.F., affatto carente di motivazione, si sarebbe, dunque, ‘risolta in arbitrio’, così da violare anche l ‘ art. 97 Cost., quale norma che troverebbe applicazione ‘nel procedimento disciplinare davanti al Consiglio territoriale, che ha natura amministrativa’.
2.1 -Il motivo è infondato.
E ‘ principio consolidato che le decisioni del Consiglio Nazionale Forense in materia disciplinare sono impugnabili dinanzi alle Sezioni Unite della S.C, ai sensi dell ‘ art. 56, comma 3, del r.d.l. n. 1578 del 1933, soltanto per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge, nonché, ai sensi dell ‘ art. 111 Cost., per vizio di motivazione, con la conseguenza che, salvo il caso di sviamento di potere e nei limiti della ragionevolezza, la correttezza nella scelta della sanzione da applicare non è di per sé censurabile in sede di legittimità (Cass., S.U., n. 20344/2018; Cass., S.U., n. 42090/2021; Cass., S.U., n. 26369/2024).
Sotto quest ‘ ultimo profilo e nella vigenza dell ‘ attuale formulazione dell ‘ art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., è, pertanto, consentito un sindacato limitato al rilievo di quella anomalia motivazionale (‘mancanza assoluta di motivi sotto l’ aspetto materiale e grafico’, ‘motivazione apparente’, ‘contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili’, ‘motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile’) che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all ‘ esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali.
Un siffatto vizio non è ravvisabile nella motivazione della sentenza impugnata in questa sede (cfr. pp. 5/7 e relativa sintesi al § 2.1. dei ‘Fatti di causa’, cui si rinvia), la quale esibisce un percorso intelligibile, dando chiara contezza del ragionamento che la sorregge in punto di misura della sanzione, mettendo in risalto -ai fini di non ritenere applicabile una sanzione più tenue – non solo la circostanza dell ‘ applicazione del minimo edittale della misura della sospensione dall ‘ esercizio della professione forense, ma anche, e segnatamente, la gravità del fatto siccome sorretto da dolo di peculiare intensità, ‘sfociato nella promozione di più azioni giudiziarie per ottenere il pagamento di quanto concordato sulla base del patto sottoscritto’ (p. 7 della sentenza impugnata).
Né, infine, si palesa pertinente il richiamo della ricorrente ad una violazione dell ‘ art. 97 Cost. e ciò non solo perché, nella prospettiva della stessa censura, si renderebbe ultroneo rispetto al perimetro entro il quale è possibile, in questa sede, sindacare la motivazione della sentenza del C.N.F., ma anche perché (come, del resto, si accenna nel ricorso) l ‘ anzidetta norma costituzionale attiene piuttosto alla dinamica del procedimento amministrativo dinanzi al Consiglio territoriale e non già a quello, propriamente
giurisdizionale, dinanzi al C.N.F. (tra le molte: Cass., S.U., n. 9949/2024).
-Il ricorso va, dunque, rigettato e ciò assorbe la richiesta di sospensione dell ‘ esecuzione ex art. 36, comma 7, della legge n. 247 del 2012.
Non occorre provvedere alla regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità in assenza di attività difensiva della parte rimasta soltanto intimata.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezioni